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Vietare non serve a nulla, ma è un bell’alibi quando l’adulto non sa più che pesci pigliare

Il portale TicinoLibero ha dato notizia che tre parlamentari – il popolare democratico Giorgio Fonio, il socialista Henrik Bang e la liberale Maristella Polli – hanno presentato un’interrogazione per chiedere di proibire i cellulari a scuola, mirando ad arginare il fenomeno bullismo.

Scrivono che «Sui telefonini l’assedio si moltiplica per dieci, per cento, per mille. Chi è finito nel mirino ha l’impressione che non ci sia nulla da fare, che sia impossibile difendersi. Nasce un senso di solitudine e di impotenza. La vergogna spesso conduce al silenzio: non si osa parlarne ai genitori, ai docenti. Il ragazzino, l’adolescente, si deprime. Se la cosa si prolunga nel tempo, possono comparire idee suicidarie e in qualche caso la vicenda finisce in tragedia».

La proposta non è una novità assoluta. Già sul finire del 2006 un altro parlamentare liberale, all’epoca pure insegnante di scuola media, aveva chiesto al Consiglio di Stato se non fosse «finalmente intenzionato a proibire totalmente l’uso del telefonino in tutte le scuole obbligatorie del Cantone». Avevo commentato la notizia sul Corriere de Ticino del 12 gennaio 2007: Telefonini a scuola: educare o reprimere?

La mia opinione, oggi che sono passati dieci anni, non è per nulla cambiata, anche se di miglioramenti concreti non se ne sono visti, malgrado la drammaticità di tanti esiti.

A scuola, come in famiglia, certi divieti sono il chiaro segnale di adulti che non sanno più che pesci pigliare: ma i docenti sono professionisti formati e pagati per fare scelte educative  attendibili, a differenza dei genitori. Oso credere che la sparata dei tre parlamentari sia una sorta di sasso nello stagno, per svegliare chi non dovrebbe proprio dormire.

Insomma: e se la scuola ricominciasse a educare e a far cultura, smettendo di essere al traino dell’economia globalizzata? Se la piantasse di essere schiava di una selezione controproducente, iniqua e costosa, e tentasse invece di puntare alle vere finalità della scuola pubblica e obbligatoria?

La scuola che verrà in un servizio del domenicale «Il caffè», con intervista al sottoscritto…

Nel suo numero del 2 aprile il domenicale Il caffè ha pubblicato un’inchiesta abbastanza esaustiva sugli umori del Paese nei confronti del progetto La scuola che verrà, di cui ho più volte parlato in questo sito sin dalla sua prima presentazione, nel dicembre del 2014.

L’ampio servizio si apre con una sintesi critica dell’inchiesta, firmata dal giornalista Clemente Mazzetta: «Ecco quale scuola vogliamo nel futuro». Poco sotto, arriva il commento del direttore del DECS Manuele Bertoli: «Investire nella scuola è investire nella società».

L’intero servizio, naturalmente, lo si può consultare nel sito del domenicale: http://www.caffe.ch/.

Come mi era già successo altre volte, anche in questo frangente sono stato interpellato dal giornalista, che ha pubblicato l’intervista col titolo generale Rigozzi e Tomasini sulla “scuola che verrà”. Ex direttori scolastici a confronto. Naturalmente è stato impossibile, per il giornalista, riportare per intero la nostra chiacchierata (mezz’oretta nel pomeriggio del 22 marzo). Così voglio concedermi il gioco di completare o commentare quell’intervista, distinguendo le domande del giornalista, le mie risposte e i miei commenti successivi.


È una battaglia da combattere ma evitando scontri partitici

«La scuola dell’obbligo ha bisogno di serenità. E deve essere sganciata dal continuo richiamo al mondo del lavoro. Anche perché non sappiamo quali potranno essere le competenze che fra 15 anni saranno richieste dalla società», sostiene Adolfo Tomasini, ex direttore della scuola elementare di Locarno.

Il Corriere del Ticino del 10 febbraio scorso aveva pubblicato una lunga intervista al prof. Emanuele Caranzano, direttore del Dipartimento tecnologie innovative alla SUPSI, dove tra l’altro si leggeva che «il 65% di coloro che oggi hanno 12 anni faranno dei lavori che oggi non esistono. In altre parole, tra 10 anni più della metà dei lavori saranno attività che ancora non ci sono». Si provi allora a immaginare queste percentuali ipotetiche se le volessimo applicare a quei bimbi che hanno iniziato la scuola dell’obbligo nel settembre scorso, a quattro anni, e che i vent’anni li compiranno nel 2028 o giù di lì.

