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Due o tre cose che so di lei…

No, non è un plagio, davvero. Al titolo del film di Jean-Luc Godard del 1967 ho aggiunto i puntini di sospensione, che non ci sono nell’originale.

Ha detto Godard, a proposito di quel suo film: «Quand on soulève les jupes de la ville, on en voit le sexe», dove la ville è Parigi.

Manifesto Godard deux ou trois chosesLa mia Lei non è Parigi, benché abbia un potere che va ben oltre quello della ville lumière: Lei è una vecchia bagascia, che malgrado gli anni che passano sembra sempre una ventenne. Ma è un principio economico: fin che c’è domanda l’offerta non può mancare, e la domanda è ancora altissima. La sua bravura risiede nella capacità di reinventarsi e adattarsi alle mode. Nel suo genere è un’artista sublime, tanto che ogni suo frequentatore crede di essere l’unico che, ripagato, la sa ripagare. Il suo favorito, insomma.

È una che ha classe, quest’è certo. Tante persone aspirano ai suoi favori, s’inchinano, la rispettano. È sopravvissuta persino al ’68, che ha fatto strame di tante oneste pratiche scolastiche, Sue inconsapevoli vittime.

Certo, è Lei, si è capito: è la notissima Nota scolastica, la Nota più nota di tutte.

Di cose che so di Lei potrei farne un elenco lungo da qui a Papeete, forse anche più in là. Già Chiccolino dove stai? / Sotto terra, non lo sai? era sottoposto al suo malvagio potere. In tenera età la dovevi sapere a memoria, sennò finivi in qualche cerchio scolasticamente infernale. Più tardi la mannaia tagliava ben altre teste: D’in su la vetta della torre antica, / Passero solitario, alla campagna / Cantando vai finché non more il giorno… E poi Né più mai toccherò le sacre sponde / ove il mio corpo fanciulletto giacque; per non parlare del Pio bove, della Cavalla storna, del 5 maggio, senza scordare Quel ramo del lago di Como, che, come è noto, volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti.

Lei ha all’attivo più vittime delle due guerre mondiali e di qualche storica epidemia, come la peste nera o il vaiolo: basti pensare alla matematica, alle date della storia, ai luoghi della geografia.

«La scuola che verrà», il progetto per la scuola del futuro lanciato neanche due anni fa dal nostro Dipartimento dell’Educazione, ha (forse aveva…) un obiettivo rivoluzionario: «Minor rigidità nell’accesso alle formazioni del Secondario II, grazie a un lavoro approfondito di orientamento e alla descrizione delle competenze degli allievi». Tradotto terra terra: si vuole abolire la media del 4.65 di media, naturalmente con riferimento ai corsi cosiddetti attitudinali, quelli solitamente riservati a chi non nasce nudo come un verme, ma strilla i primi vagiti con addosso la camicia d’ordinanza, quella che, secondo le statistiche, ti apre quasi tutte le porte, a prescindere dall’orientamento politico dei tuoi vecchi.

La Regione del 20 novembre scorso ha riferito della conclusione della prima, ampia consultazione sull’ambizioso sogno dipartimentale. Sulla questione rivoluzionaria dell’abolizione dell’iniquo e soggettivo 4.65 ha scritto:

È la proposta che ha accolto in assoluto meno consensi: quella di permettere, alla fine delle Medie, l’accesso diretto a qualsiasi formazione del Secondario II (togliendo quindi la media del 4.65 per il liceo). Critiche si sono levate dagli ambienti scolastici soprattutto per il timore di incidere negativamente sulla motivazione degli allievi e per il rischio di posticipare l’insuccesso scolastico. “Le preoccupazioni sono fondate” valuta oggi il DECS, spiegando di aver deciso di “riorientare la proposta”.

Ergo: la rivoluzione è annullata, a causa del rischio di ammutinamento delle truppe, ufficiali e sottufficiali compresi.

Così, ora, è importante dire quelle due o tre cose che si sanno di Lei.

1. Per prima cosa non è una di bocca buona. Predilige i ricchi. Se non sei ricco, o almeno benestante e anche se ti puzza il fiato, ti devi impegnare molto di più di quegli altri per raggiungere l’acme delle sue imposture.

2. Le piace sembrare scientifica e fatale, ma è una truffa, un trucchetto da imbroglione. Si sa, qua da noi pratica una scala di quattro gradi, dal 3 al 6, oltre ai mezzi punti. Poi c’è chi si sbizzarrisce e usa i più (+) e i meno (–) e mille altre variazioni, roba da far impallidire le sfumature descritte dalla E. L. James. Naturalmente ci cascano in tanti, comprese le nostre scuole, che hanno ad esempio inventato ’sta media del 4.65 e tante altre medie per essere promossi o accolti.

Ma, come dicevo, è tutto un imbroglio. La sequenza 3-4-5-6 non è una scala d’intervallo, vale a dire una scala in cui la distanza fra due valori indica sempre la medesima quantità. Lo sanno tutti che, nel caso delle note scolastiche, la distanza da 3 a 4 è solitamente più grande che, poniamo, da 5 a 6. Ciò significa che, al posto di 3-4-5-6, noi potremmo avere A-B-C-D oppure Mostruoso-Bastevole-Buono-Celestiale. Ma come A + B non fa E, non è neanche vero che, poniamo, 3 in matematica e 6 in italiano fa, mediamente, 4½ in tutt’e due: perché vuol dire che non sai la matematica e sei un mezzo genio in italiano, ma per Lei resti un grigio figurante a mezza tacca.

Ora si pensi che le discipline che contribuiscono a formare questa famigerata soglia del 4.65 sono addirittura nove: nove materie di studio che la scuola riesce a fondere in un’unica «misura», che non significa assolutamente nulla, sebbene abbia significative ricadute su chi può fregarsene e, soprattutto, su chi non se lo può permettere.

