Archivi tag: Indifferenza alle differenze

Anche i compiti a casa servono a marcare le disuguaglianze

Il sito de La Repubblica ha pubblicato il 21 luglio scorso un articolo di un certo interesse, cucito col tono un po’ scanzonato che si addice al caldo di questi giorni: Milano, la disobbedienza delle mamme sui compiti delle vacanze: “Diritto al riposo per i bimbi”. (Qualora non si riesca e leggerlo in repubblica.it lo si può scaricare qui). Racconta della «protesta organizzata in una scuola elementare, dove è partita la rivolta d’estate: “I nostri figli si danno da fare tutto l’anno, ora devono giocare e riposare”». Il succo della protesta delle mamme è già nel titolo.

Curiosi anche diversi commenti dei lettori. Scrive tal Yuri Pomè: «ma che scuole hanno fatto quelle mamme? i compiti a casa e durante le vacanze ci sono sempre stati!! il problema è che oggi i compiti li fanno i genitori e non i figli. a me mai mia madre o mio padre mi facevano i compiti, al massimo chiedevo aiuto». Gli fa eco un certo rocgreg: «Sì dai facciamoli crescere tutti ignoranti… incapaci di formulare una frase di senso compiuto e di intrattenere rapporti sociali… bella roba!!!». Aggiunge Attilio Gusmaroli: «Il trionfo dell’ignoranza e del non far niente ha obnubilato i cervelli di queste mamme. Abituare i propri figli in questo modo, ovviamente dando a loro in pasto tablet e smartphone, utili solo a mandare il cervello in “pappa” sortirà solo un effetto: crescere una generazione di incapaci buoni solo per fare gli scaricatori nei mercati generali. Ma nemmeno saranno capaci di fare ciò e vivranno alle spalle di questi genitori. PS I miei genitori erano altra cosa e li ringrazio ancora oggi nell’avermi educato allo studio che mi ha dato cultura e mi ha dato anche un ottimo tenore di vita». E via sentenziando.

Nelle scuole elementari ticinesi vigono da alcuni decenni norme pertinenti per disciplinare i compiti a casa, riunite in modo chiaro in due documenti con lo stesso titolo, I compiti a domicilio, uno per gli insegnanti, l’altro per i genitori. Sono norme senza data, quindi attuali, sottoscritte dal Collegio degli ispettori delle scuole elementari; e, malgrado i tanti cambiamenti in atto, erano certamente ancora validi l’anno scolastico passato. Si legge infatti nelle Disposizioni per gli insegnanti del giugno 2015 che «… nella riunione d’inizio anno, ai genitori dovranno essere presentati in modo particolare gli obiettivi educativi e le competenze che s’intendono raggiungere e sviluppare con gli allievi così come il senso dei compiti a domicilio; ricordiamo le indicazioni contenute nel testo Compiti a domicilio tuttora valide sia per i genitori sia per gli insegnanti».

Tuttavia bisogna dire che, come succede con tante direttive scolastiche, tra il dire e il fare c’è di mezzo il solito mare. Questa dei compiti a casa è una delle tante norme di solito trascurate. I compiti appartengono ai dogmi della scuola. L’insegnante che non li prescrive con regolarità pignola e un poco ottusa rischia di passare per un mollaccione, uno dal quale gli allievi avranno poco da imparare. L’abitudine di assegnare compiti a casa è un segno distintivo, informa che si è un insegnante di quelli di una volta, uno che è riuscito a non lasciarsi infettare dalle menate psico-socio-peda proliferate nel Sessantotto.

D’altra parte la protesta delle mamme milanesi non è proprio nuova. Ne avevo già scritto oltre dieci anni fa, prendendo spunto da un articolo apparso sul Corriere della Sera a firma Barbara Palombelli, che avevo intitolato La scuola e il dramma dei compiti a domicilio (Corriere del Ticino, 24.11.2004). E avevo ripreso il tema stimolato da una mamma, che mi aveva scritto: «La maestra di mio figlio dice di aver ricevuto una direttiva, secondo la quale non si possono più dare compiti, nemmeno di recupero, neanche nelle vacanze o nei fine‐settimana. Mio figlio era contentissimo, ovviamente io molto meno!» (I compiti a casa, una tradizione che resiste al passare del tempo, Corriere del Ticino, 5.11.2012).

Vignetta i compiti a casa
Vignetta tratta dal blog di Barbara Gaiardoni, pedagogista

Reputo che la protesta delle mamme meneghine sia insopportabile. I commenti… anche.

