2001: coi “Concerti per le scuole” affrontiamo la storia del jazz

Ho parlato più volte, in questo blog, dell’importanza che la scuola, già a partire dai primissimi anni della scuola dell’obbligo, proponga regolarmente dei momenti di fruizione artistica e culturale, partendo ad esempio da un quadro, da un romanzo, da una poesia, da una musica…

Nei mesi scorsi ho potuto recuperare il video di un bel concerto-spettacolo del 2001, proposto nell’ambito dei «Concerti per le scuole» che ho organizzato e continuo a organizzare a partire dal dicembre del 1998, con tante collaborazioni a geometria variabile.

Nelle proposte per ogni edizione non mi sono mai presentato con la puzza sotto il naso – basta scorrere l’elenco delle tante edizioni per rendersene conto.

Con «Tutti quanti voglion fare jazz!», titolo scippato ai famosi «Aristogatti» della Walt Disney Productions, abbiamo voluto tentare una spiegazione di cosa fosse il jazz, attraverso uno spettacolo divertente e pieno di ottima musica dal vivo. A dire il vero il jazz aveva già fatto capolino in due occasioni precedenti, nel ’93 e nella primavera del ’98, quando i Concerti muovevano i primi passi con la regia dell’Accademia Vivaldi. Stavolta, però, volevamo andare oltre, con qualche velleità “didattica”.

Un amico di lunga data, Primo Mella, era un jazzista per passione. Quel poco che so del jazz e della sua storia lo so grazie a lui e alla sua voglia di fare proselitismo, tanto che una volta, quando insegnavo ancora nella scuola elementare, lo invitai in classe. Arrivò armato di passione, con un pacco di storici vinili sotto il braccio e una gran voglia di raccontarci tutte le vicende del jazz. Fu un pomeriggio indimenticabile.

Tuttavia, qualche anno prima, con la scomparsa della moglie, aveva troncato col jazz e con le esibizioni pubbliche, preferendo lo studio della chitarra classica, che esercitava strettamente a casa sua, in un ambiente intimo e contemplativo. Lo chiamai lo stesso per farmi dare una mano. Ci incontrammo in un bar vicino al suo ufficio e gli esposi l’idea: raccontare la storia del jazz al nostro pubblico di ragazzini della scuola dell’infanzia e di quella elementare. Pochi giorni dopo arrivò da me con un progetto tratteggiato a penna su un foglio, con una chiarezza che solo chi conosce bene la materia può permettersi.

Coinvolgemmo alcuni grandi musicisti locali – Oliviero Giovannoni e Danilo Moccia – coi quali avevo già collaborato, poi due attori – Nancy Fürst e Emmanuel Pouilly, anch’essi “vecchie” e fidate conoscenze. E, naturalmente, Giovanni Galfetti, musicista e docente di educazione musicale alla scuola Magistrale. Grazie ai contatti della coppia Moccia/Giovannoni completammo l’organico della nostra orchestra con un gruppetto di musicisti italiani di varie età ed esperienze: Luigi Tognoli, Alfredo Ferrario, Lalo Conversano e un giovanissimo Rossano Sportiello.

Lo spettacolo fu presentato al Teatro di Locarno il 5/6 aprile 2001. Sull’arco di sei repliche fu applaudito da poco meno di 2 mila 800 spettatori, allievi delle scuole dell’infanzia, elementari e speciali del Locarnese, coi loro insegnanti. Per l’occasione chiedemmo al Servizio di educazione ai mass media del Centro Didattico Cantonale di realizzare una registrazione dello spettacolo.

Ancor oggi faccio fatica a capire come mai l’incontro della scuola con una qualsiasi manifestazione artistica resti troppo spesso una pausa episodica, una specie di ricreazione pedagogica, che in pochi si sognano di approfondire e di considerare come un possibile punto di partenza per accendere altri interessi, altre conoscenze, altre emozioni.

