Tra il diploma e il sapere a volte c’è di mezzo il mare

I diplomi sono come i certificati medici: forse attestano la verità, ma non è detto che sia sempre così. Dato però che sono atti formali e condivisi, bisogna prenderli per quel che sostengono: che uno ha il mal di schiena oppure che è in grado di insegnare, per dirne una. Fino a metà degli anni ’80 per fare il maestro si frequentava la scuola magistrale e a vent’anni si era pronti per insegnare tutte le discipline previste nelle scuole comunali, vale a dire asilo ed elementare. In poco meno di trent’anni si è passati da una scuola in cui si entrava dopo il ginnasio, nientepopodimeno che a una scuola universitaria, nel caso ticinese la SUPSI, dalla quale si esce con tanto di Bachelor of Arts (eh sì, siamo diventati tutti anglomani), dopo tre anni trascorsi tra scienze dell’educazione, didattiche disciplinari e pratiche professionali. Nella scuola media, come si sa, prevale il primato della disciplina, come nel vecchio ginnasio. Serve dunque un bachelor o un master universitario, seguito da altri due anni per conseguire il Master of Arts SUPSI in insegnamento nella scuola media. Sia chiaro: non appartengo alla nutrita schiera di chi reputa la pedagogia e la didattica fronzoli superflui, perché, secondo costoro, l’importante sarebbe «sapere le cose». «L’insegnamento – ha scritto Jean Piaget – è arte altrettanto quanto scienza», per dire che non è sufficiente essere un bravo matematico per saper insegnare la matematica a bambini e adolescenti, così come il grande calciatore non diventa automaticamente un bravo allenatore. In ogni modo bisogna prendere atto che la strada per accedere all’insegnamento è divenuta sempre più dura, lunga e tortuosa. Ma, d’altra parte, con la crescente complessità del mondo e con l’aumento dei problemi legati all’educazione delle nuove generazioni, non era più pensabile un percorso di formazione di base degli insegnanti imperniato su quelle tre bazzecole di una volta, con la pratica che, tanto, avrebbe poi fatto il resto. Ma non è ancora molto chiaro se dietro tutto questa ammucchiata di titoli e diplomi vi siano effettivamente delle competenze inconfutabili e, soprattutto, efficaci: un po’ come i certificati medici, appunto.
Come se non bastasse, in anni recenti il nostro DECS ha voluto mettere qualche cavallo di Frisia supplementare per accedere all’insegnamento nelle scuole cantonali. Ecco allora che, per essere ammessi ai concorsi, i candidati devono presentare i necessari attestati che dimostrino la conoscenza, oltre all’italiano, delle altre due lingue nazionali. Patapumfete! Nello statuire su un ricorso presentato da un docente italiano, escluso da un concorso in virtù di questa clausola sibillina, il Tribunale cantonale amministrativo ha ritenuto che «esigere la conoscenza di altre due lingue nazionali (…) costituisce una misura decisamente inappropriata e sproporzionata». Così, salvo altre procedure di ricorsi e controricorsi, questa norma è destinata a sparire. Il bello è, però, che a nessuno viene in mente di verificare, già a livello di concorsi per l’assunzione, se i candidati padroneggino la lingua italiana, che, almeno per ora, è ancora la lingua ufficiale del nostro Cantone ed è nel contempo la lingua nella quale è impartito l’insegnamento. Non è sufficiente, credo, prendere atto che si sia ottenuto l’attestato di maturità con una nota sufficiente in italiano: perché la lingua usata per insegnare – foss’anche la matematica o la geografia – non può essere incerta, sciatta e rinsecchita. Ancora una volta, dunque, converrebbe sincerarsi cosa ci sia dietro i diplomi: forse una solida competenza, forse solo la capacità di aver superato indenne un po’ di esami, benché di livello universitario. Regola che, è meglio ricordarlo, dovrebbe valere anche per tutto il resto, comprese le specifiche competenze per insegnare e l’indispensabile tensione etica per applicare almeno con decoro il principio di educabilità.

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