Mi sa che le madri che hanno deciso di non cedere e di andare fino in fondo (tanto ci sarà sempre qualche mass-media bendisposto), siano proprio lombarde DOCG, senza troppi assilli rispetto alla propria identità economica, culturale e sociale. E a quella della prole.

Il guaio è che a scuola ci devono andare anche gli altri, quei figli che non sanno da che parte cominciare con questa storia dei compiti. Così capita che in zona cesarini salti fuori un compito non fatto, e il papà o la mamma dànno una mano, tra una ramanzina e uno sbadiglio. Ma non è detto che quel papà o quella mamma sia in grado sul serio di dare una mano al piccino: e a quel punto la frittata è servita.

Fino a tre anni fa dirigevo una scuola frequentata da tanti poveri diavoli, spesso alle prese con un’integrazione difficile e, alle spalle, una famiglia che s’arrabattava per arrivare a fine mese. Era una lotta continua con i maestri particolarmente compito-dipendenti. Credo che, con equilibrio, convenga tenere sveglio e attivo il cervello sempre, anche sotto l’ombrellone o all’ombra di un larice. Il dubbio è che la scuola, ogni tanto, chieda i compiti (serali, fine-settimanali, estivi, natalizi, carnevaleschi, pasquali…), senza pretendere il cervello acceso proprio mentre si è in classe, obbligati a essere a scuola.

In questi casi anche i compiti a casa si trasformano in esaltatori delle differenze e dei ritardi.

Cos’hanno ancora di così rivoluzionario, oggi, le pari opportunità?

Viviamo tempi strani.

Qualche giorno fa ho pubblicato una breve riflessione sull’insuccesso: La forza dell’insuccesso e l’elogio del fallimento. Paolo Di Stefano, in un articolo apparso sul Corriere della Sera, ha introdotto la sua riflessione con la frase di un autore che sarà svelato solo nell’ultima frase, tra parentesi: «Il successo è il solo metro di giudizio di ciò che è buono o cattivo». Sveliamo il mistero per chi non ha avuto voglia di andarsi a cercare la soluzione. La versione originale recita: «Der Erfolg ist der einzige irdische Richter über das Recht oder Unrecht».

L’autore è Adolf Hitler, il libro Mein Kampf [Volume I, capitolo 12].

Mica male, per un principio di politica dell’educazione e della formazione che aiuta a sistemare tante coscienze. ’Sta tiritera delle pari opportunità copre ormai tutto l’arco costituzionale, infinito come un cerchio: destra-centro-sinistra-centro-destra, e via girandoci intorno.

D’accordo, istituire la scuola media obbligatoria è stato un atto progressista, così come portare i licei anche a Bellinzona, Locarno e Mendrisio. Ma sono cose di quarant’anni fa. Sarebbe come contentarsi della rivoluzione agricola, di quella industriale o di quella francese. Non è vero che sono sufficienti le pari opportunità per dare concretamente a ognuno la giusta occasione per riuscire a dare il meglio di sé. Basta guardare la questione femminile: nessuno se la sente di sostenere che il solo fatto di nascere donna possa generare disuguaglianze sociali, politiche o economiche. Cavoli: ci sono le pari opportunità! Eppure…

Ho detto che nessuno se la sente di?

Chiedo scusa.

Ho esagerato.

In realtà qualcuno c’è.

L’Unione Democratica di Centro, come si sa, è un partito di destra, malgrado l’aggettivo un poco temerario, e il sostantivo – centro – che è lì per ragioni storiche. Qualche giorno fa, l’11 maggio per la precisione, la sezione vodese dell’UDC ha pubblicato quel ch’è definito Son premier document de reference politique: «L’UDC, la voie du bon sens!». Il documento, di una settantina di pagine, è una specie di bibbia elvetica del XXI secolo. L’UDC (vodese…) traccia il suo Mein Kampf dicendo la sua sulla famiglia e sulla formazione, sulla giustizia, sulla sicurezza e su tutti i temi che interrogano ogni paese dell’occidente, senza naturalmente scordare le religioni, l’asilo e, pensa te!, anche le migrazioni.

Un paio di giorni fa, al capitolo «Famiglia», c’era scritto, tra le altre cose, che bisognava smetterla con la storia che non si potevano tirare un paio di cazzotti ai propri figli, sano principio democratico di educazione alla pace. Il Corriere del Ticino di sabato scorso titolava: «UDC Per educare i figli ci vogliono le sberle». E nell’edizione pubblica e online: «Sberle ai figli per salvare la famiglia». Ecco qua il capitolo di cui si parla.

Chiaro?