3. E dato che ho iniziato col proposito di raccontare due o tre cose che so di Lei, mettiamocene una terza, anche se, naturalmente, ce ne sono molte di più. La Nota non è scientifica e non è nemmeno neutra. Le variabili che concorrono a fare assegnare un 3, un 4 o un 5 in una prova qualsiasi, orale o scritta poco importa, sono innumerevoli, al limite dell’infinito. Andiamo dalla luna storta dell’insegnante al diametro della sua manica; dalla domanda bastarda, inessenziale ai fini della conoscenza, a quella sfuggente e un poco enigmatica; dal docente che ha insegnato bene a quell’altro che non sa neanche cosa siano la pedagogia e la didattica.

Eppure si continua imperterriti a replicare questo teatrino e, da quel che s’intuisce, Nostra Signora della Pagella festeggerà ancora chissà quanti compleanni, senza neanche la necessità di soulever les jupes pour montrer son sexe: perché la povera grulla, in consultazione per la scuola di domani, ha accolto in assoluto meno consensi.

Schtrunk!

Avevo concluso «A cosa potrà mai servire proporre Ovidio a ragazzini di dieci anni?» con toni tra l’apocalittico e l’ironico, mettendo insieme una celebre battuta di Fantozzi e l’attualità della scuola dell’obbligo. Sempre più spesso, avevo scritto, sono lì lì per spararla grossa e parafrasare il Fantozzi Rag. Ugo: «Per me… La scuola dell’obbligo…». Mi ero fermato lì, per evitare ruzzoloni scatologici. Un lettore del mio blog ha però voluto commentare, frugando in YouTube: 92 minuti di applausi.

Nella sua rubrica settimanale su Il Caffè del 27 settembre 2015, Renato Martinoni ha citato un bell’articolo che Pier Paolo Pasolini aveva pubblicato sul Corriere della Sera nel 1975. Martinoni fa sua, nel titolo e pur con gli inevitabili e necessari distinguo, la duplice proposta pasoliniana di quarant’anni fa: Abolire la scuola e oscurare la tivù – un titolo che, per certi versi e da altri punti di vista, fa il paio con quella mia conclusione, un poco sovversiva, dell’articolo appena citato.

Non conoscevo questo articolo di Pasolini, di grande interesse, che si può leggere nell’archivio del Corriere della Sera (oppure lo si può recuperare qui).

Pier Paolo Pasolini al Festival del Film di Locarno del 1973 (la foto è mia).
Pier Paolo Pasolini al Festival del Film di Locarno del 1973 (la foto è mia).

L’anno precedente questo grande intellettuale – poeta, scrittore, regista, sceneggiatore, drammaturgo, editorialista e giornalista: ma la «definizione» è perfino riduttiva – aveva pubblicato uno «Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia», sempre sul Corriere della sera (10 giugno 1974, col titolo «Gli italiani non sono più quelli»), completato il mese dopo (11 luglio 1974) con «Ampliamento del “bozzetto” sulla rivoluzione antropologica in Italia», apparso sul settimanale politico «Il Mondo» sottoforma di intervista a Guido Vergani. Tra l’altro ne avevo parlato in un precedente articolo: Di competenze, conoscenze, valutazioni e regole del gioco.

Entrambi gli scritti sono stati pubblicati nel bel volume Scritti corsari: ho l’edizione dell’editore Garzanti del 1975; lo stesso editore ha nuovamente dato alle stampe il volume nel gennaio del 2015. È una raccolta di articoli, pubblicati tra il gennaio del 1973 e il febbraio del 1975, che bisognerebbe conoscere, anche perché sono anni che hanno profondamente marchiato l’Occidente e la scuola, non solo quella dell’obbligo.

Ai tempi della mia formazione professionale, alla Magistrale ancora seminariale, avevo intuito che la scuola è un Apparato Ideologico di Stato. Il mio insegnante di pedagogia era partito da Louis Althusser, il filosofo francese attivo negli anni di Claude Lévi-Strauss e di Michel Foucault. La scuola, secondo questa teoria, è uno strumento dello Stato per educare il popolo piegandolo all’ideologia dominante, a braccetto con le chiese, le università, i sindacati e i partiti politici. Mi scuso per la sintesi estrema, che naturalmente non rende giustizia al professor Althusser, e neanche al mio insegnante di pedagogia.

Oggi il quadro sembra più complesso.

Se sfoglio i Programmi per le scuole obbligatorie del Cantone Ticino del 1959 il progetto dello Stato per l’educazione dei futuri cittadini è chiaro e lineare. I Programmi per scuola elementare del 1984, invece, risentono già di quel «politicamente corretto» che sarebbe diventato più famoso qualche anno dopo, tanto che si incontrano i primi eccessi di pedagogismo, il progetto educativo si annacqua d’un certo universalismo di maniera – più cittadini del mondo che attori consapevoli in loco, almeno, umilmente, come punto di partenza – e i contenuti dell’istruzione sono attenti al massimo grado di neutralità ed equidistanza. Insomma: se nel 1959 si poteva ancora leggere che «A suscitare amore per la patria e per le sue istituzioni devono contribuire tutte le discipline scolastiche e le manifestazioni patriottiche», nel 1984 di “patri” restano solo i patriziati e il patrimonio.

Sin dalle prime righe dei programmi dell’84 si legge che «Nulla (…) di ciò che costituisce l’umanità della persona può essere trascurato nella formazione scolastica: essa favorirà lo sviluppo del pensiero, dei sentimenti, del corpo dell’allievo: lo introdurrà a una cultura che gli permetta di partecipare pienamente alla vita sociale; formerà in lui responsabilità e senso civico, la coscienza dei legami che ci uniscono agli altri e l’impegno morale». Ma ritrovare questa dichiarazione d’intenti nel corpus dei programmi è difficile.

Per giungere all’attualità più stretta, sono in arrivo i nuovi piani di studio della scuola dell’obbligo, che nascono in un contesto globalizzato mondialmente e (H)armonizzato(S) a livello svizzero. Sarà interessante vedere come sarà la Scuola che verrà, che passerà proprio, in prima istanza, da questi corposi nuovi piano di studio.

