Felice Varini, una star dell’arte contemporanea

Sul numero di maggio 2018 del mensile illustrato del Locarnese e Valli laRivista, ho pubblicato una sobria presentazione dell’artista locarnese Felice Varini, che la nostra Radiotelevisione, durante una chiacchierata radiofonica, ha definito «uno dei più grandi artisti contemporanei».

L’ho intitolato «Felice Varini, un locarnese a Parigi e nel mondo» (lo si può scaricare con un clic sul titolo).

So bene che ciò non ha molto a che fare con i contenuti usuali di questo blog. Ma l’arte di Varini è così particolare, che ho pensato di riprenderlo anche qui, non fosse che per arricchirlo con qualche elemento che sulla Rivista era difficile proporre. Ad esempio un breve filmato (3 minuti) dove lo si vede al lavoro mentre «dipinge» una sua opera sotto il portico del Grand Palais di Parigi: «Vingt-trois disques évidés plus douze moitiés et quatre quarts» (2013).

Qualche giorno fa c’è stato il vernissage di un’opera immensa, nella cittadina di Carcassonne, nel sud della Francia, un lavoro che, ancor prima dell’apertura, ha scatenato feroci polemiche.

«Le jaune de la discorde sévit sur la magnifique cité de Carcassonne. Pour le vingtième anniversaire de l’inscription de la cité au patrimoine de l’UNESCO, la ville a eu la belle idée de faire appel à une des star de l’art contemporaine. Il s’agit de Felice Varini, qui est connu pour ses anamorphoses…». [Fonte: http://www.expointhecity.com/, 29.04.2018]
Felice Varini al lavoro, nottetempo, dentro la cittadina medievale di Carcassonne

Consiglio infine una visita al suo sito – www.varini.org – che presenta pure, in ordine cronologico, tutte le sue opere sparse nel mondo.

Se la scuola non detta più i ritmi quasi a nessuno

Un ex collega e amico, col quale, da un po’, non si va più molto d’accordo sulle cose scolastiche, mi ha apostrofato via posta elettronica: «Sei sicuro che la scuola sia davvero obbligatoria? Negli ultimi anni che insegnavo ho notato che, con scuse varie, c’è chi parte per le vacanze prima del termine, chi torna dopo, chi ha appuntamenti dal medico o dal dentista: l’obbligatorietà è sempre più teorica». Be’, se si guarda la scuola da questo punto di vista, ha naturalmente ragione lui. Confermo, la situazione, oggi, è quella. Questo considerare il calendario scolastico come un’indicazione generica e non come un dovere è iniziato una trentina di anni fa, dapprima nelle settimane a cavallo del Natale, complice la presenza di immigrati da posti lontani, che qua non avevano radici. Così partivano o tornavano in accordo coi loro datori di lavoro, non sempre con la scuola. Poi, piano piano, il fenomeno si è allargato e oggi, ove più ove meno, questo calendario prêt-à-porter riguarda tutto l’anno scolastico – e tante famiglie indigene.

Mio padre, che lavorava nell’edilizia, raccontava di molti muratori così iellati che, all’avvicinarsi del Natale, dovevano partire improvvisamente per il sud Italia, per stare vicini a genitori e nonni pronti a imbarcarsi per l’aldilà. Erano figli senza essere padri. È un fenomeno che, tempo dopo, ho conosciuto anch’io, da direttore di scuola. Tante famiglie provenienti dai quattro angoli del pianeta avevano i parenti più cari molto lontani, e anche loro, ogni tanto, sembravano lì lì per salpare, proprio sotto Natale. Naturalmente c’erano anche famiglie più sincere, che sfruttavano questa o quell’altra festività per organizzare una vacanza extra, e chiedevano il permesso.

Insomma, sono finiti i tempi in cui la scuola dettava i ritmi urbi et orbi. Per quasi tutto il secolo scorso il rispetto del calendario scolastico è stato totale. Il primo giorno di scuola erano tutti lì, puntuali, emozionati e lustri; e fino a metà giugno, fosse pure tra uno sbadiglio e l’altro, nessuno si sognava di inventare giustificazioni intricate per scappar via qualche giorno dalla scuola – neanche il sabato mattina, che era ancora giorno di lezioni. Ma era visibilmente un altro mondo, con una diversa organizzazione del lavoro.

È sotto gli occhi di tutti qualche evidente incongruenza. In molte località, ad esempio, una percentuale significativa di padri e madri è impiegata nell’industria turistica. La scuola, però, a metà giugno abbassa le saracinesche. Così schiere di bimbi e ragazzi trascorreranno la lunga estate in colonia e nei doposcuola, oppure in paesi a diverse ore da noi, ospiti di nonni e parenti vari. Alla riapertura della scuola torneranno in aula, stanchi ma felici di ritrovare la loro quotidianità. Poi i maestri diranno che non ricordano più nulla di quel che avevano imparato entro giugno, magari con tanta fatica. Diranno, i maestri, che i ragazzi di oggi non sanno più fissare nel tempo quel che hanno appreso. Daranno la colpa alle famiglie, che se ne infischiano, e a smartphone e tablet, che mandano alla svelta il cervello (degli altri) in pappa.