Che impressione ha avuto leggendo la riforma della scuola?

Che pone degli obiettivi condivisibili. L’abolizione dei livelli e della media per l’accesso al liceo, il tutto all’interno di una scuola di qualità è una battaglia che si deve fare. Ma con intelligenza, evitando lo scontro ideologico e partitico.

Come ho scritto più e più volte, all’origine del progetto La scuola che verrà c’è una scelta schiettamente e fatalmente ideologica, che condivido. Ancora di recente ho scritto che «nessuno ha il coraggio di porre l’unica domanda fondamentale, che impone una risposta serena e trasparente: che scuola vogliamo? Una scuola per la democrazia e il Paese oppure al servizio dell’economia? In altre parole, desideriamo educare cittadini o selezionare e formare lavoratori?» (Una scelta per la scuola del Paese che verrà, Corriere del Ticino del 22.12.2016). Va da sé che io pendo con forza per una scuola dell’obbligo che educa cittadini democratici.

La riforma promuove una scuola equa e inclusiva. È sostenibile?

Sì, ma bisogna capirci bene sul termine inclusività.

Rimando al mio scritto «L’inclusione tra sogni e realtà», del 5 ottobre 2014.

L’obiettivo egualitaristico della riforma è forse troppo… egualitario?

Macché. Se per pari opportunità si intende che tutti possono andare a scuola, questa pari opportunità non significa niente. Anche l’ultima analisi statistica de “La scuola a tutto campo” (Supsi, 2015) ha ricordato come la condizione socioeconomica di appartenenza dei ragazzi resti una variabile importante nel fallimento scolastico. E se esiste ancora questa situazione, ha ragione Bertoli: qualcosa bisogna fare.

Nel merito è favorevole all’abolizione dei livelli?

Senza dubbio. Creano una divisione fittizia.

Tra l’altro parliamo di ragazzine e ragazzini di 12/13 anni.

Favorevole anche all’abolizione della media del 4.65?

Sì. È una media inventata. La prova che non serve a nulla è data dal fatto che oggi il 30% dei ragazzi che entrano nel liceo viene bocciato. Occorre invece mettere il ragazzo nella condizione di fare delle scelte consapevoli.

Nell’introduzione al servizio, Clemente Mazzetta ha ripreso una mia domanda, naturalmente retorica, che rimanda proprio a questa necessità di togliere di mezzo i livelli. Scrive: «Del resto come rispondere all’interrogativo dell’ex direttore della scuola media [comunale, in verità]  di Locarno Adolfo Tomasini (vedi intervista a lato) quando chiede di spiegargli “come fa uno a diventare ingegnere Supsi (cosa possibile partendo dall’apprendistato), dopo aver mancato la possibilità di iscriversi al liceo per non aver raggiunto il fatidico 4.65?” Per dire che ’sto 4.65, che è tutto fuorché una media matematica, dice solo che in quel momento lì quel/la giovane aveva un rendimento scolastico di poco superiore al quattro e mezzo.

Quando leggo che bisognerebbe innalzare la soglia del 4.65 per l’accesso alla scuola media superiore mi vengono i brividi, perché è un salto indietro pauroso: quella sarebbe una scuola per la pura e semplice crescita economica, a vantaggio di pochi, mica per il consolidamento della democrazia. Peggio dell’attuale, dunque.

La riforma non prevede troppi compiti per i docenti?

Forse sì. Ma non è questo il problema più importante. Del resto non ci sono soluzioni magiche.

Il compito primario dei docenti è quello di insegnare. Per insegnare bisogna conoscere bene ciò che si insegna (competenze disciplinari) e come si insegna (competenze professionali). Insegnare significa, grosso modo, “lasciare un segno”. L’insegnante professionalmente irreprensibile è quello che ‘non molla l’osso’, è quello che fa tutto il possibile per portare ogni allievo al limite massimo delle sue possibilità, senza perdere troppo tempo con esami e test reiterati (che, come già diceva Don Lorenzo Milani, è tempo rubato all’insegnamento).

La si smetta, insomma, con la storiella che l’egualitarismo porta automaticamente al livellamento delle menti, naturalmente verso il basso. La metafora trita e ritrita della siepe va bene solo per chi non sa o non vuole insegnare, cioè lasciare dei segni tangibili.