Io, che sono più vicino alle idee di scuola di un Célestin Freinet, di un Don Milani, di un Pestalozzi o di un Lombardo-Radice, faccio fatica a capire il progetto di questa scuola che perde un sacco di tempo in verifiche, tempo sottratto all’insegnamento, e che, senza dichiararlo schiettamente, è divenuta utilitarista a oltranza. Chi sia a dettare l’agenda scolastica allo Stato non è chiaro, e già questo dovrebbe costituire un motivo di apprensione.

Il che porta a chiedersi: dov’è finito il tanto vituperato Apparato Ideologico di Stato, benché le analisi marxiane non siano più di moda? Chi tiene le briglie dell’Educazione dei futuri cittadini? Magari la scuola di oggi è proprio quella che vuole la gente: più democratico di così, insomma, si muore. Si può reclamare tutto e il contrario di tutto e la politica è lì, pronta a cavalcare tutto e il contrario di tutto. Solitamente senza neanche arrossire.

Va da sé che non sono un fautore dell’illustre benevolent dictator, del dittatore illuminato; ma faccio fatica a capire perché, in pochi anni, e attraverso un movimento di sinistra com’è stato il Sessantotto, si sia arrivati a questa società così poco umana e umanista, a questo contesto sociale dominato dalla competitività più spinta e da una marea di procedure alienanti e frustranti, da una scuola selettivissima, che, al contempo, illude le persone con la balla delle pari opportunità. Ma non si sa a chi dare la colpa, non si conosce l’avversario politico, non è possibile preparare una strategia politica per combattere. Il muro è sempre più gommoso e attaccaticcio. Tutto sembrerebbe iniziato con Margaret Thatcher e Ronald Reagan, non propriamente dei politici di sinistra.

Così, visto che mi piace prendere a prestito comici e artisti del passato, sento il bisogno, per concludere, di rubare le parole a quell’indimenticabile personaggio di Charlie Chaplin che è Adenoid Hynkel: democracy schtrunk, liberty schtrunk, freesprächen schtrunk.

Educazione schtrunk.

Di competenze, conoscenze, valutazioni e regole del gioco

Lo scopo di una partita di calcio è quello di segnare più reti dell’avversario. Nei canonici 90 minuti di durata di una partita, recuperi esclusi, è chiaro a ognuno quali sono le regole del gioco. È chiaro per gli arbitri, i giocatori e il pubblico – a meno che uno sia capitato per caso allo stadio, un po’ come se io andassi a una partita di baseball tanto per vedere, da turista, che aria si respira. Così, ad esempio, il fuori gioco è definito in termini molto precisi, e con altrettanta puntigliosità i «governanti e i parlamentari» del calcio stabiliscono con chiarezza quando si va alla rimessa laterale, cosa è lecito e cosa non lo è nei contrasti con l’avversario, quando si rischia l’espulsione o è necessario tirare un calcio di rigore. Poi, anche in questo caso come in tutte le umane vicende, non è possibile prevedere tutto. Così capita che un giocatore riesca a farla franca, o che il direttore di gioco si faccia turlupinare dall’attaccante che rantola sul terreno da gioco senza che nessuno l’abbia nemmeno sfiorato. Chi non ricorda il gol di Maradona con le mani al mondiale messicano del 1986?

La partita di calcio, ha detto qualcuno, è la simulazione di una battaglia, il cui scopo fondamentale è di vincere, divertendo e divertendosi, affinché altre battaglie possano essere combattute.

 

Le regole del gioco

Anche la scuola, mi si passi il paragone, potrebbe per certi versi assomigliare a una partita di calcio. Ma due differenze sono sostanziali. La prima è che la scuola – e mi riferisco alla scuola dell’obbligo – è una partita per la vita che si gioca una volta sola, soprattutto se non si ha avuto la fortuna di nascere con la camicia, nel ceto giusto. La seconda, ben più importante, è che le regole fondamentali sono tutt’altro che chiare, benché testi costituzionali, leggi, regolamenti, decreti, norme, programmi e via di seguito siano certamente più corposi dei regolamenti del calcio.

Prendiamo un esempio. I «Programmi per la scuola elementare» attualmente in vigore dicono a chiare lettere che vi sono alcuni obiettivi che tutti gli allievi devono raggiungere. «Gli obiettivi di padronanza – vi si legge a pagina 91 – indicano ciò che ogni allievo dovrebbe essere in grado di fare con sicurezza al termine del primo e del secondo ciclo. […] Gli obiettivi di padronanza costituiscono quindi un impegno che la scuola assume nei confronti degli allievi e delle loro famiglie, e svolgono, perciò, una duplice funzione: informano le famiglie e gli insegnanti dell’ordine scolastico successivo di ciò che deve considerarsi acquisito nel corso della scuola elementare; richiamano all’insegnante il dovere di prodigarsi perché anche gli allievi con maggiori difficoltà di apprendimento possano conseguire, per questi obiettivi, il livello di padronanza indicato.» Così, tra gli obiettivi di padronanza, troviamo cosa l’allievo dev’essere in grado di padroneggiare in scrittura alla fine della II elementare. Egli deve «Saper scrivere brevi testi, usando le parole appropriate, con frasi chiare nella costruzione e corrette nell’ortografia, limitatamente ai casi più semplici e senza esigere la sicurezza assoluta nell’uso delle doppie, dell’h nelle forme verbali, dell’apostrofo e dell’accento. Usare correttamente il punto, dimostrando ad esempio di saper inserire i punti mancanti in un semplice testo e di individuare le frasi di senso compiuto.»

Chiaro? Mica tanto, a dirla tutta. Quanto breve dovrà essere un breve testo? Quali saranno le parole appropriate e quali, invece, quelle non conformi? Fino a che punto ci si può spingere sul piano della correttezza ortografica? La soluzione più frequente è che ogni insegnante raffigura nella sua testa la soglia di padronanza, che equivale poi alla sufficienza (nota 4). A partire da quell’empirico punto di riferimento assegnerà poi le valutazioni verso il basso e verso l’alto (e sarebbe bello, una volta, leggere una chiara descrizione della soglia di padronanza, affiancata dalle sfumature che contribuiscono a gonfiare il misero quattro fino a farlo diventare un sei tondo tondo). Ora si tenga conto che già per assegnare la nota di italiano non ci si può limitare a verificare quest’unico obiettivo, ma bisogna dare una valutazione anche alle capacità orali, di ascolto e di lettura. La medesima operazione andrà ripetuta per ogni disciplina che richiede una nota – e, lo si può bene immaginare, le cose si complicano maledettamente mano a mano che passano gli anni di scuola e ci si avvicina alla quarta media.

