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Parigi e gli attacchi del 13 novembre

Devo due parole di spiegazione in entrata, sennò ci sarà chi mi biasimerà con l’accusa di occuparmi di politica, mentre la scuola non ha nulla a che fare con la politica. Dissento, ovvio. Ho sempre detto e scritto che la pedagogia è ideologica. Ritengo inoltre, benché sembri banale ribadirlo, che non solo la scuola e la famiglia educhino, anzi.

Nei giorni degli attacchi del 13 novembre a Parigi se ne sono lette e viste tante. Ripropongo qui due riflessioni che mi sono piaciute molto – e, naturalmente, non sono le uniche: chissà quante me ne sono sfuggite.

La prima è di un comico, Maurizio Crozza. La sua copertina del talk show di Giovanni Floris dello scorso 17 novembre (DiMartedì su La7) è amaramente comica. Con un francese maccheronico – ma l’importante è capirsi – l’ha intitolata Je suis un cretin totalment brancolant dans la nuit.

Ha detto, tra le altre cose, che a gennaio, dopo la strage di Charlie Hébdo, te la potevi cavare con un «Je suis Charlie». Adesso sulle magliette cosa ci scriviamo? Je suis Paris? Sì, però due giorni prima c’è stato un attentato in Libano, 44 vittime e 239 feriti. Quindi bisogna anche scriverci «Je suis Beirut». E dieci giorni prima era esploso un aereo sul Sinai, 224 morti, per cui bisogna aggiungerci anche «Airbus 321 avec les touristes russes».

Cioè: se qualcosa accade a Parigi, giustamente ci sentiamo tutti coinvolti. Se accade sul Sinai, meno, quasi nulla. Quanto deve essere vicina una barbarie perché ci colpisca come esseri umani? Cioè: piangiamo solo le città di cui abbiamo un souvenir attaccato sul frigo?

La verità è che l’unica maglietta che mi sentirei bene addosso è Je suis un cretin total, brancolant dans la nuit, un perfetto cretino che brancola nel buio. Qualcuno parla di guerra di religione. Ma a Beirut i terroristi erano mussulmani e hanno ucciso altri mussulmani. E allora? E allora io non lo so.

Alle volte invidio chi ha le idee chiare. Poi mi accorgo che chi le ha è gente come Gasparri, Belpietro e Salvini. E mi dico: ma sai che forse essere un cretin che brancola nella nuit non è mal pour moi? Il giorno dopo gli attentati, «Libero» di Belpietro titolava «Bastardi islamici»; Gasparri ha scritto: «Radiamo al suolo lo stato islamico»; e Salvini ha detto «Il terrorismo va bombardato».

Io sarò anche un cretin dans la nuit, ma loro sono dei cretin anche in pieno jour.

In effetti bombardare tutti è una soluzione: non nuovissima. Perché dopo l’11 settembre l’abbiamo fatto. E oggi in Afghanistan i talebani controllano molto più territorio di quello che avevano quindici anni fa. E il terrorismo nel mondo è più forte di prima.

Ma io sono un cretin. Brancolo.

So solo che coi nostri bombardamenti sono stati uccisi un milione di civili iracheni, 220 mila civili afghani e 80 mila civili pachistani. Più che una guerra di civiltà per ora è stata una riuscitissima guerra ai civili. E quella, secondo me, l’abbiamo già vinta. Ma sbaglio o adesso stiamo per rifare la stessa cosa?

E no, io sbaglio, je suis totalement cretin.


La seconda riflessione, pubblicata su La Regione del 18 novembre, è una lucida riflessione di Dick Marty: e non sembri irriverente l’accostamento.  Si intitola Tragico tranello. Per chi non avesse il tempo o la voglia di leggerselo interamente, eccone la  conclusione:

Il dibattito politico, come inteso oggi, appare purtroppo poco idoneo ad atteggiamenti di fredda analisi e di scelte razionali. La tentazione di capitalizzare consensi facendo leva sulle emozioni e la paura è grande. Poche ore dopo la strage di Parigi c’era già chi era all’opera in tal senso. Oltre alla repressione, necessariamente rigorosa, occorre anche agire a livello di prevenzione, ricercare e capire cioè i motivi che contribuiscono a scatenare gesti talmente disumani e indurre giovani a farsi saltare in aria per meglio uccidere altri a loro totalmente estranei. I terroristi finora identificati sono nati e cresciuti in Europa, spesso in zone gravemente trascurate dalle istituzioni e caduti nelle maglie di predicatori dell’odio, un odio e un’ideologia alimentati anche dalle ingiustizie commesse nei confronti del mondo arabo e dalla tragedia palestinese tuttora irrisolta, non senza responsabilità occidentali. Questo non giustifica niente, sia ben chiaro, ma dovrebbe almeno indurci a riflettere per definire risposte più adeguate. La stragrande maggioranza dei musulmani non si riconosce per niente in questi criminali. La reazione a questo terrorismo deve fondarsi pertanto su di un’alleanza con il mondo musulmano.

