Il maestro migliore è quello che insegna

Nel dicembre scorso il Dipartimento dell’educazione aveva lanciato un ambizioso progetto per la scuola di domani. Durante la prolissa e un po’ tediosa campagna elettorale, i commenti dei candidati – spesso insindacabili sentenze – si sono mischiati a quelli di tanti addetti ai lavori, per lo più insigni professori delle scuole cantonali. L’assunto di chi è contrario, più volte reso esplicito con l’ironia, il sarcasmo o l’inopportuno sghignazzo, è quasi sempre il medesimo: siamo tutti diversi, quindi c’è chi può e chi non può. Così sarebbe ipocrita far finta che siamo tutti uguali. Chi pensa che sia possibile creare una scuola dell’obbligo equa, magari mirando alla parità dei risultati a livello elevato, vale a dire al raggiungimento del traguardo estremo a cui ognuno può spingersi, ha ricevuto gli epiteti che più vanno di moda, quali «ideologico» o, peggio, «pedagogico». Ci può anche stare che, qua e là, certe sciocchezze le dica chi fa politica. Ci siamo ormai abituati alla tuttologia impalpabile che spira ogni tanto nei parlamenti e durante le campagne elettorali. Ma sconcerta che certe asserzioni, lapidarie e irrefutabili, siano sostenute da insegnanti della scuola pubblica.

Ho sempre creduto che il compito più nobile e alto dell’insegnante sia quello di insegnare. Il bravo maestro è quello che non molla l’osso, neanche di fronte ai casi più ostinati e ribelli, e che fa tutto il possibile affinché ogni allievo giunga ad assaporare il piacere di imparare e la gioia di capire. L’insegnante capace, quello che è in chiaro sui suoi doveri etici e istituzionali, non è quello che si rivolge solo a quei tre quarti di allievi che costituiscono la media delle capacità; invece, e più correttamente, egli dà il massimo anche ai più fortunati e dotati, che imparano in fretta e con facilità, e a quegli altri che invece annaspano e hanno bisogno di aiuti supplementari per poter raggiungere gli obiettivi posti dalla scuola. Limitarsi a prendere atto che vi sono allievi in difficoltà, senza far nulla per poterli aiutare, ma sanzionando il loro insuccesso a ogni piè sospinto, è una grave inosservanza dei propri doveri professionali. Secondo questa «corrente di pensiero», inoltre, non sono da considerare solo le doti individuali, bensì anche l’impegno. Insomma: se un ragazzo già non è molto sveglio e, oltre a ciò, non investe adeguate energie nella scuola, non si vede perché la scuola dovrebbe stracciarsi le vesti. In fondo sono solo fatti suoi e della sua famiglia. Non si tratta di ipotizzare per tutti la frequenza universitaria, con inevitabile dottorato al seguito, ma il compito della scuola dell’obbligo non è di selezionare le future élite del paese, bensì di educare i cittadini di domani, prima ancora dei lavoratori.

Sarebbe come se la medicina si occupasse solo dei suoi pazienti più comodi, quelli che, sopportando qualche consiglio sensato – un po’ di moto, alimentazione equilibrata, niente vizi, un check up regolare e nessuna esagerazione – starebbero come papi. Gli altri, quelli che conducono una vita sedentaria, fumano e sbevazzano, cedono regolarmente ai peccati di gola, e magari praticano pure sport spericolati, s’accomodino pure. La medicina, lo sappiamo, ha un suo codice deontologico, che vale sia per i grandi luminari che per i paramedici. Eppure andare a scuola è obbligatorio, mentre recarsi con regolarità dal proprio medico di famiglia non lo è proprio.

Un commento su “Il maestro migliore è quello che insegna”

  1. Ogni allievo nella scuola può portare qualcosa, ha qualcosa da raccontare, anche quando sta zitto. Ha delle conoscenze, delle competenze, delle modalità di apprendimento. Insomma, ha una sua cultura individuale che il maestro ha il compito di cercare di scoprire. Questo è forse uno degli aspetti più belli dell’insegnamento, una sfida: valorizzare ogni allievo. Purtroppo oggi molti docenti non sanno far loro questo discorso. Ho tra le mani dei “giudizi” e delle note assegnate a un allievo: 3,5 in condotta e 3,5 in attività creative. Dopo qualche mese il 3,5 in attività creative diventa un 5.
    Ed è un allievo del primo ciclo, non del liceo! Questo ci sta a dire che quando si valuta in questo modo ci si limita a giudicare, piuttosto che a conoscere l’allievo.

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