Nei primi anni dei Concerti l’Accademia Vivaldi, che li aveva ideati, preparava una copiosa documentazione, affinché gli insegnanti che iscrivevano i loro allievi agli spettacoli potessero prepararli e – perché no? – pianificare qualche attività successiva. Ma, per lo più, questo sussidio non funzionava.

È anche per questo motivo che, con la XIV edizione, imboccai la via del concerto-spettacolo, cioè un modo per porgere la musica in un contesto teatrale. In occasione del concerto del dicembre 1999 – «Incontro con Johann Sebastian Bach», interpretato da quel grande attore che è stato Hannes Schmidhauser – con Giovanni Galfetti registrammo un CD intitolato Duemila anni di musica, una stringata storia della musica che dal Bach eseguito da Jon Lord ci porta a Monteverdi e al canto gregoriano, passando a ritroso dai grandi nomi della storia della musica.

Così per lo spettacolo sul jazz, scrissi una storiella insieme a una maestra e aggiunsi le scelte musicali di Oliviero Giovannoni, Primo Mella e Danilo Moccia. La voce narrante fu affidata a Beppe Vedani, per gentile concessione della RSI, mentre l’edizione fu curata dal compianto Giovanni Cleis (UndoStudio 2001).

Mi piace proporne alcuni minuti, dalla scoperta dell’America a «Insomma, era nato un nuovo genere musicale, che si chiamava jazz!».

Sono certo che questo racconto e il contenuto del concerto-spettacolo avrebbero potuto offrire tantissimi spunti per fare cultura a scuola e per creare nuova conoscenza, storica e civile, tanti sono i temi correlati.

Ma il condizionale è d’obbligo.


P. S.: grazie a questo progetto, Primo Mella tornò al suo primo, grande amore musicale.

Le donne, i buoi e quei pregiudizi così difficili da debellare

Mai come oggi termini come razza, razzista e razzismo sono diventati così frequenti nei dibattiti e nelle dichiarazioni (non solo) dei politici: dai grandi quotidiani giù giù fino alle moderne osterie – che in questi anni sono diventate i famigerati social, senza scordare l’esemplarità dei commenti sconnessi e fuori controllo che infestano un gran numero di portali e di edizioni online dei grandi media. Ma è difficile trovare qualcuno che acconsenta a definirsi razzista. Nessuno lo è, razzisti sono gli altri.

L’ultimo caso è rappresentato da quel candidato della Lega che ambisce a governare la regione Lombardia. Così titolava HuffingtonPost Italia: «Troppi migranti, razza bianca a rischio». Poi corregge il tiro: «È stato un lapsus». Ma, per difendersi, aveva citato nientepopodimeno che la Costituzione italiana. Ancora l’HuffingtonPost: Attilio Fontana colpisce ancora. Nonostante consideri “inopportune” le sue parole di ieri sulla “razza bianca a rischio” per l’invasione dei migranti, il candidato del centrodestra in Lombardia insiste sul tema. “Dovrebbe anche cambiare la Costituzione perché è la prima a dire che esistono le razze”. Il riferimento è all’articolo 3 della Costituzione italiana: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

Le style est l’homme même, avrebbe chiosato Georges-Louis Leclerc de Buffon, il naturalista del XVIII secolo che ha influenzato gli evoluzionisti del secolo successivo. Insomma, uno che di razze se ne intendeva.

Nel ’72 Giorgio Gaber cantava: In Virginia il signor Brown era l’uomo più antirazzista. Un giorno sua figlia sposò un uomo di colore. Lui disse «Bene!», ma non era di buon umore. Il ritornello, tra una situazione e l’altra, fa così: Un’idea, un concetto, un’idea / finché resta un’idea / è soltanto un’astrazione. / Se potessi mangiare un’idea / avrei fatto la mia rivoluzione. E c’è pure una premessa: È cambiarsi davvero, è cambiarsi di dentro, che è un’altra cosa. [Giorgio Gaber, “Un’idea”, dall’album «Dialogo tra un impegnato e un non so», 1972].