 

La valutazione: un azzardo?

La definizione chiara di un obiettivo, inoltre, non si traduce ancora in una valutazione scientificamente oggettiva. Tante altre variabili, in effetti, concorrono a far sì che le valutazioni ottenute da un allievo non garantiscano nella realtà il raggiungimento del tale o del tal altro obiettivo: dall’inadeguatezza dei sistemi di valutazione impiegati, a un insegnamento manchevole, a scelte didattiche sbagliate. Si aggiunga poi la ben nota «indifferenza alle differenze», di cui già parlava Pierre Bourdieu quasi cinquant’anni fa. Con l’imbroglio delle «pari opportunità», e con l’esistenza stessa del meccanismo della promozione da una classe all’altra, «…la scuola trasforma differenze e disuguaglianze di diversa derivazione in insuccessi e riuscite scolastiche. Se a sei anni alcuni bambini sanno già leggere, mentre altri sono ancora molto distanti, si esige che tutti sappiano leggere circa un anno più tardi. Questa indifferenza alle differenze [Bourdieu, 1966[1]], propria della scuola, contrasta col trattamento differenziato delle persone nel campo della sanità, della giustizia, del lavoro sociale, tanto per citare qualche esempio.»[2] Eppure il tema della differenziazione dell’insegnamento non è propriamente una trovata più o meno utopica ed estemporanea di quest’ultimi anni, ma vanta una lunga serie di esperienze e di importanti riflessioni. E, d’altra parte, vi sono docenti che organizzano il loro insegnamento proprio centrando la loro attenzione pedagogica su questo basilare principio: si pensi, ad esempio, alla correzione interattiva del testo di un alunno, in luogo della correzione differita dei testi dell’intera classe; alla somministrazione mirata e adeguata di esercizi, al posto di esercizi identici per tutti; al primato del lavoro attivo dell’allievo, invece dell’ascolto fors’anche passivo di lezioni ex cathedra.

Philippe Meirieu ha annotato che «Per fortuna non è la scuola che insegna a camminare ai bambini, sennò la popolazione sarebbe formata da un terzo di buoni camminatori, un terzo di zoppi e un terzo di persone costrette a stare a letto!»[3] Camminare, in effetti, è un’operazione complessa, che non s’impara in quattro e quattr’otto, così come non si impara in un battibaleno a mangiare autonomamente col cucchiaio oppure a parlare. Statisticamente si inizia a camminare attorno all’età di dodici mesi. La statistica, per definizione, suggerisce che ciò può avvenire prima o dopo l’età indicata, che, in quanto media, si riferisce grosso modo al 70% dei bambini. Il genitore attento osserverà suo figlio e lo aiuterà a passare dal gattonare allo stare in piedi e poi a camminare al momento che gli sembrerà opportuno. Non è detto che Usain Bolt abbia iniziato a camminare con largo anticipo, né che Luciano Pavarotti strillasse meglio degli altri a poche ore dalla nascita. Sappiamo bene che la crescita di un individuo è il frutto di elementi endogeni ed esogeni. Tagliando un po’ con l’accetta, nella prima categoria metteremo le caratteristiche fisiche e mentali dell’individuo, ricevute per trasmissione genetica; nelle seconde le esperienze vissute dalla nascita in poi, alcune del tutto fortuite, altre frutto di un meditato e consapevole stimolo (insegnamento).

D’altro canto conosciamo bene gli effetti perversi che possono scaturire dall’analisi molto approfondita degli obiettivi scolastici, che per forza di cose cominciano con l’escludere tutto ciò che è di complessa valutazione, soprattutto attraverso i soliti strumenti, quali il tradizionale test o l’interrogazione. È inoltre doveroso rammentare in ogni momento che la scuola è un luogo di educazione formale, che intende insegnare o far apprendere delle conoscenze, delle nozioni, delle attitudini o delle capacità in un ambiente fortemente artificiale. Sono abbastanza note talune esperienze condotte sin dagli anni ’80 sulle competenze matematiche acquisite «on the job», sul lavoro, rispetto al classico apprendimento scolastico, per lo più di natura teorica[4]:

Numerose ricerche dimostrano la ricchezza dei saperi acquisiti fuori dalla scuola. Nel campo della matematica, ad esempio, gli analfabeti non sono necessariamente ignoranti. Essi possono risolvere problemi che richiedono dei calcoli, a volte abbastanza complessi, anche se gli algoritmi sono spesso limitati: si conta sulle dita, per esempio, e la moltiplicazione è sostituita da addizioni in sequenza. In tal modo il calcolo (mentale o orale) è spesso più lungo, più complicato, limitato ai numeri più abituali. Invece che manipolare simboli, si manipolano quantità, vale a dire delle cifre con un significato effettivo, e il risultato è immediatamente valutato in rapporto alla realtà. A scuola, per contro, l’allievo manipola per lo più dei simboli, con degli algoritmi che ricordano a volte dei ritornelli, e il risultato è confrontato solo raramente con la realtà.

Tramite una ricerca svolta a Recife, in Brasile, Nunes, Schliemann e Carraher (1993) hanno osservato dei bambini che vendevano frutta al mercato. I ricercatori hanno posto, in situazione spontanea, una serie di problemi basati sul calcolo (del tipo: quanto costano 10 ananas da 35 cruzeiros l’uno?). In seguito hanno sottoposto a quegli stessi bambini i medesimi calcoli in versione più scolastica. Mentre il 98% dei calcoli era giusto al mercato, la riuscita scendeva al 73% se gli stessi calcoli erano posti sottoforma di problemi, e solo al 37% chiedendo le operazioni fuori contesto. In un altro studio degli stessi ricercatori, si è rilevato che alcuni bambini che utilizzavano a scuola delle strategie «orali» (della strada) per la moltiplicazione, riuscivano al 100%, contro il 39% con le strategie scritte.