La ritiene una riforma economicamente sopportabile?

Non saprei. Ma mi urta questa concezione che vede ogni cambiamento come fonte di spesa, forse bisognerebbe verificare se si impiegano bene ora le risorse disponibili. Piuttosto il problema è di sostenibilità politica della riforma. Il Plrt si è pronunciato chiedendo un innalzamento dei livelli, più selezione. La Lega, con Lorenzo Quadri ha sostenuto che quello che si insegna a scuola deve essere deciso dal mercato, non da pedagogisti.

Il riferimento preciso torna alla campagna elettorale per il rinnovo dei poteri cantonali del 2011. Lorenzo Quadri, sul Mattino del 20 marzo, scrisse: «La scuola non potrà esimersi da un riorientamento nell’ottica di quelle che sono le richieste del mercato del lavoro. È evidente che le professioni “d’ufficio” sono sature. Mancano risorse nell’arti­gia­nato, nell’edilizia, nel sociosanitario. Altra misura necessaria: si metta il numero chiuso alle formazioni “letterarie” ed “artistiche” prive di sbocchi professionali».

Ma così la scuola dell’obbligo dovrebbe formare lavoratori non cittadini?

Sono convinto che in molti Paesi europei c’è una scuola per la crescita economica e non per il rafforzamento della democrazia. Ma non è con il corso di civica che risolviamo il senso civico dei cittadini.

Ha scritto la filosofa americana Martha C. Nussbaum: «Le nazioni sono sempre più attratte dall’idea del profitto; esse e i loro sistemi scolastici stanno accantonando, in maniera del tutto scriteriata, quei saperi che sono indispensabili a mantenere viva la democrazia. Se questa tendenza si protrarrà, i paesi di tutto il mondo ben presto produrranno generazioni di docili macchine anziché cittadini a pieno titolo, in grado di pensare da sé, criticare la tradizione e comprendere il significato delle sofferenze e delle esigenze delle altre persone. Il futuro delle democrazie di tutto il mondo è appeso a un filo.

Quali sono questi cambiamenti radicali? Gli studi umanistici e artistici vengono ridimensionati, nell’istruzione primaria e secondaria come in quella universitaria, praticamente in ogni paese del mondo. Visti dai politici come fronzoli superflui, in un’epoca in cui le nazioni devono tagliare tutto ciò che pare non serva a restare competitivi sul mercato globale, essi stanno rapidamente sparendo dai programmi di studio, così come dalle teste e dai cuori di genitori e allievi. In realtà, anche quelli che potremmo definire come gli aspetti umanistici della scienza e della scienza sociale – l’aspetto creativo, inventivo, e quello di pensiero critico, rigoroso – stanno perdendo terreno, dal momento che i governi preferiscono inseguire il profitto a breve termine garantito dai saperi tecnico-scientifici più idonei a tale scopo». [Martha C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, 2011, Bologna: Il Mulino].

È un palliativo?

Peggio. Si illudono le persone. Così come si illudono i ragazzi nel dire loro che se imparano dieci lingue a scuola poi si troveranno bene.

Ho scritto più volte dell’impegno esagerato e un poco fuorviante legato alla politica di insegnamento delle lingue. Mi piace citare due scritti: I nostri figli sapranno tutti l’inglese: per dirsi cosa? (25.10.2006) e Mi ha piaciuto molto!… (06.10.2004).

Morale?

Qualcosa bisogna fare. Occorre ripensare la scuola. Ma il clima politico di questo momento non è certo il migliore; c’è il rischio di fare due passi indietro.

La cartella dell’allievo e la statua di Pigmalione

Ovidio, nelle Metamorfosi, racconta che lo scultore Pigmalione, «con arte invidiabile, scolpì nel bianco avorio una statua, infondendole tale bellezza, che nessuna donna vivente era in grado di vantare: e s’innamorò dell’opera sua», sognando che un giorno si animasse. Così, quando venne la festa di Venere, depose le offerte accanto all’altare e disse: «O dei, se è vero che tutto potete concedere, vorrei in moglie una donna uguale alla mia d’avorio». Venere esaudì la preghiera e Pigmalione, tornato a casa, vide la statua animarsi a poco a poco, respirare e spalancare i suoi occhi bellissimi.