 È difficile far cambiare opinione a un adulto che s’è fatto un’idea zootecnica della specie Homo sapiens, quand’è chiaro che non esistono razze umane. Da qualche parte qualcosa non ha funzionato a dovere nell’educazione di tante persone, che son venute su così, con le loro certezze, come quelli che credono che la terra è piatta, che i castelli sono infestati dai fantasmi, che l’astrologia è una scienza e che i regali di Natale li porta Gesù bambino; e prima i nostri, che è una versione aggiornata e allargata del vecchio donne e buoi dei paesi tuoi.

Se, come detto, è quasi impossibile far cambiare certe idee a un adulto, bisognerebbe invece darsi da fare per l’educazione dei cittadini di domani – mi riferisco, per intenderci, ai ragazzini che frequentano la scuola dell’obbligo, ma anche a studenti e apprendisti delle scuole medio-superiori e professionali. Oggi non sono più sufficienti la lettura di «storie esemplari» o i pistolotti moraleggianti che fanno il verso, attualizzandolo, al Cuore deamicisiano. I predicozzi, magari tolti dal fondo dei cassetti quando succede “qualcosa” che va oltre la ragazzata, mettono in pace le coscienze del sistema scolastico, ma servono a poco. Sono strategie che forse potevano funzionare per educare i figli del secondo dopoguerra, che crescevano in una società per molti versi meno caleidoscopica di quelle venute dopo, e che, soprattutto, sentiva da più parti le storie vere, molto vicine nel tempo, del nazismo e del fascismo, di Hitler e di Mussolini, dell’olocausto e delle bombe atomiche sganciate sul Giappone.

Invece è importante che il discorso prenda le mosse da basi scientifiche, ad esempio spiegando che la specie Homo sapiens fa parte della famiglia degli Hominidae, assieme agli oranghi, ai gorilla, agli scimpanzé e agli australopitechi – quest’ultimi ormai estinti da un po’.

Oggi la divulgazione scientifica ha assunto un’enorme importanza formativa e sarebbe utile che entrasse sempre più nella scuola. Gli esempi sono numerosi. Dato che sono partito dal discorso sul razzismo ho scelto di segnalare due lavori che hanno una base scientifica molto complessa, ma che, sul piano della divulgazione, offrono degli spunti che dovrebbero toccare da vicino la nostra sensibilità.

Ellaha, giovane curda. Immagine da YouTube, Let’s Open Our World

C’è un bell’esperimento, riassunto in un emozionante filmato presente in YouTube, cinque minuti avvincenti. È stato chiesto a 67 giovani provenienti da tutto il mondo di fare un test del DNA. Hanno scoperto di avere molto più in comune con altre nazionalità di quanto avrebbero mai pensato. In quei cinque minuti di questa sintesi ci sono momenti divertenti e altri emozionanti.

Ad esempio, seguiamo il dialogo dei due ricercatori con Jay, un giovane inglese.

JAY. Sono fiero di essere inglese, la mia famiglia ha servito nell’esercito, abbiamo difeso questo paese e siamo stati in guerra. Sì, penso che il mio sia il miglior paese del mondo, in tutta onestà. Quindi so di essere inglese. I miei genitori e i miei nonni mi hanno detto che sono inglese, perciò non vedo bene altre opzioni, devo per forza essere inglese.

RICERCATORE. Secondo lei, che cosa la rende inglese?

Il fatto di essere nato in Inghilterra. Il fatto che i miei genitori siano nati in Inghilterra. Il fatto che mia nonna e mio nonno siano nati in Inghilterra. [Mostra una foto dei nonni.] Entrambi sono stati nell’esercito, come dicevo, tutti e due in marina, la Royal Navy. Io in mezzo, con mio fratello maggiore a sinistra e mio fratello minore a destra.

Pensi ad altri paesi e ad altre nazionalità del mondo; ce ne sono alcune con cui pensa di andare d’accordo o che non le piacciono molto?

La Germania, sì, non mi piacciono i tedeschi.

Perché mai?