Naturalmente si potrebbero ricamare tante considerazioni attorno a ricerche come questa. Ciò mette comunque in luce almeno due aspetti fondamentali dell’insegnamento scolastico: il primo, che vi è sovente un più o meno alto grado di confusione tra i dati reali e la loro simbolizzazione; il secondo, che in parte può scaturire dal primo, che la conoscenza astratta può prescindere dalla comprensione adeguata dell’algoritmo, semplicemente memorizzando le strategie simboliche richieste dalla scuola. E, d’altra parte, Ivan Illich, il grande descolarizzatore, osservava che «Quasi tutto ciò che sappiamo lo abbiamo imparato fuori della scuola. Gli allievi apprendono la maggior parte delle loro nozioni senza, e spesso malgrado, gli insegnanti. Ma il tragico è che i più assorbono la lezione della scuola anche se a scuola non mettono mai piede.

È fuori della scuola che ognuno impara a vivere. Si impara a parlare, a pensare, ad amare, a sentire, a giocare, a bestemmiare, a far politica e a lavorare, senza l’intervento di un insegnante. Non fanno eccezione a questa regola neanche quei bambini che sono soggetti giorno e notte alla tutela di un maestro».[5]

 

Tempi moderni: un nuovo paradigma antropologico

E ancora: oggi siamo forse immersi in quella mutazione antropologica di cui parlava Pier Paolo Pasolini già nei primi anni ’70, per descrivere l’omologazione della società italiana attraverso i cambiamenti sociali e culturali prodotti dalla massificazione televisiva[6]. «L’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente ricevuto, e a cui “deve” obbedire, a patto di sentirsi diverso. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L’uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una “falsa” uguaglianza ricevuta in regalo. Una delle caratteristiche principali di questa uguaglianza dell’esprimersi vivendo, oltre alla fossilizzazione del linguaggio verbale (gli studenti parlano come libri stampati, i ragazzi del popolo hanno perduto ogni inventività gergale), è la tristezza: l’allegria è sempre esagerata, ostentata, aggressiva, offensiva.»

Oltre a ciò nel corso degli anni è cresciuta a dismisura e si è fatta più variata l’offerta televisiva, alla quale è necessario aggiungere tutto ciò che può essere consumato sui computer, schermi dietro ai quali i nostri allievi trascorrono ore innumerevoli. «L’esperienza della lettura e quella televisiva presentano (…) molte (…) differenze: una è legata alla capacità di concentrazione richiesta dalla lettura, che, proprio per le complesse operazioni mentali che implica, è estremamente superiore rispetto al guardare la televisione, che implica soltanto una disponibilità ad assorbire messaggi e immagini. Una seconda differenza riguarda il ritmo, estremamente individuale nella lettura, che lascia spazio a rallentamenti, accelerazioni, ritorni all’indietro ecc., mentre in televisione il ritmo è imposto dall’esterno e non può essere variato, sia che un programma sia interessante, sia che sia noioso, sia che richieda una chiarificazione e quindi un ritorno indietro: in televisione si può andare soltanto in una direzione, in avanti, seguendo un ritmo che è uguale per tutti e che non risente della nostra momentanea capacità di attenzione. Attraverso la lettura noi creiamo le immagini cui allude un testo e la nostra creatività viene stimolata nel momento in cui leggiamo: la lettura, insomma, libera l’immaginazione e fa lavorare la nostra mente. A differenza della lettura, altre esperienze basate su un mondo fatto di immagini, come la televisione, hanno un minor potere evocativo e non mettono in moto strutture e funzioni addette alla logica del linguaggio. Per dirla con le parole dello psicologo Bruno Bettelheim, l’esperienza televisiva è molto diversa in quanto “la televisione cattura l’immaginazione ma non la libera, mentre un buon libro stimola e libera la mente”.»[7]

Tant’è, è inutile far finta che questi fenomeni non esistano e che sia possibile continuare a organizzare l’insegnamento «come se…», tanto più che il bombardamento massmediatico non colpisce certamente solo i nostri allievi, ma concerne anche i loro genitori, i loro insegnanti e i nostri politici. Nelle nostre aule, tuttavia, cresce il numero di allievi fin troppo vivaci, che faticano a concentrarsi, a ricordare, ad ascoltare, a dedicarsi al compito con la necessaria attenzione; e che, col crescere dell’età, manifestano vieppiù comportamenti tanto esuberanti, da sconfinare sovente nel «problematico».

 

La scuola dell’obbligo e la preparazione alla vita

Tutto quanto precede deve poi per forza di cose confrontarsi con i programmi di studio degli attuali due settori della scuola dell’obbligo, che si trasformeranno in un «nuovo» piano di studio in vista dell’introduzione di HarmoS. Le virgolette non sono casuali, perché è difficile immaginare chissà quali stravolgimenti. Benché la scuola dell’obbligo debba prevedere l’insegnamento di alcune competenze fondamentali, sappiamo che alcune discipline sono più «fondamentali» di altre, così come siamo consapevoli che, all’interno di ogni disciplina, è difficile capire cosa sia per davvero necessario conoscere entro i quindici anni e cosa, invece, potrebbe essere indispensabile solo a determinate condizioni, come ad esempio imboccare la via degli studi superiori fino all’università.

