Serenità, tempo, diritto: le parole perdute della scuola

Non è, di per sé, che mi spiaccia fare gli auguri, e nemmeno lo sento come un dovere più o meno conveniente. Però ci sono date con un sapore simbolico più gradevole di altre. Il passaggio da un anno al successivo è una di queste.


Nei giorni sotto Natale è circolata nei media l’originale iniziativa didattica di un’insegnante di lettere di una scuola secondaria dalle parti di Lodi. Per i suoi allievi ha avuto un’idea insolita: la rubrica delle parole perdute. Gli ultimi cinque minuti di lezione – racconta – ho deciso di impiegarli ricordando termini di scrittori del passato (da Dante ad Alessandro Manzoni) o andati ormai in disuso. Chiedo loro di memorizzarli e contestualizzarli. Il massimo per i miei alunni era citare i versi dei rapper del momento; io, invece, batto sull’antico. All’inizio erano perplessi, poi hanno iniziato a incuriosirsi, a divertirsi e a creare frasi, fino a quando una mattina un alunno si è “dichiarato” a una sua compagna affermando: “La tua presenza è alcinesca”. L’aggettivo alcinesco vuol dire attraente. In quel momento ho capito che la mia iniziativa stava funzionando.

Ne ha scritto Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera del 23 dicembre (“Le parole che fanno crescere”):

In un tempo in cui il vocabolario viene sfregiato dalle volgarità e dalle sciatterie di politici cialtroni e volgari nonché dall’esibizionismo anglofilo, quello della prof. De Luca è un gesto quasi eroico. Proporre ai ragazzi di aggiungere al loro repertorio lessicale parole inconsuete e strane, significa opporsi a quella che Pasolini, sin dagli anni 70, intravedeva profeticamente come omologazione culturale da civiltà totalitaria. E non è facile, visto che spessò l’educazione «sentimentale» giovanile è improntata al turpiloquio finto trasgressivo e finto maledetto di tanto rap o trap commerciale […]. La lingua ha un’infinità di risorse: è un deposito di storie (le etimologie sono intrecci straordinari come i migliori romanzi), un patrimonio di potenzialità creative con cui si può anche giocare, ed è il più ricco arsenale di armi (non da fuoco!) con cui farsi valere. La Prof. De Luca ha capito, probabilmente, che con l’aria che tira la prima educazione civica è quella linguistica.

ALFRED SISLEY – «Le Chemin de Montbuisson à Louveciennes», 1875, Huile sur toile (cm 46 x 61), Paris: Musée de l’Orangerie

Anche la scuola ha il suo elenco di parole perdute. Di alcune non si sente la mancanza, anche se il mondo è pieno di nostalgici – Si stava meglio quando si stava peggio!, e quattro scapaccioni erano più pedagogici di tante manfrine. No, grazie.

Ci sono invece parole che si dovrebbero recuperare, parole che arrivano da tanto tempo fa. Una, ad esempio, è tempo, una parola che ci riporta a Jean-Jacques Rousseau.

Émile ou de l’éducation, par Jean-Jacques Rousseau, citoyen de Genève, 1762: Amsterdam, chez Lean Néaulme, Libraire | Tome premier, Livre second, pp. 191-2

Così la filosofa Lina Bertola:

(…) se l’educarsi è un divenire ciò che si è, un viaggio verso sé stessi, la scuola per educare deve anche saper resistere. Resistere alle esigenze sempre più pressanti di un mercato che richiede prestazioni, inducendo a sacrificare la pienezza dell’essere allo sviluppo delle capacità di funzionare bene. Ma per educarsi occorre tempo (…). Nell’educazione di Emilio bisogna in un certo senso perdere tempo, non essere impazienti di vedere nel fanciullo l’uomo. Grande idea: perdere tempo, lasciarlo scorrere il tempo, attraversarlo con calma, come richiede l’ascolto di un sentimento, il filo di un ragionamento, la trama di un pensiero e di un racconto che sappia diventare esperienza di sé nell’ordine del senso. Bella idea per contrastare una scuola che senza il tempo non può educare. Per contrastare una scuola frettolosa e un po’ disorientata che rincorrendo performances di ogni genere arriva perfino a pensare di anticipare le scelte per migliorare la sua qualità.[Rousseau e l’educazione, RSI Rete 2, giugno 2012].

Sì, tempo è una parola da togliere dalla soffitta, perché suggerisce altre parole da rimettere in piena forma, come serenità, affinché la scuola sia un ambiente protetto, dove si possa crescere e imparare perché si percepiscono la fiducia e il rispetto. O come diritto, altra parola che ha radici millenarie, perché la vita nell’aula deve offrire a tutti la certezza del diritto, al riparo da ogni vessazione, contro l’indifferenza alle differenze, e con la scelta precisa di «passare dal mito delle pari opportunità al diritto all’educazione per tutti».

Anche nella scuola ci sono le parole perdute e sarebbe bello se qualcuno cominciasse a riportarle in vita, dentro le aule della scuola dell’obbligo e negli spazi di formazione degli insegnanti.

È il mio augurio per il 2019.