I tempi della scuola sono un altro immobilismo istituzionale che è difficile da capire, se non alla luce di un conservatorismo fine a sé stesso: si è fatto così sin dal paleolitico della scuola repubblicana; e, tra alti e bassi, eccoci qua, noi ricchi occidentali, cittadini del mondo, interconnessi l’un l’altro grazie al web. Cosa c’è che non va, dunque?

Gli obbligati scacciati, un ossimoro della scuola dell’obbligo

L’art. 6 della Legge della scuola ticinese, che risale all’ormai lontano 1990, recita, al primo paragrafo, che La frequenza della scuola è obbligatoria per tutte le persone residenti nel Cantone, dai quattro ai quindici anni di età.

La regola ha radici lontane, tanto che il Parlamento che varò la prima scuola obbligatoria di questo cantone – 4 giugno 1804 – la limitò a quattro articoli, che insistevano proprio sulla decisione di renderla obbligatoria.

Sono passati due secoli e un po’. La scuola dell’obbligo, ormai, fa parte delle consuetudini, come la grippe. Si noti il preambolo di quella legge: «… la felicità di una Repubblica ben costituita deriva principalmente dalle savie istituzioni, e da una buona educazione; mentre da uomini bene educati si può sperare ogni bene, e dalla ignoranza nascono tutt’i vizj, e disordini».

Erano le preoccupazioni di 200 anni fa.

Di quell’epoca la scuola contemporanea rammenta e tiene saldo il calendario scolastico, anche se sugli alpi e nei campi finiscono solitamente lavoratori stranieri.

Nel maggio 2011 avevo pubblicato in Fuori dall’aula, la mia rubrica sul Corriere del Ticino, un articolo che aveva preso spunto da una decisione del Parlamento zurighese, che aveva inasprito le norme sull’espulsione da adottare per gli scolari più indisciplinati, spostando il periodo massimo da quattro settimane a tre mesi. Il titolo era un po’ sciocco – Quando la scuola non sa più che pesci pigliare – non così, mi pare, il contenuto.

Quell’invito alla riflessione mi è venuto in mente davanti al progetto La scuola che verrà. È probabile che la sperimentazione slitterà di un anno: non è ancora certo, ma è stato lanciato un referendum, si vedrà a giorni se riuscito (v. Ecco perché «La scuola che verrà» è un progetto progressista).

Stavo per scrivere che il referendum è stato lanciato da partiti e movimenti di destra e centro-destra, che ora la menano nel dire che tanti docenti hanno contribuito a raccogliere le 7’000 firme necessarie per demandare alle urne il verdetto finale. Purtroppo è vero. Ma non erano tutti progressisti, i docenti?

Ho letto, nei giorni scorsi,  l’ultimo romanzo di Petros Markaris, L’università del crimine (2018, Milano: La nave di Teseo). Mi ha colpito un ironico dialogo, a pagina 265, tipico di quest’autore non certamente di destra:

Ho fatto una scommessa con me stesso: cerco di trovare una manifestazione che non abbia come obiettivo una semplice protesta, che non venga indetta per la difesa di diritti acquisiti, ma abbia un carattere costruttivo. […] Ai miei tempi, le manifestazioni si facevano per cambiare il regime, per abbattere lo stato di polizia, per avere maggiore democrazia… Oggi le manifestazioni e i cortei si fanno perché nulla sia cambiato. Ecco quindi che vengo a vedere, con la speranza vana di trovare una manifestazione o un corteo che abbia, come obiettivo, il cambiamento.

Da un comunicato del Sindacato dei servizi pubblici e sociosanitari: I docenti VPOD danno il loro sostegno alla sperimentazione del modello dipartimentale La Scuola che Verrà. «Questo modello – scrivono in una nota stampa del 30 marzo – è il frutto di una lunga consultazione tra il Dipartimento DECS e le componenti della scuola, tra cui i sindacati. Dopo una prima stesura, che conteneva forti criticità, il DECS è stato capace di porvi rimedio, ascoltando le critiche e apportando i grossi correttivi richiesti dai docenti».

Mettere le valutazioni e la selezione in secondo piano è una criticità anche a sinistra. Chissà perché? Vattelapesca.

Siamo ancora a quel che diceva Don Milani: «Una scuola che si cura solo dei bravi allievi è come un ospedale che cura i pazienti sani».


P. S.: se poi qualcuno, giunto a questo punto, avesse ancora qualche minuto, consiglio di leggere un altro mio articolo del 2011, sempre nella stessa rubrica del medesimo quotidiano: «Pestalozzi! Chi era costui?», ruminava tra sé il giovane maestro. È un articolo correlato col primo, quello sull’espulsione degli allievi, dove si parla di Johann Heinrich Pestalozzi, quell’allievo di Jean-Jacques Rousseau che l’inclusione la sperimentò sul serio (senza dare le note).