Étienne Maurice Falconet (1716-1791), Pygmalion et Galaté (1763), marmo, Museo dell’Ermitage a San Pietroburgo

In educazione è noto l’«effetto Pigmalione», così definito cinquant’anni fa da due studiosi, Rosenthal e Jacobson, che idearono un esperimento singolare: selezionarono a caso un certo numero di ragazzi di scuola elementare e dissero agli insegnanti che si trattava di alunni molto intelligenti. Dopo un anno tornarono in quella scuola e verificarono che i loro «genietti», benché scelti casualmente, avevano confermato le previsioni, migliorando notevolmente il rendimento scolastico, tanto da giocarsela in volata per essere i primi della classe. Non è necessario essere molto sagaci per capire che il trucco funziona anche al contrario: di’ al maestro, con le giuste parole, che Pierino non è un fenomeno, e facilmente il pregiudizio farà il suo corso, inevitabile e spietato.

Per restare in tema di storie, in queste ultime settimane si è letto che un gran numero di insegnanti delle scuole elementari non ne vuol sapere della «Cartella dell’allievo», uno strumento introdotto cinque anni fa, che sarà pian piano esteso a tutta la scuola dell’obbligo e che vorrebbe evidenziare «gli elementi più significativi che descrivono il processo di insegnamento/apprendimento, supportando la progettazione degli interventi didattici e favorendo allo stesso tempo il flusso di informazioni tra i docenti in un’ottica di continuità progettuale». Alcuni collegi dei docenti si sono messi di traverso, e il malumore serpeggia da Airolo a Pedrinate. Gli insegnanti mettono anzitutto l’accento sul notevole peso burocratico che comporta la tenuta regolare della cartella, «burocrazia che – scrivono i maestri di Losone – più che portare vantaggi sottrae tempo ed energie preziose che ogni docente sicuramente preferirebbe poter investire in modo utile e proficuo nell’insegnamento, nella formazione e nell’aggiornamento professionale».

Non ho lo spazio per elencare tutto quel che dovrebbe finire in quel dossier, e la lista risulterebbe noiosa. Il fatto che più sconcerta, però, è che si chiede di raccogliere un’enorme quantità di dati sensibili, dimenticando che ciò che finirebbe nella cartella non sarebbe neutro. Non c’è nulla di scientifico e inequivocabile nel riporvi elementi che «testimoniano l’evoluzione degli allievi» o i racconti «dei momenti significativi in termine di conquiste di nuove competenze». Così il tempo smisurato per tenere aggiornati migliaia di fascicoli – tempo rubato all’insegnamento – non migliorerà di un ette la qualità della scuola, con la certezza che il passaggio di informazioni da un docente all’altro moltiplicherà successi e insuccessi colpevolmente inzaccherati dal pregiudizio. Allora è meglio leggere le bellissime storie di Ovidio, senza il bisogno di rinverdire i fasti ispirati dalla vicenda di Pigmalione e della sua incantevole scultura: perché quello è il Mito, mica la realtà.

Il muro contro muro non serve a costruire la nuova scuola

«La scuola che verrà», onirico progetto del ministro dell’educazione Manuele Bertoli, ha dato la stura a un dibattito che, in realtà, si gioca per lo più tra partiti, sindacati e lobby tra le più varie e cangianti: tutta gente che, normalmente, se le dà di santa ragione. È un’idea giunta quasi come una strenna natalizia negli ultimi scorci del 2014, a pochi mesi dal rinnovo dei poteri cantonali. In questo progetto ci sono delle idee forti e di grande tensione etica, che avrebbero rallegrato Stefano Franscini. Se pensiamo ai tempi spropositati della politica, è però da ingenui credere che una riforma profonda e incisiva come questa possa realizzarsi in un batter d’occhio: basti riandare all’istituzione della scuola media, approvata dal parlamento dopo anni di tira e molla – e che, ancor oggi, aspetta una realizzazione concreta dei suoi obiettivi più alti – o ad altre leggi importanti, ratificate dopo trafile infinite. Fatto sta che «La scuola che verrà», che tanti citano e criticano, a volte senza conoscerne sul serio i propositi, ha persino messo in ombra altri dogmi, sui quali siamo andati alle urne di recente. Bisogna però essere un po’ creduloni per ritenere, senza rossore alcuno, che sia possibile stravolgere le certezze di una scuola assai conservatrice col semplice atto di dichiarare un progetto innovatore: perché un gran numero di insegnanti e di operatori scolastici è progressista finché non dà i voti.