Ancora sul congresso locarnese di «LIEN» del 1927

Il bollettino della Società Storica Locarnese ha pubblicato nel suo numero del dicembre 2018, il 22° della serie, un mio scritto sul IV congresso della Lega Internazionale per l’Educazione Nuova (LIEN), che si era svolto a Locarno nell’agosto del 1927. Avevo presentato una mia piccola ricerca il 1° agosto 2017: 90 anni fa a Locarno il Congresso della “Ligue Internationale pour l’Éducation Nouvelle”, e ne avevo riferito sul Corriere del Ticino del 31 agosto (I pionieri utopisti della scuola che non fu).

Sono lieto di pubblicarlo qui in una versione ridotta e, nel contempo, del tutto esaustiva – nel senso che tutte le informazioni essenziali ci sono. Insieme si trovano le informazioni principali sulla Società Storica Locarnese, nonché l’indice del bollettino di quest’anno.

Nel documento originale del mio lavoro avevo annotato di non essere uno storico o uno storiografo e di non conoscere quindi i metodi della ricerca storica. Così il lavoro che ne era uscito era più simile a un approccio giornalistico che non a una ricerca storica. La presenza di questo nuovo articolo su una pubblicazione di storici è per me, nel contempo, un motivo di soddisfazione e l’augurio che qualcuno con più competenze di me provi ad approfondire questo episodio di storia locarnese e ticinese.

Per questa nuova pubblicazione devo ringraziare prima di tutti Rachele Pollini-Widmer, vicepresidente della SSL e redattrice del bollettino, donna competente, dinamica e infaticabile. E, poi, l’amico Enzo Marchionni, che ha rivisto il mio testo con interventi che sono andati ben oltre lo scovare il refuso ortografico o qualche concordanza grammaticale che andava per i fatti suoi.

L’educazione non è un’ammucchiata di materie scolastiche

È fuor di dubbio che la lunga campagna per il voto su «La scuola che verrà» ha soffocato un dibattito che avrebbe potuto essere sereno e politicamente appassionante. Sappiamo com’è andata a finire: non s’è cavato un ragno dal buco. Dal canto suo la scuola continuerà a esserci e, in parte, a campare sui sentieri del velleitario nuovo piano di studi progettato dal nostro Dipartimento dell’educazione, nel contesto del concordato HarmoS. Quel che è peggio è che la disputa, dopo le precipitose esequie del progetto originale del ministro Bertoli, ha finito per girare attorno al tema della selezione scolastica, seppur con dei distinguo. Il vero problema, in realtà, non è quello di stabilire se, quando e con quali mezzi far emergere le élite, gli uomini e le donne migliori che contribuiranno al progresso, al benessere e alla convivenza civile. Quella, in qualsiasi regime politico, è una necessità legittima.

Si deve però convenire che se la finalità predominante della scuola obbligatoria è quella di funzionare per eliminazioni successive degli anelli deboli della catena, allora i costi, umani ed economici, sono esagerati, soprattutto in questi tempi così utilitaristici, dove conta ciò che è monetizzabile e quotato nella borsa del successo individuale. Qual è il senso di obbligare ogni individuo a frequentare la scuola per undici anni filati, se poi gli si dice, poniamo, che la matematica non fa per lui e che le lingue foreste non le impara, perché è un pelandrone, per di più un po’ duro di comprendonio? E perché mai si continua ad affastellare l’una sull’altra una marea di discipline, senza un chiaro progetto educativo per il Paese?

Oggi viviamo polarizzazioni politiche incredibili e inspiegabili. I partiti che hanno fatto il benessere di questo Cantone partendo proprio dalla scuola, ora hanno gravi crisi di amnesia storica. L’istituzione della scuola pubblica e obbligatoria e i cambiamenti che si sono succeduti dall’800 fino agli anni della globalizzazione hanno contribuito al nostro benessere, ci hanno accompagnati attraverso due guerre mondiali, hanno agevolato la conoscenza reciproca tra regioni linguistiche e culturali diverse, ci hanno educati alla democrazia, senza cedimenti alle diverse dittature che hanno lasciato dolorose impronte in Europa. Tutto ciò è stato possibile perché la scuola dello Stato mirava a educare cittadini coscienti del ruolo di ognuno. Lo ha fatto per tanti decenni attraverso le discipline umanistiche, la matematica e le scienze naturali. I maestri facevano il maestro, non erano dei banali selezionatori, a volte un po’ maldestri. Oggi sembrerebbe che l’educazione sia diventata una specie di lusso. Proprio quando la società, sempre più variegata, è divenuta brutale verso gli adulti che lavorano, lo Stato ha deciso che l’educazione è un affare delle famiglie – anche di quelle in cui non ci si incontra e non si parla, se non per litigare: perché sopravvivere mese dopo mese non concede distrazioni, e spesso un unico salario risulta assai scarso.

Forse è il momento di chiederci cosa sta producendo questa scuola, programmata in vista del liceo, che traghetterà i migliori esemplari, scolasticamente parlando, all’università in salsa bolognese, quella del 3+2. La democrazia è una cosa seria e, come ha ricordato il presidente della repubblica italiana alla prima della Scala, la cultura e l’arte «sono un baluardo della democrazia», al di là di ogni ingegneria didattica e a favore del maggior numero possibile di futuri cittadini.