Nel generale schiamazzo politico, massmediatico, bombarolo e di pancia, converrebbe davvero lasciarsi alle spalle il proprio ticinocentrismo e provare a pensare. Già il tentativo sarebbe di per sé un bel segnale.

Giorno dopo giorno gli insegnanti accolgono nelle nostre aule schiere di bambini, ragazzi e giovani, che naturalmente han sentito parlare del 13 novembre parigino e di tutte le complessità storiche e politiche che l’accompagnano. E quasi certamente sono portatori delle interpretazioni ascoltate dai grandi, spesso senza mediazione alcuna.

Non sarebbe male riprendere in classe questi temi, magari senza bisogno di organizzare chissà quali itinerari didattici: in fondo basterebbe mettere in dubbio qualche certezza. Perché, come ha scritto una volta Umberto Eco in un suo articolo sul “Corriere della Sera”, è importante imparare a confondersi le idee fin da piccoli, per avere le idee in chiaro da grandi (citazione a memoria, purtroppo: ma anche se non l’avesse scritto è comunque un bel trattatello di pedagogia).

Anche questa sarebbe educazione civica.

Insegnamento della religione in Ticino: la storia infinita

Il meno che si possa dire è che il tema dell’insegnamento della religione sta diventando una storia infinita, come se nella scuola pubblica non esistessero problemi più importanti. Lasciando perdere talune controversie di stampo vagamente ottocentesco, la spossante contrattazione tra Stato e chiese dura ormai da molti anni, benché il tema, in una Repubblica moderna e laica, dovrebbe essere prerogativa assoluta della politica.

Tanto per ravvivare la memoria: nel marzo del 2002 il parlamentare liberalsocialista Paolo Dedini aveva chiesto di sopprimere dalle griglie settimanali l’ora facoltativa di insegnamento religioso, accordata alle due chiese riconosciute, e di sostituirla invece con l’insegnamento «della storia delle religioni, dell’etica e della filosofia nel rispetto delle finalità della scuola».

Dato che il nostro è un paese esagerato, dove i messaggi partitici vanno sempre soppesati col bilancino dello speziale, ecco in dicembre una nuova iniziativa parlamentare, stavolta sottoscritta da un gruppo di gran consiglieri del centro-sinistra, capeggiato da Laura Sadis.

Mentre Dedini richiamava il valore fondamentale e insopprimibile di una visione umanistica della società, il nuovo atto parlamentare sottolineava come «l’ignoranza dei sia pur minimi elementi di cultura cristiana negli studenti delle scuole pubbliche ticinesi è sempre più generalizzata ed evidente». E buttava sul tavolo la proposta: «In tutte le scuole è impartito un corso di cultura religiosa». Va da sé: in questi quasi tre lustri è successo poco, salvo la sperimentazione di qualche modello alternativo in alcune sedi di scuola media, corredata dall’immancabile valutazione da parte della SUPSI.

È invece di questi giorni, apparsa su questo giornale, un’articolessa del deputato PLR Giorgio Pellanda. Uno concreto, come si dice. Premette che la riflessione trae linfa anche dalla sua condizione di ex docente. Poi precisa la propria credenza confessionale cattolica e chiarisce la consapevolezza «di esprimere il pensiero di tanti ticinesi agnostici o atei che tuttavia riconoscono nelle nostre radici cristiane un auspicato nutrimento spirituale per la pace sociale». Infine cala l’originale disegno di legge, che farebbe contenti tutti: cattolici e protestanti continuano con le loro ore di catechismo dentro la scuola pubblica, mentre chi non sceglie né l’una né l’altra, va obbligatoriamente al corso di storia delle religioni – una sorta di «liberi tutti», che accontenta però solo chi dice di credere nelle religioni di stato.

Sarebbe molto più logico se il catechismo le chiese se l’organizzassero in parrocchia. E non vedo nemmeno chissà quale bisogno di inventare una nuova disciplina, la storia delle religioni.