Eh, probabilmente deriva dai miei genitori e dai mei nonni, probabilmente risale alla guerra.

Che ne direbbe di intraprendere un viaggio basato sul DNA?

Che cosa potreste dirmi che non so già?

Sa come funziona il DNA? Ne riceviamo metà dalla mamma e metà dal papà, il 50% da ciascuno di loro, e loro ricevono il 50% dai loro genitori, e così via indietro nel tempo. E tutti quei frammenti dei nostri antenati fanno di noi la persona che siamo.

Dovrebbe sputare in questo tubo, lo riempia di saliva fino alla lineetta nera. Bene, la sua storia è in quel tubo. Che cosa ci dirà?

Dirà che sono inglese, come vi ho già detto.

Due settimane dopo i due ricercatori incontrano il gruppo di giovani che si è prestato per questo esame. Ogni giovane riceve un grafico con la sua stima etnica: provenienza geografica e percentuale.

Jay, può scendere e raggiungerci? È pronto?

Non proprio, ma ormai sono qui, perciò…

Gli viene consegnata la busta coi suoi risultati.

(Sorride e sospira). Irlanda 55%, Gran Bretagna 30%, 5% tedesco e 5% turco… Ci avete infilato anche la Turchia solo per farmi arrabbiare? Germania… Oddio… Germania. Vi avevo detto che non avrei voluto essere tedesco o turco e ci sono entrambi, quindi… È un po’ uno shock scoprire da quanti paesi provengo.

Non è solo Jay dall’Inghilterra, vero?

Sì, sono Jay da tutti i paesi, a quanto pare.

Immagine da YouTube, Let’s Open Our World

Allora, le piacerebbe visitare tutti questi posti?

Turchia e Germania? Sì.

Buon viaggio.

Per chi ha tempo è voglia, ci sono i colloqui personali con Ellaha, giovane curda, Karen del Burundi, Carlos di Cuba, la francese Aurélie, Yanina dalla Russia e altri.


Per restare al tema delle razze e del razzismo, segnalo, tra i tanti, la ricerca che sta conducendo la prof. Anna-Sapfo Malaspinas, attualmente docente all’Università di Losanna. Specialista in biologia computazionale ed evolutiva, è interessata alla genetica delle popolazioni, in particolare partendo dall’analisi del DNA di popolazioni scomparse.

HORIZONS, periodico di divulgazione della ricerca scientifica legato al Fondo nazionale svizzero della ricerca scientifica e all’Accademia svizzera delle scienze, ha pubblicato in dicembre un servizio sui recenti lavori della giovane docente e ricercatrice: Chasseuse de génome aux antipodes – La généticienne qui fait parler l’ADN des peuples disparus.

Tra l’altro la rivista rimanda a un progetto didattico concreto, scaturito dai lavori della prof. Malaspinas, una pièce teatrale per grandi e piccoli – Génome Odyssée – Un viaggio teatrale al cuore della scienza e delle tradizioni aborigene – che è stato presentato al museo etnografico di Ginevra nell’autunno scorso e che resterà al Musée de l’homme di Parigi fino al 27 gennaio prossimo.


Sono solo due esempi tra i tanti. Oggi la divulgazione scientifica è praticata da specialisti di grande bravura e sa porgere temi complessi con grande fascino. Attraverso il ruolo insostituibile dei maestri, è importante trasmettere queste passioni per superare ogni forma di pensiero magico: perché la conoscenza è una cosa seria e dev’essere possibile, nella scuola, occuparsi di problemi complessi per il solo piacere di conoscere e di accrescere il proprio bagaglio culturale.

Il tempo delle opinioni importanti, quelle che guidano il cittadino quando deve prendere delle decisioni o esprimere dei pareri, verrà più in là. Ma sarebbe conveniente imparare sin dall’età più tenera che le verità scientifiche non sono convinzioni personali, magari dei semplici pregiudizi, o peggio il risultato di una votazione. La scienza non è una mera questione di maggioranze e minoranze – ne sanno qualcosa quegli scienziati, che un tempo erano pure filosofi, incappati nelle ire dei poteri dell’epoca, perché le loro scoperte mettevano in dubbio le credenze dei contemporanei. Insomma, la terra non solo non è piatta, ma addirittura gira attorno al sole, e non il contrario.

