Qual è l’abito che fa davvero il monaco?

Il mese scorso i delegati nazionali del partito radicale svizzero, riuniti a Morat, hanno a lungo dibattuto la proposta di generalizzare in tutto il Paese l’introduzione dell’uniforme per scolari e studenti, prendendo spunto dalla trovata di una scuola professionale basilese, che da quest’anno ha introdotto la pensata a titolo sperimentale. A che pro? Giancarlo Dillena, che ha commentato l’idea sul Corriere del 30 agosto, scrive che la divisa «… evita il confronto basato sull’esibizione da parte dei più “ricchi” di abiti e scarpe che gli altri non si possono permettere, si disinnescano le tensioni legate alle tenute sempre più provocanti delle ragazze, si favorisce anche sul piano visivo l’integrazione dei giovani immigrati». Queste, e altre ancora, sono le motivazioni invocate da chi, ormai da qualche anno, vedrebbe di buon occhio gli studenti delle nostre scuole addobbati come soldatini o come i cinesi ai tempi della rivoluzione culturale: il che dovrebbe portare indubbi vantaggi anche nel frenare certi eccessi di consumismo. Sarà, e per certi versi si può persino condividere.
Quando frequentavo la scuola elementare, nei primi anni ’60, portavamo ancora il grembiulino, ma non per questo eravamo tutti uguali, nemmeno all’apparenza. È vero che a quei tempi le differenze di classe permeavano tutta la società, e quasi quasi ne erano una caratteristica di cui neanche vergognarsi: c’erano compagni che non potevano andar male a scuola, e ce n’erano altri che per forza (e per ceto) non potevano pretendere chissà che. Per restare agli ambiti ancor oggi «uniformati», non sono uguali gli ecclesiastici, che ostentano bardature diverse a seconda del rango occupato. E lo stesso dicasi per i militari. Si potrebbe chiosare: ma due caporali sono agghindati alla stessa maniera, indipendentemente dal fatto che uno, nella vita civile, studi filologia romanza a Friborgo, mentre l’altro abbia appena terminato l’apprendistato di lattoniere. Giusto. Ma è quando aprono bocca che li voglio: perché il rischio che a uno dei due si vedano i buchi nei calzini è molto alto, a conferma dell’adagio popolare secondo cui l’abito, per una volta, non distingue obbligatoriamente il monaco.
D’altra parte i “nobili” hanno sempre trovato il modo per distinguersi dal popolino: nel ’700 arrivarono le forchette – attrezzi pericolosissimi e misteriosi – per far pesare la diversità di ceto: meglio ferirsi la lingua e il palato con le aristocratiche posate piuttosto che mangiare con le mani… È un po’ come  l’Avvocato, che pochi anni fa indossava il Rolex sopra i polsini, facendo tendenza: basta distinguersi. Oggi tutto è più confuso. Se noi, teenagers del post ’68, acclamavamo la nostra appartenenza al gregge coi jeans e il “Reporter” (senza dimenticare “Peace and love” e le inevitabili Clarks), oggi le tribù sono più variegate: i “rappers” dipendono da Eminem e i metallari dagli Iron Maiden; poi ci sono i seguaci dei Vadvuc – acronimo quanto mai rivelatore – i discendenti dei Beatles e dei Rolling Stones, i nostalgici della canzonetta italiana, gli ultras delle varie curve e senza dubbio i nazi-skin: ognuno con la sua uniforme, gli atteggiamenti coatti, l’incedere oratorio zoppicante.
Così noi potremo imporre l’uniforme scolastica al figlio del notabile – sempre che frequenti la scuola pubblica – e al suo compagno fresco di esodo dall’Angola, ma non avremo fatto nessun passo avanti sul piano dell’integrazione e delle pari opportunità. In altre parole, se domani il Liechtenstein ci occupasse manu militari e io dovessi rifugiarmi – che so? – in qualche dipartimento francese, vorrei che i miei figli imparassero bene la lingua, la storia e la geografia, i modi di dire, di fare e di essere. Mi augurerei che la scuola non si limitasse e insegnar loro che «Sur le pont d’Avignon, l’on y danse tout en rond», ma smanierei che imparassero a conoscere Hugo, Verlaine e Rimbaud, Voltaire, Rousseau e Diderot, Bizet e Debussy, Renoir e Cézanne. Per intanto, fortunatamente, posso restare qui: andrò avanti ad arrangiarmi come posso per far passare Manzoni e Leopardi, Verdi e Puccini, Giotto e Tiziano.  A ’sto punto spero solo che i nostri figli possano almeno continuare a vestirsi come vogliono, nella certezza che le divise essenziali sono altre.
Dimenticavo: i delegati radicali hanno poi deciso di lasciar perdere; ma coi problemi che ci sono, questo dell’uniforme fa venire l’orticaria.

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