Nell’ambito delle materie che appartengono ai piani di studio c’è già tutto quel che serve per sconfiggere «l’ignoranza dei sia pur minimi elementi di cultura cristiana» menzionata dalla proposta di Laura Sadis. Ci sono i valori dell’umanesimo e della ragione, e di radici cristiane, lì, ce n’è in abbondanza.

Basterebbe trattare in maniera appassionante e rigorosa la letteratura e la poesia, la musica e la pittura, le arti tutte e la storia del pensiero, compreso quello matematico e scientifico. Il resto è solo finzione, genuflessa ai piedi di un cerchiobottismo parlamentare che perdura da troppi anni. Siamo una terra di fervidi credenti, a condizione che l’omelia sia breve e che i dieci comandamenti siano a geometria variabile.

A proposito di educazione alla sessualità e all’affettività

La Regione del 17 ottobre ha pubblicato un bel contributo di Daniele Dell’Agnola – Il seno di Palomar – Incontri a scuola, fra Italo Calvino e altri profumi – che, da qualche parte, ha a che fare con «L’incontro», il testo per gli allievi della scuola media dedicato ai temi della sessualità e dell’affettività.

Ha fatto benissimo «Il Caffè», qualche settimana fa, a mettere a disposizione «L’incontro», il volumetto che da qualche mese, sino a oggi neanche pubblicato, è al centro di una pruriginosa polemica lanciata dai soliti ambienti cattolici, che si reputano gli unici depositari della corretta educazione, da dispensare ovviamente in famiglia, al riparo da ogni minaccia di corruzione da parte della pedagogia laica. Vien da dire che, sommessamente, anche i cattolici, a volte, portano il niqab: poi, sotto sotto, va’ a vedere cosa succede.

Eugène Delacroix (1798-1863), La Liberté guidant le peuple, 1830, Musée du Louvre
Eugène Delacroix (1798-1863), La Liberté guidant le peuple, 1830, Musée du Louvre

Conosco qualche persona che ha partecipato all’elaborazione del “manuale”. Così sono rimasto sbigottito quando ho letto di incitamento alla masturbazione o altre amenità del genere, neanche che col passaggio del Dipartimento dell’educazione dai liberali ai socialisti la politica educativa di questo Cantone abbia imboccato le strade che portano alla lussuria sfrenata, una nuova rivoluzione sessuale che farebbe arrossire Wilhelm Reich e Alfred Kinsey.

Invece no. «L’incontro», a differenza di molti tentativi del passato, è un testo ammirevole. Serio ma non serioso, tanto per cominciare: tratta argomenti anche psicologicamente difficili e controversi con un intenso rispetto verso i potenziali lettori, che sono ragazze e ragazzi di varie culture, provenienze e livelli intellettuali, che stanno crescendo in un mondo colonizzato dal sesso, con la pornografia a portata di clic e i modelli dello star system che di frequente inneggiano e incitano al machismo e alle tante sfumature del libero mercato del sesso, salvo poi indire referendum contro gli abbigliamenti islamici, perché l’Islam sottomette(rebbe) le donne.

La scelta di abbandonare finalmente il ristretto ambito del corso di scienze naturali permette di lasciarsi alle spalle un’istruzione che, a tratti, pareva essenzialmente zootecnica  – tanto politically correct da sembrare più adatta a futuri allevatori di vacche, che a uomini e donne: solo un gradino più su delle cicogne e dei cavoli – a favore di un’Educazione autorevole e responsabile ai temi della sessualità e dell’affettività.

C’è solo da sperare, ora, che a nessuno venga in mente di sottoporre gli allievi ai soliti test e di dare le note, che andranno a far media chissà con cosa. A questo livello il tema dell’affettività e della sessualità potrebbe essere un bell’esempio anche per altre discipline: perché ci si potrebbe innamorare della matematica o della letteratura, della poesia o della fisica, e avere rapporti intensi con tutte le discipline dell’arte e dell’intelletto, senza bisogno di voler misurare a ogni piè sospinto chi ce l’ha più lungo.

Ovidio, la censura e la prudenza di Einstein

Attribuito ad Albert Einstein: Zwei Dinge sind unendlich, das Universum und die menschliche Dummheit, aber bei dem Universum bin ich mir noch nicht ganz sicher. Vale a dire, più o meno: «Due cose sono infinite, l’universo e la stupidità umana. Riguardo all’universo non sono ancora completamente sicuro».