Così oggi siamo al litigio, un litigio che, in definitiva, rinnoverà l’ingessatura della scuola per i prossimi decenni: è un rimprovero di cui gli attuali vertici del DECS dovranno farsi carico. La Destra, frattanto, ha messo le sue carte in tavola, riesumando le solite tesi a favore della concorrenza tra istituti scolastici e una competitività spinta tra gli studenti, come se non fossero sotto gli occhi di tutti gli sconquassi prodotti dalle recenti liberalizzazioni, che hanno toccato, tanto per rammentare le principali rivoluzioni, poste, comunicazioni, ferrovie, energia: si dice che il mercato mette tutto a posto. Sarà. Io, per intanto, non me ne sono accorto.

Per tornare alla nostra scuola, c’è di peggio. I partiti storici, in testa il partito liberale radicale, si sono arroccati su posizioni di conservazione che sono incompatibili con la loro storia: una Storia fondamentale per questo cantone. In tutta sincerità sono sconcertato, e non sono l’unico. Si accusa il progetto di Bertoli di essere ideologico, quasi che fondare e condurre una scuola pubblica e obbligatoria, com’è stato fatto dall’800 in qua, sia una scelta neutra: istituire la scuola obbligatoria, contro il sentire dei contadini di quel tempo, è stata una scelta apolitica? Non è ideologica la decisione di far sì che «In ogni Comune vi sarà una Scuola, ove s’insegnerà almeno leggere, e scrivere, ed i principj di aritmetica»? Sottrarre l’educazione e l’istruzione ai preti, che avevano capito tutto, non fu una mossa politica? Non ci siamo. La costruzione del consenso per una scuola nuova e moderna non si ottiene con il muro contro muro, l’uno, almeno apparentemente, troppo naïf, l’altro manifestamente volto alla salvaguardia di un modello ormai datato. Chi ha fondato la scuola pubblica deve avere la capacità e la volontà di cambiarla, mantenendone le finalità fondatrici. Ma una soluzione moderna non sta nella conservazione a oltranza di una scuola che si riproduce sempre uguale a sé stessa, mentre là fuori il mondo se ne va per i fatti suoi.

Perché vivano Janusz Korczak e i suoi insegnamenti

Sul numero di novembre 2016, il mensile Illustrazione Ticinese, rivista familiare illustrata fondata nel 1931, ha dedicato il suo servizio di copertina al direttore del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI, oggi noto con la sigla DFA, che sarebbe poi la vecchia scuola magistrale cantonale: Michele Mainardi. Tra scienza, formazione e apprendimento.

Ne parlo in questa sede – al di là della segnalazione del servizio, interessante di per sé – per un dettaglio che non sarà sfuggito agli addetti ai lavori o presunti tali (benché sia necessario lasciare aperto qualche spiraglio al sospetto…). La scheda biografica che correda il reportage si conclude con una dichiarazione che sicuramente non è fortuita: «Pedagogo di riferimento: Janusz Korczak, un dottore ebreo riuscito nell’impresa che sembrava folle, di far funzionare una comunità di orfani nel ghetto di Varsavia».

[Su Janusz Korczak si veda la voce in Wikipedia; meglio ancora – purtroppo è solo in tedesco – si può consultare il sito del Janusz Korczack Institut].

Korczak è un autore che è entrato nella storia della pedagogia e delle idee pedagogiche solo in tempi recenti. All’epoca della mia formazione pedagogica, dapprima alla Magistrale negli anni ’70, poi all’università di Ginevra dieci anni dopo, non ricordo di averlo incontrato. Eppure il suo contributo all’educazione di bambini e adolescenti ha ancora una forza insolita e autorevole. Korczak non è «soltanto», mi si passi l’avverbio, uno degli ispiratori e dei padri fondatori della Carta internazionale dei Diritti del bambino. Ha scritto Philippe Meirieu: Profondément convaincu que l’enfant a le droit d’exister et d’être respecté en tant que tel, il énoncera, pour la première fois, l’idée de «droits de l’enfant». Il n’est pas, pour autant, partisan du laisser-faire, bien au contraire. Toujours exigeant, il met en place des dispositifs permettant à l’enfant de surseoir à ses impulsions (comme la «boîte aux lettres» où l’on écrit demandes et griefs, le «parlement» qui statue sur les règles nécessaires au fonctionnement de la collectivité, le tribunal, la gazette, etc.).