È noto, ad esempio, che nella scuola elementare l’italiano e la matematica sono più «fondamentali» delle altre discipline, soprattutto in termini di valutazioni finali e di selezione. Ma anche nella scuola media questo fenomeno è ben presente, anche se non è formalizzato né, tanto meno, dichiarato. Ed è in particolare nella scuola media che crescono e si diffondono molti contenuti per nulla fondamentali nel contesto della scuola obbligatoria, seppur con alcune doverose precisazioni. Philippe Perrenoud, citando lo psicologo Christian Guillevic, fa un esempio un poco provocatorio[8]: «È sufficiente, per essere meglio preparati alla vita, che gli allievi imparino a mobilitare il teorema di Pitagora per risolvere dei problemi reali? Evidentemente si risponderebbe in modo affermativo se fosse necessario attivare di frequente il teorema di Pitagora nella nostra vita. Ma in realtà chi se ne serve, a parte quelli che esercitano una professione legata alla geometria? Taluni che se ne servono professionalmente, ad esempio i carpentieri, non conoscono quel teorema, ma applicano una regola che ne è solo una derivazione e che loro stessi sarebbero in difficoltà a spiegare: per verificare che due travi di un tetto formino un angolo retto, il carpentiere fa un segno su una trave a 6 dm dal vertice e un segno a 8 dm sull’altra. Tende poi una cordicella tra i due segni e misura la distanza che li separa. Se questa è esattamente di un metro, conclude che l’angolo è retto. A giusto titolo, poiché in effetti nel triangolo rettangolo virtuale così creato, il quadrato dell’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati dei due lati dell’angolo retto (102 = 62 + 82, ovvero 100 = 36 + 64). La procedura funziona perché è fondata sul teorema di Pitagora, ma non c’è nessuna necessità di conoscerlo per servirsene in modo efficace».

Va da sé che non è certo nelle mie intenzioni – né, immagino, in quelle di Perrenoud – estendere concretamente tale ragionamento a tanti e tanti contenuti dei programmi scolastici, con un’azione un poco iconoclastica, ciò che, d’altra parte, rischierebbe di contribuire all’ampliamento ragguardevole della già estesa schiera dei Fachidioten, gli «idioti specializzati». Per coerenza, lo stralcio del teorema di Pitagora dai programmi della scuola dell’obbligo comporterebbe pure la cancellazione di tanti e tanti contenuti, forse di intere discipline: dalla letteratura alla poesia, dall’algebra alla musica, dalla biologia alla storia, è tutto un fiorire di conoscenze di cui, volendo, si può fare a meno. In realtà il problema non risiede nel teorema di Pitagora, né negli eucarioti o nella Svizzera dei 13 cantoni, e men che meno in Francesco Petrarca, Alessandro Manzoni, Johann Sebastian Bach o Michelangelo Buonarroti. Sul piano dell’arricchimento culturale e dello sviluppo della speculazione intellettuale e dello spirito critico servono ben altre conoscenze, che superano le competenze pratiche per preparare alla vita. Ma è palese che se tali conoscenze diventano le armi improprie della selezione scolastica, allora la scuola dell’obbligo vien meno al suo mandato. Lo stesso Perrenoud, inoltre, solleva un altro problema, legato ad alcune discipline ugualmente «utili» e importanti per la formazione dei futuri cittadini, discipline che, tuttavia, non fanno parte, se non sporadicamente e di straforo, dei programmi della scuola dell’obbligo, come la psicologia e la psicanalisi, la sociologia, le scienze politiche e quelle economiche, il diritto, la criminologia, l’architettura e l’urbanistica. [9]

La questione si pone naturalmente in tutta la sua complessità, tenuto conto che già oggi gli allievi della scuola media sono sottoposti a un carico orario molto (troppo?) elevato. Eppure l’elenco delle discipline ignorate dalla scuola dell’obbligo non può lasciare indifferenti. Ma come fare? Si immagini il putiferio che si scatenerebbe se solo il Dipartimento avviasse una procedura per ridurre di una quindicina di ore settimanali la dotazione oraria delle discipline attuali per far posto alle nuove. Le diverse lobby disciplinari ipotizzerebbero scenari apocalittici, con un Ticino del futuro deprivato di ingegneri, scienziati e letterati. E farebbero certamente presente che già oggi le ore riservate alle loro discipline è ampiamente insufficiente. I sindacati, dal canto loro, minaccerebbero scioperi e barricate, sommando apocalisse ad apocalisse. Insomma, sarebbe (è!) difficile modificare tradizioni e convinzioni, quasi sempre basate sulla (semplice) constatazione che «si è sempre fatto così».

 

Insegnare per competenze? A certe condizioni…

In tutto questo contesto di domande senza risposte convincenti, HarmoS e il conseguente nuovo piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese porteranno con sé anche l’insegnamento «per competenze». Non entro nel merito delle diverse definizioni che tentano di chiarire cosa possa significare, nel concreto, un funzionamento della scuola sulla base della costruzione di competenze piuttosto che, secondo una tradizione molto diffusa, sulle più identificabili conoscenze, quelle che prima del ’68 si chiamavano nozioni. Diversi sistemi scolastici del mondo occidentale sono stati sedotti dall’insegnamento per competenze, soprattutto da quando, negli ultimi anni del secolo scorso, diversi organismi internazionali, tra i quali l’OCSE, ne hanno fatto un cavallo di battaglia. Per quel che mi concerne mi intriga la possibilità di organizzare l’insegnamento obbligatorio attraverso tematiche pedagogiche e didattiche marcatamente interdisciplinari. A pensarci bene, già Jean-Jacques Rousseau dispensava al suo Emilio un insegnamento che mirava alle competenze, così come in maniera analoga agiva Johann Heinrich Pestalozzi, così sensibile alle diverse dimensioni educative (la testa, il cuore, le mani). La stessa corrente nota come scuola attiva, quella dei Freinet, dei Lodi e dei Don Milani, aspirava a superare il nozionismo, utile più a chi dà le note che a chi le riceve, per affrontare dei percorsi pedagogico-didattici fortemente interdisciplinari, con tutte le loro ricchezze umane e umanistiche, nonché piuttosto efficaci anche sul piano delle conoscenze fondamentali.