Come spesso accade, è difficile sapere se quest’aforisma appartenga veramente ad Einstein. Tuttavia credo che, se fosse ancora vivo, non avrebbe nessun problema ad ammettere che sì, die menschliche Dummheit pare non finire mai.

Sentite questa. Sul Corriere del Ticino di oggi Tommy Cappellini intervista Giulio Giorello, filosofo della scienza e allievo di Ludovico Geymonat (Oggi la libertà non è mai abbastanza), a proposito dell’uscita di un suo nuovo saggio, La libertà, edito da Bollati Boringhieri. Riporto un passaggio del dialogo.

DOMANDA. C’è un’altra «schiavitù» che avanza: quella dell’emotivamente corretto. Alla Columbia University si censura Ovidio: turba le studentesse.

RISPOSTA. «Le rispondo con un aneddoto che circolava già all’epoca di Mill [John Stuart Mill]. Una vecchietta chiama a casa sua un poliziotto: “Agente, vada sul balcone, osservi anche lei, la mia sensibilità è ferita dagli atti osceni dei miei vicini”. L’uomo esce sul balcone e si trova davanti un muro piuttosto alto: “Non vedo niente”. E la vecchia: “Ah, signor agente, non sa la fatica che devo fare per sporgermi!”. Ecco, la fatica della vecchietta è il compendio di tutti questi emotivi che s’inventano i peccati più strani».

Forse Ovidio è davvero urtante.

«Ma per favore. Si censura Ovidio perché è più difficile catturare, attraverso una seria azione di polizia, i violentatori delle suddette studentesse nei campus. E via così. Si censura la parola “negro” e si arriva tardi, a sangue versato, addosso ai suprematisti bianchi fuori di testa. Si pensi poi ai “difensori della vita” che ritengono giusto ammazzare i medici che praticano l’aborto, come è già accaduto. Invece di imporre tanto politically correct si facciano rigorose azioni politiche. Invece che alla pretesa scorrettezza intellettuale, si guardi alle prevaricazioni concrete che ci accadono sotto gli occhi. Di cui sono vittima, ovviamente, i più deboli».

Possibile?!, mi sono chiesto. Possibile censurare Ovidio in un’università blasonata come la Columbia? Grazie alla rapidità del web, sono corso a controllare. Inserendo trigger Ovid Columbia harassed si trovano quasi 240 mila risultati. Ecco qualche titolo, tra i primi link che ho trovato (tra l’altro la notizia risale alla scorsa primavera):

Una decina di anni fa, nella mia rubrica sul Corriere, avevo pubblicato un testo su temi analoghi, In America non c’è educazione senza censura: già allora si registravano episodi simili. Avevo peraltro riportato che «Le avventure di Huckleberry Finn» non è accessibile a chiunque, perché il nostro eroe smoccola un po’ troppo; oppure che tutta la saga di Harry Potter è andata incontro ad alterne fortune in questa o quell’altra scuola, perché incita alla stregoneria. Altri libri assai noti – e stra-letti da schiere di adolescenti, almeno fino a qualche anno fa, quando leggere era ancora un’attività assai diffusa dentro e fuori dall’aula – sono incappati nelle maglie censorie dell’«American Civil Liberties Union»: ad esempio «Ragazzo negro» di Wright e «Il colore viola» della Walker (razzialmente scorretti); «Ritorno al mondo nuovo» di Huxley, «1984» di Orwell e «Peter Pan» (contenuti sessuali); «Uomini e topi» di Steinbeck (linguaggio scurrile e violenza).

Noi europei, così disincantati e smaliziati, guardiamo a queste americanate con la puzza sotto il naso, neanche che la Vecchia Europa non fosse (stata) ammaliata da tanti affari americani: anche perché noi abbiamo il Vaticano, ma ci sentiamo secolarizzati; mentre, al di là dell’Atlantico, in God they trust.

In un romanzo del genovese Bruno Morchio (Colpi di coda, 2010, Milano, Garzanti), c’è un dialogo che dice molto (pagg. 111-12; il romanzo non è tra i suoi che prediligo):

«Avete vinto la guerra», mi scappò detto, «e insieme al comunismo avete fatto fuori l’istruzione di massa.»

Mi guardò dritto negli occhi, con un’espressione intensa. Sul suo viso da adolescente maturato con parsimonia affiorò un’espressione di dispiacere che forse era rammarico, forse qualcosa di più. Richiamò l’attenzione di un giovane cameriere e mi invitò a ordinare. Chiesi un caffè espresso e lui fece altrettanto.