«Da grande mi piacerebbe davvero fare l’insegnante»

Ai primi di dicembre i mass-media hanno riferito diffusamente di una ricerca commissionata dal DECS al Centro di ricerca sui sistemi educativi del DFA: «Lavorare a scuola. Condizioni di benessere per gli insegnanti». Ha riassunto il committente: «L’8% dei docenti presenta sintomi di gravità media o elevata da esaurimento legato alla professione (burnout)». I dati dicono che l’80% dei docenti non sta rischiando lo sfinimento, mentre quell’altro 20%, mica un’inezia, è a livello di guardia. «Solo pochi docenti – continua il comunicato – presentano sintomi di gravità media, e una minima parte di gravità elevata». Sui motivi che innescano il burnout, la ricerca menziona «l’accresciuta diversificazione dei compiti, l’aumento della responsabilità educativa e il peggioramento dell’immagine della professione diffusa a livello sociale». Cosa fare coi dati emersi non è naturalmente un problema dei ricercatori, anche se Luciana Castelli, responsabile del progetto, ha tenuto a gettare acqua sul fuoco attizzato da qualche catastrofista. Ad esempio il portale tio.ch titolava: «550 docenti sono ‘sfiniti’ e temono per il loro futuro nelle scuole». Giustamente la ricercatrice ha precisato che si tratta di una quota contenuta, che non deve inquietare, benché non sia da trascurare.

Come ogni ricerca ben fatta, anche questa dà qualche risposta e stimola nuove domande. Si sa che la storia personale di ognuno ha a che fare con la decisione di scegliere cosa si vuol fare da grande. È vero che il caso gioca le sue carte, ma a volte sarebbe interessante conoscere quali erano i motivi della scelta e le attese. Per restare ai docenti, ci sarà chi, magari per belle esperienze di volontariato con bambini e ragazzi, ha voluto trasformare l’episodio in professione. Ci sarà chi è stato incitato da motivi etico-politici, per contribuire all’educazione dei cittadini di domani. E ancora, qualche insegnante di scuola media avrà voluto trasmettere alle nuove generazioni il suo amore per la matematica, la letteratura, il tedesco o l’inglese, le scienze o la geografia – senza naturalmente escludere ragioni più prosaiche: ha scritto Don Milani – ma parlava degli anni ’60 – che «quel posto ha fatto gola a tanti cui di fare il maestro non importa nulla. Se aumentate l’orario spariranno tutti». Dissento, perché fare il maestro può essere un lavoro difficile e faticoso. Ma non si può escludere che ci sia chi imbocchi la carriera magistrale per le vacanze o per il sogno di una vita in cattedra, al di là delle severe selezioni per l’entrata al DFA e dei controlli impietosi esercitati da ispettori, direttori ed esperti di materia.

Allora, ci si può chiedere, chissà se queste moderne rarità pedagogiche saranno capaci di salvarsi dal burnout? Sarebbe interessante incrociare i dati di questa ricerca con le storie di ciascuno, con le sue realtà esistenziali, le scelte di fronte alla professione e al futuro. Forse da un esame di tal fatta uscirebbero elementi di rilievo per orientare la selezione dei futuri insegnanti e, soprattutto, per munirli, sin dalla formazione di base, delle armi più adatte per blindare le proprie sensibilità, rafforzare le fragilità e forgiare insegnanti credibili per la scuola della Repubblica, donne e uomini che sappiano insegnare con grande rigore anche ai più recalcitranti, e che siano in grado di formare, con lungimiranza, futuri cittadini nel caos sociale, politico e culturale odierno – ciò che non è scontato: perché nessuno sa come sarà il mondo vent’anni dopo.


Nel sito del DFA è possibile scaricare il rapporto e la rassegna stampa.