In approcci di questo tipo, nondimeno, c’è un rovesciamento rilevante delle prospettive che guidano gli anni scolastici e le diverse programmazioni, a partire proprio dal tema della valutazione, tema che il «Gruppo direzione e coordinamento HarmoS» del nostro DECS ha ben presente. Insegnare per competenze, o per ambiti tematici, pone problemi di valutazione enormi. In un’organizzazione pedagogica di tal fatta non c’è posto per la selezione in vista della prosecuzione degli studi, con tutta la sua tradizionale tiritera di valutazioni sommative che scandiscono le settimane e i mesi, diventando in definitiva più importanti di ciò che si vuol valutare e inducendo negli allievi quell’attitudine perversa che li obbliga a studiare per i test e non per i contenuti più preziosi della scuola. Insegnare per competenze significa in primo luogo privilegiare l’educazione e la costruzione di conoscenze e di cultura, nell’accezione più ampia del termine, rispetto alla valutazione/classificazione di alcune nozioni o capacità. Per fare un esempio un po’ banale, è abbastanza facile, attraverso un esercizio mirato, verificare la conoscenza della coniugazione e della declinazione dei verbi. Una sequenza di frasi coi verbi all’infinito, da completare con modi e tempi corretti, permette solitamente di controllare se l’allievo ha metabolizzato la regola, ma non dice nulla sulla capacità del medesimo allievo di utilizzare un congiuntivo imperfetto quando si esprime oralmente o quando scrive una sua riflessione.

 

La realtà resiste ancora

Sappiamo fin troppo bene che la realtà resiste. La stessa scuola media è ancor oggi debitrice, a quasi quarant’anni di distanza dalla sua nascita, del peccato originale che la maggioranza del Parlamento aveva dovuto ingollare affinché la Legge passasse (le sezioni A e B, poi trasformatesi nel corso degli anni, mantenendo però intatto il progetto iniziale di selezione verso la scuola post-obbligatoria). E anche la scuola elementare non è passata indenne attraverso la più recente riforma di peso – la riforma dei programmi, approvati dal Consiglio di Stato nell’ormai lontanissimo 1984. Da un’organizzazione con l’Ambiente al centro dell’azione pedagogica, si è presto tornati alle discipline. E, dall’anno scorso, con gli applausi convinti di molti «addetti ai lavori», si è nuovamente introdotta la valutazione sommativa a metà anno – senza nota, ma con degli aggettivi: che sono più subdoli – in perfetta linea col settore scolastico successivo. Ora c’è solo da sperare che la scuola dell’infanzia, con l’obbligatorietà scolastica che la concerne in virtù di HarmoS, non si cali nel medesimo solco di continuità.

Anche se, in fondo, è la soluzione più facile e in linea con le nostre consuetudini.


[1] PIERRE BOURDIEU, «L’école conservatrice. L’inégalité sociale devant l’école et devant la culture », in Revue française de sociologie, 1966, N° 3

[2] PHILIPPE PERRENOUD, La pédagogie à l’école des différences, 1995, Paris: ESF Éditeur (la traduzione italiana è mia)

[3] PHILIPPE MEIRIEU, MARC GUIRAUD, L’école ou la guerre civile, 1997, Paris: Édition Plon (la traduzione italiana è mia)

[4] PIERRE R. DASEN, «Développement humain et éducation informelle», in Pierre R. Dasen, Christiane Perregaux, Raisons éducatives N° 3/2000 – Pourquoi des approches interculturelles en sciences de l’éducation?, 2000, De Boek

[5] IVAN ILLICH, Deschooling Society, 1971, trad. it. Descolarizzare la società, 1972, Milano: Mondadori

[6] Si vedano, in particolare, «Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia» (10 giugno 1974) e «Ampliamento del “bozzetto” sulla rivoluzione antropologica in Italia» (11 luglio 1974, da cui è tratta la citazione nel testo), in PIER PAOLO PASOLINI, Scritti corsari, 1975, Aldo Garzanti Editore

[7] ALBERTO OLIVERIO, Memoria e oblio, 2003, Rubbettino Editore

[8] PHILIPPE PERRENOUD, Quand l’école prétend préparer à la vie… – Développer des compétences ou enseigner d’autres savoirs?, 2011, Paris: ESF Éditeur

[9] PHILIPPE PERRENOUD, 2011, Ibidem

Scuola obbligatoria: si può mirare a risultati elevati per tutti?

Succede di rado, ma capita che qualcuno mi scriva per commentare un pezzo apparso in questa rubrica. Dopo quello uscito l’8 settembre, dedicato ai settant’anni dalla morte di Janusz Korczak, ho ricevuto un messaggio da un caro amico, mio Maestro, ormai tanti anni fa, ai tempi dell’università. Bello!, mi ha scritto. Ma a cosa alludi con «i sempre più frequenti appelli alla selezione precoce?». Continuo a ritenere che la scuola dell’obbligo debba alzare il tiro su alcune essenzialità, cioè insegnare di più e meglio a tutti. Poi dev’essere in grado di orientare, mentre il compito di selezionare tocca alla scuola post-obbbligatoria e al mondo del lavoro. Perché gli appelli  alla selezione precoce mi sembrano sempre più frequenti? Esempio 1. Lino Guzzella, nuovo rettore del politecnico di Zurigo, ha chiesto «esami più difficili, soprattutto in matematica, fisica, tedesco e inglese», perché alla fine tanti studenti «arrivano da noi all’ETH e sono male preparati allo studio» (Corriere del 30 luglio). Ottima l’analisi, pessima la terapia. Esempio 2. La deputata Francesca Bordoni-Brooks, membro della commissione scolastica del Gran consiglio, ha scritto che converrebbe «dividere questa scuola media unica (…) per passare a due scuole medie, una che porti al liceo e una che porti alle scuole professionali» (Corriere del 4 aprile). Esempio 3. Sergio Morisoli, fondatore di AreaLiberale: «Occorre garantire le stesse condizioni di partenza per tutti, ma non la parità di risultati. La scuola va differenziata, non siamo tutti uguali [Toh!?]. E va valorizzata la scuola professionale rispetto ad un modello che porta tutti all’università e alle scuole superiori» (Corriere del 12 agosto). Walo Hutmacher, sociologo, ha lanciato un bel sasso nello stagno, lontano mille miglia dallo slogan sulle pari opportunità per tutti, ormai diventato obsoleto, tanto è politicamente corretto: «Réclamer l’égalité des chances, c’est s’empêcher de viser l’égalité des résultats a un niveau élevé» (Éducateur, febbraio 2012).
Pronta, va da sé, la risposta del mio interlocutore: «Non conoscevo l’idea di Hutmacher: in ogni caso mi fa riflettere e dovrebbe spingermi a ripensare un’evidenza sulla quale ho sempre sorvolato. Ma a proposito di quell’enunciazione: la chiave sta naturalmente nel concetto di niveau élevé, che non mi sembra chiarissimo. Tu come lo espliciteresti?». È assai difficile, naturalmente, dare una risposta esauriente a simile questione. Cosa significa, ad esempio, che un bambino, alla fine della seconda elementare, deve «Saper leggere silenziosamente testi brevi e semplici, comprendendone il significato» ed essere capace di «scrivere brevi testi, usando le parole appropriate, con frasi chiare nella costruzione e corrette nell’ortografia», come recitano i programmi della scuola elementare? Com’è un testo breve e, nel contempo, semplice? E quali sono le parole appropriate, per di più inserite in frasi realizzate con la necessaria chiarezza? Mi fermo qui, poiché andando in su con gli anni di scuola i programmi diventano vieppiù complicati nell’enunciazione e vaghi nel significato concreto: soprattutto se poi c’è chi dà le note per certificare il raggiungimento del traguardo. Tra le tante ricerche prodotte dalle scienze dell’educazione, non esistono, ch’io sappia, risposte a tali quesiti. Eppure è su questi aspetti che, dai e dai, si infrangono tante innovazioni e tante rivoluzioni didattiche. Anche perché in assenza di riferimenti minimamente precisi, son sempre i soliti poveri cristi a lasciarci le penne e a finire per assumere l’ingrato ruolo dell’ultimo della classe. Ho scritto al mio interlocutore: «È vero che il concetto di niveau élevé non è chiarissimo. Ma qual è il livello minimo sopportabile? E come fare per arrivarci?» Essenziale la sua replica: «Risposta ovvia, all’epoca nostra: come fanno i finlandesi. In pratica?». Studiando per bene il sistema scolastico di quel paese, ad esempio, invece di limitarsi a citarne solo gli aspetti che fan comodo, da destra e da sinistra. O no?