«Gli americani dovrebbero evitare il nostro espresso», commentai. «A chi non ci è abituato scompensa il battito cardiaco.»

Ignorò la battuta, come se non avesse sentito, e domandò: «Parlavi sul serio?».

«A proposito di istruzione e comunismo? Mi sono limitato a registrare i fatti.»

«Sai benissimo che non è questo il punto.»

«E quale sarebbe il punto?»

«Quali fatti si registrano e quali no. Il comunismo ha promosso la scolarizzazione, ma ha soppresso e deportato i dissidenti e costretto interi popoli a vivere in una perenne condizione di penuria.»

«Non scaldarti», lo interruppi. «È acqua passata.»

«Sai che ti dico?» proseguì. «Il comunismo è caduto anche perché i suoi metodi non funzionavano più. Nell’era di Internet è diventato impossibile censurare una notizia. Tutto quello che si può fare è evitare che essa venga recepita, facendola scomparire in una pletora di informazioni. Tecnicamente, si chiama azzerare la differenza accrescendo la ridondanza. Sopprimere e reprimere è costoso e poco remunerativo. Molto meglio allungare e diluire, come il caffè americano rispetto al vostro espresso.»

A parte tutto l’ho scampata bella. Il mese scorso ho presentato Ovidio e le Metamorfosi a ragazzini delle scuole elementari (parlo in prima persona per evitare chiamate di correità che sarebbero ingiuste e un poco perfide). Avevo iniziato due anni fa, con quell’altro bellimbusto d’un Giovanni Boccaccio, quello del Decameron. Ci converrà passare ad autori meno pruriginosi.

Per fortuna che L’origine du monde, l’olio su tela dipinto da Gustave Courbet del 1866, è custodito in Europa, al Musée d’Orsay di Parigi.

Schtrunk!

Avevo concluso «A cosa potrà mai servire proporre Ovidio a ragazzini di dieci anni?» con toni tra l’apocalittico e l’ironico, mettendo insieme una celebre battuta di Fantozzi e l’attualità della scuola dell’obbligo. Sempre più spesso, avevo scritto, sono lì lì per spararla grossa e parafrasare il Fantozzi Rag. Ugo: «Per me… La scuola dell’obbligo…». Mi ero fermato lì, per evitare ruzzoloni scatologici. Un lettore del mio blog ha però voluto commentare, frugando in YouTube: 92 minuti di applausi.

Nella sua rubrica settimanale su Il Caffè del 27 settembre 2015, Renato Martinoni ha citato un bell’articolo che Pier Paolo Pasolini aveva pubblicato sul Corriere della Sera nel 1975. Martinoni fa sua, nel titolo e pur con gli inevitabili e necessari distinguo, la duplice proposta pasoliniana di quarant’anni fa: Abolire la scuola e oscurare la tivù – un titolo che, per certi versi e da altri punti di vista, fa il paio con quella mia conclusione, un poco sovversiva, dell’articolo appena citato.

Non conoscevo questo articolo di Pasolini, di grande interesse, che si può leggere nell’archivio del Corriere della Sera (oppure lo si può recuperare qui).

Pier Paolo Pasolini al Festival del Film di Locarno del 1973 (la foto è mia).
Pier Paolo Pasolini al Festival del Film di Locarno del 1973 (la foto è mia).

L’anno precedente questo grande intellettuale – poeta, scrittore, regista, sceneggiatore, drammaturgo, editorialista e giornalista: ma la «definizione» è perfino riduttiva – aveva pubblicato uno «Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia», sempre sul Corriere della sera (10 giugno 1974, col titolo «Gli italiani non sono più quelli»), completato il mese dopo (11 luglio 1974) con «Ampliamento del “bozzetto” sulla rivoluzione antropologica in Italia», apparso sul settimanale politico «Il Mondo» sottoforma di intervista a Guido Vergani. Tra l’altro ne avevo parlato in un precedente articolo: Di competenze, conoscenze, valutazioni e regole del gioco.

Entrambi gli scritti sono stati pubblicati nel bel volume Scritti corsari: ho l’edizione dell’editore Garzanti del 1975; lo stesso editore ha nuovamente dato alle stampe il volume nel gennaio del 2015. È una raccolta di articoli, pubblicati tra il gennaio del 1973 e il febbraio del 1975, che bisognerebbe conoscere, anche perché sono anni che hanno profondamente marchiato l’Occidente e la scuola, non solo quella dell’obbligo.