Ho parlato più volte di Janusz Korczak in queste pagine. Mi piace rammentare A settant’anni dalla morte di Korczak a Treblinka (Corriere del Ticino, 8.9.2012) e il più recente Per capire e (ri)conoscere la barbarie (29.10.2016). In quest’ultimo scritto suggerivo la lettura di un bell’album illustrato, coi testi di Philippe Meirieu e le illustrazioni di PEF: Korczak. Perché vivano i bambini (2014, Editore Junior). Nei giorni scorsi l’amico Pino Boero, professore ordinario di Letteratura per l’infanzia e Pedagogia della lettura presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova, mi ha segnalato un altro bellissimo libro destinato a ragazzi dai 10/11 anni: «L’ultimo viaggio. Il dottor Korczak e i suoi bambini» (di Irène Cohen-Janca, con le illustrazioni di Maurizio A. C. Quarello): come sempre, i libri per bambini e ragazzi dovrebbero interessare tutti gli educatori, dai genitori in là.

IRÈNE COHEN-JANCA, MAURIZIO A. QUARELLO, L’ultimo viaggio. Il dottor Korczak e i suoi bambini, 2015, Orecchio Acerbo Editore

Si può leggere nell’ultima pagina del volume, dopo la fine del racconto, così intenso e commovente:

Poveri e senza famiglia, di migliaia di bambini – ebrei, ma non solo – Janusz Korczak si prese cura per oltre trent’anni. Pediatra, subito capì che per prendersene davvero cura alla medicina avrebbe dovuto affiancare la pedagogia. Nacque così una delle più straordinarie esperienze che la storia ricordi, con i bambini protagonisti attivi della loro crescita, della loro formazione.

Un’esperienza che continuò anche tra le mura del ghetto di Varsavia, con Janusz Korczak sempre al fianco dei suoi bambini.

Né, pur potendo, volle abbandonarli quando i nazisti decisero di trasferirli, per l’ultimo viaggio, nel campo di Treblinka.

La sua impronta, insieme a quelle dei suoi bambini, resta, indelebile, nella Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza approvata dall’Onu a New York il 20 novembre del 1989.

È giusto, o almeno lo sarebbe, far conoscere agli adolescenti questa figura di Uomo, un medico, che ha creduto profondamente e intensamente nel potere dell’educazione. Sarebbe bello se anche gli insegnanti, i Maestri del mondo intero, riuscissero a mettere l’educazione in vetta agli obiettivi della loro quotidianità, ben prima di pensare alle competenze più o meno disciplinari e alle immancabili valutazioni: che quasi sempre sono il certificato del riconoscimento sociale, dell’esclusione o degli esami di riparazione.

L’insegnamento di Janusz Korczak – e di tanti altri – dovrebbe interrogare e intrigare ogni insegnante, soprattutto quelli della scuola pubblica e obbligatoria: che non è stata pensata e istituita per selezionare le élite – che sarebbe come dire per dare una spintarella a chi comanderà in un futuro più o meno prossimo – ma per ragioni ben più alte e fondatrici.

Oltre tante invenzioni della moderna tecnocrazia didattica, sarebbe utile andare sempre al cuore delle preoccupazioni e delle riflessioni che hanno ispirato le donne e gli uomini che hanno fatto la storia delle idee pedagogiche. Il contributo di Korczak ci dice che il rispetto si impara vivendolo, attraverso la mediazione di un adulto consapevole. Per logica deduzione ci dice anche che non ci sono altre scorciatoie didattiche per arrivarci: perché il Rispetto è figlio della Cultura.

Nel frattempo abbiamo letto che Michele Mainardi lascerà la direzione della scuola magistrale a fine agosto 2017, ma continuerà, al DFA, a guidare il Centro di competenza denominato Bisogni educativi, scuola e società: l’augurio è che gli insegnamenti di Janusz Korczak e di chi gli è pedagogicamente vicino possano diventare quanto prima uno gli elementi centrali della formazione dei docenti di ogni ordine e grado. Perché l’approccio epistemologico alla professione di educatore prima e di insegnante poi sta diventando un imperativo etico.

La porta, a questo punto, sembrerebbe aperta: con un sorriso ottimista.

© Foto Gabriele Campeggio, Illustrazione Ticinese, N° 11-Novembre 2016