I livelli della scuola media non sono una vacca sacra

Con tutte le volte che ho scritto peste e corna dei livelli A e B della scuola media e di tutte le forme di selezione più o meno dissimulata che avvinghiano la nostra scuola come una malerba, sono naturalmente favorevole all’iniziativa parlamentare dei Verdi, che vuole abolire i livelli nel secondo biennio: anche se poi bisognerà vedere quel che ciò potrà significare. Si fa in fretta a togliere, ma bisognerebbe avere le idee in chiaro su dove si vuole andare, ciò che non è per nulla evidente, al di là delle solite dichiarazione in perfetto stile politichese. Il consigliere di Stato Manuele Bertoli ha subito dichiarato che vale la pena discuterne: «Qualcosa che non funziona effettivamente c’è. Il tema quindi non è eludibile e non può essere liquidato con una presa di posizione dipartimentale. La riapertura del dibattito sulla scuola media è essenziale». Aggiungerei: su tutta la scuola dell’obbligo, visto che con HarmoS inizierà persino due anni prima, a quattro anni. Però è ormai cominciato il teatrino della politica istituzionale, quella che volentieri fa in modo di non guadagnarsi la P maiuscola. Generazione Giovani, il movimento giovanile del PPD, ha già reagito «esprimendo stupore e contrarietà verso un’iniziativa che se approvata, farebbe solo del male alla qualità della formazione dei giovani ticinesi». Perché tanto sbigottimento affidato a un comunicato stampa, appena poche ore dopo la presentazione dell’atto parlamentare? Scrivono gli stessi giovani del PPD: «A spingere la stesura di un comunicato stampa ci ha pensato il Consigliere di Stato On. Manuele Bertoli che, a fronte delle sue prime reazioni, sembra purtroppo sostenere la tesi dell’abbandono dei gruppi differenziati d’insegnamento nelle materie di matematica e tedesco». Si guardi attentamente quel «purtroppo», che non lascia presagire nulla di buono nell’ipotesi che si apra un utile dibattito – e tenuto conto che nessuno può tirarsi fuori da una situazione che disgraziatamente è congenita: perché c’è davvero qualcosa che non gira come dovrebbe. Mentre scrivo son trascorsi solo pochi giorni dalla presentazione della proposta dei Verdi, ma è già polemica. Magari, quando la rubrica apparirà, altri pronunciamenti avranno contribuito a esporre posizioni più o meno precostituite, secondo i dogmi di ogni partito, movimento o associazione.
Eppure quando la deputata Francesca Bordoni Brooks, sul Corriere del 4 aprile, aveva buttato un pesante sasso nello stagno, proponendo di «dividere questa scuola media unica per passare a due scuole medie, una che porti al liceo e una che porti alle scuole professionali», nessuno era insorto con uguale tempismo e toni da vigilia dell’apocalisse. Sarà stucchevole, ma viene in mente la nota battuta attribuita ad Andreotti: a pensar male degli altri si fa peccato, ma spesso ci si indovina. In altre parole: vuoi vedere che il mantenimento dell’attuale scuola media, magari con un inasprimento delle regole per separare il grano dal loglio, trovi molti più consensi di quel che non si scriva e si dica, da destra a sinistra e ritorno? In fondo, tanto per fare un esempio, la scuola media, classe 1974, era nata coi livelli A e B, ma senza la nota di condotta e i mezzi punti per valutare le diverse materie. A pochi anni dalla sua generalizzazione, però, la nota di condotta e i mezzi punti erano stati riabilitati se non a furor di popolo, almeno a furor d’insegnanti. Di grazia: qualcuno è in grado di dire in maniera comprensibile a che serve la nota di condotta, questa specie di casellario giudiziale ante litteram? E qualcuno sa spiegare, con la dovuta trasparenza, qual è la differenza tra un 4½ e un 5? Mi verrebbe da dire che le cose o si sanno o non si sanno: il resto son solo diavolerie scolastiche, fumo negli occhi per convincerci che le note siano un fatto oggettivo e scientifico. E pensare che siamo solo all’inizio dell’opportuna contesa: c’è da credere che la discussione sull’iniziativa verde riserverà tanti momenti spassosi, a cavallo tra farsa e tragedia, a seconda delle diverse sensibilità.