Ai tempi della mia formazione professionale, alla Magistrale ancora seminariale, avevo intuito che la scuola è un Apparato Ideologico di Stato. Il mio insegnante di pedagogia era partito da Louis Althusser, il filosofo francese attivo negli anni di Claude Lévi-Strauss e di Michel Foucault. La scuola, secondo questa teoria, è uno strumento dello Stato per educare il popolo piegandolo all’ideologia dominante, a braccetto con le chiese, le università, i sindacati e i partiti politici. Mi scuso per la sintesi estrema, che naturalmente non rende giustizia al professor Althusser, e neanche al mio insegnante di pedagogia.

Oggi il quadro sembra più complesso.

Se sfoglio i Programmi per le scuole obbligatorie del Cantone Ticino del 1959 il progetto dello Stato per l’educazione dei futuri cittadini è chiaro e lineare. I Programmi per scuola elementare del 1984, invece, risentono già di quel «politicamente corretto» che sarebbe diventato più famoso qualche anno dopo, tanto che si incontrano i primi eccessi di pedagogismo, il progetto educativo si annacqua d’un certo universalismo di maniera – più cittadini del mondo che attori consapevoli in loco, almeno, umilmente, come punto di partenza – e i contenuti dell’istruzione sono attenti al massimo grado di neutralità ed equidistanza. Insomma: se nel 1959 si poteva ancora leggere che «A suscitare amore per la patria e per le sue istituzioni devono contribuire tutte le discipline scolastiche e le manifestazioni patriottiche», nel 1984 di “patri” restano solo i patriziati e il patrimonio.

Sin dalle prime righe dei programmi dell’84 si legge che «Nulla (…) di ciò che costituisce l’umanità della persona può essere trascurato nella formazione scolastica: essa favorirà lo sviluppo del pensiero, dei sentimenti, del corpo dell’allievo: lo introdurrà a una cultura che gli permetta di partecipare pienamente alla vita sociale; formerà in lui responsabilità e senso civico, la coscienza dei legami che ci uniscono agli altri e l’impegno morale». Ma ritrovare questa dichiarazione d’intenti nel corpus dei programmi è difficile.

Per giungere all’attualità più stretta, sono in arrivo i nuovi piani di studio della scuola dell’obbligo, che nascono in un contesto globalizzato mondialmente e (H)armonizzato(S) a livello svizzero. Sarà interessante vedere come sarà la Scuola che verrà, che passerà proprio, in prima istanza, da questi corposi nuovi piano di studio.

Io, che sono più vicino alle idee di scuola di un Célestin Freinet, di un Don Milani, di un Pestalozzi o di un Lombardo-Radice, faccio fatica a capire il progetto di questa scuola che perde un sacco di tempo in verifiche, tempo sottratto all’insegnamento, e che, senza dichiararlo schiettamente, è divenuta utilitarista a oltranza. Chi sia a dettare l’agenda scolastica allo Stato non è chiaro, e già questo dovrebbe costituire un motivo di apprensione.

Il che porta a chiedersi: dov’è finito il tanto vituperato Apparato Ideologico di Stato, benché le analisi marxiane non siano più di moda? Chi tiene le briglie dell’Educazione dei futuri cittadini? Magari la scuola di oggi è proprio quella che vuole la gente: più democratico di così, insomma, si muore. Si può reclamare tutto e il contrario di tutto e la politica è lì, pronta a cavalcare tutto e il contrario di tutto. Solitamente senza neanche arrossire.

Va da sé che non sono un fautore dell’illustre benevolent dictator, del dittatore illuminato; ma faccio fatica a capire perché, in pochi anni, e attraverso un movimento di sinistra com’è stato il Sessantotto, si sia arrivati a questa società così poco umana e umanista, a questo contesto sociale dominato dalla competitività più spinta e da una marea di procedure alienanti e frustranti, da una scuola selettivissima, che, al contempo, illude le persone con la balla delle pari opportunità. Ma non si sa a chi dare la colpa, non si conosce l’avversario politico, non è possibile preparare una strategia politica per combattere. Il muro è sempre più gommoso e attaccaticcio. Tutto sembrerebbe iniziato con Margaret Thatcher e Ronald Reagan, non propriamente dei politici di sinistra.

Così, visto che mi piace prendere a prestito comici e artisti del passato, sento il bisogno, per concludere, di rubare le parole a quell’indimenticabile personaggio di Charlie Chaplin che è Adenoid Hynkel: democracy schtrunk, liberty schtrunk, freesprächen schtrunk.

Educazione schtrunk.