Il lunedì di Pentecoste, 16 maggio, la via del buonsenso dell’UDC ha già avuto un primo ripensamento. Neanche ventiquattr’ore dopo, il trattatello di pedagogia democentrista è già sparito: Le présent chapitre fait actuellement l’objet d’une mise à jour. Gli schiaffi e le sberle si sono dissolti. È scomparso l’intero capitolo. Attenderò con curiosità l’esito dell’aggiornamento tanto improvvisato e repentino. Ma non ci potevano pensare prima?

Naturalmente ci sono posizioni pirotecniche anche al capitolo Formation, con chicche come questa: «Sebbene la formazione in un’Alta Scuola Pedagogica non sia inutile, conviene tener presente che “la pedagogia non è una scienza, ma una tecnica”». Eccetera.

Oggi tutti dichiarano la loro adesione al principio universale delle pari opportunità. Mi viene in mente una vignetta esemplare, che circola da tanti anni:

Il compito è uguale per tuttiEccole qua, le pari opportunità: il compito è uguale per tutti, nella più completa indifferenza alle differenze – un’apatia che non è per nulla neutra, politicamente parlando. Tra l’altro ne avevo già parlato; ad esempio: I politici, il DECS e l’indifferenza alle differenze o Un mal inteso senso delle pari opportunità.

Ho la netta sensazione che anche i sostenitori dei quattro scapaccioni educativi non siano così rari: ma non è una posizione che fa tendenza, meglio non dirlo troppo in giro. Forse basterà aspettare un po’, ma poi ci arriveremo.

A differenza del consenso verso le pari opportunità, credo che le punizioni corporali, anche senza arrivare alle frustate e ai fagioli sotto le ginocchia, abbiano il loro pubblico, neanche troppo di nicchia.

Botte a parte, e senza troppe acrobazie retoriche, non si può scordare che pochi anni fa un gruppo di insegnanti ticinesi aveva lanciato il suo «Appello per la scuola», per far sì che i genitori di questo cantone potessero essere «… compiutamente informati in merito alla scuola che frequentano i nostri figli» (v. Troppa pedagogia!).

Non sarebbe male se, in tempi accettabili, anche chi si compiace della sua adesione alla solita solfa delle pari opportunità si desse una mossa. Con le pari opportunità non si riesce neanche a risolvere la questione femminile. Figuriamoci tutto il resto, ch’è addirittura più complicato.

La forza dell’insuccesso e l’elogio del fallimento

Mi è capitato di incappare due volte di fila in conversazioni sull’insuccesso. Andrea Fazioli, l’autore del bel romanzo L’arte del fallimento, edito da Guanda, ha un blog che presenta regolarmente delle riflessioni sempre molto argute. A fine aprile ha proposto ai suoi lettori alcune considerazioni sul tema del fallimento e ha richiamato un altro pezzo pubblicato nel sito «Il Libraio», intitolato Sette lezioni di fallimento, ispirate da altrettanti autori: come fallire in maniera grandiosa; come accettare il fallimento; come rialzarsi dopo i fallimenti; come fare del fallimento un’arte; come fallire un’indagine; come trasformare il fallimento in eroismo; come ridere del fallimento. Per finire Fazioli ha aggiunto un’ottava lezione, ispirata a Butcher’s Crossing, romanzo dello scrittore statunitense John E. Williams.

Passano un paio di giorni ed ecco, sul Corriere della sera, un bel pezzo di Paolo Di Stefano, Il prof di Princeton pubblica il curriculum dei suoi migliori flop (se non si riesce ad accedere al corriere.it si trova l’articolo qui). Si parte dallo strillo di autore anonimo, che sarà svelato a fine articolo: «Il successo è il solo metro di giudizio di ciò che è buono o cattivo». Poi si passa a una frase di James Joyce, «il grande scrittore irlandese che non si preoccupò certo di essere letto da un gran numero di persone, visto che scrisse uno dei romanzi più ostici della letteratura, Ulisse, per non parlare di Finnegans Wake, esempio massimo di libro intraducibile». Il professor McHugh, personaggio joyciano, sentenziò: «Fummo sempre fedeli alle cause perse: il successo per noi è la morte dell’intelletto e della fantasia».

Ecco allora che Di Stefano racconta del professor Johannes Haushofer, un prof reale, stavolta, docente di psicologia e neurobiologia alla prestigiosa università di Princeton, già ricercatore a Oxford, a Harvard e a Zurigo: che ha narrato su Twitter il curriculum vitae dei suoi fallimenti.

CarricHome_mix_et_remixHo già detto troppo: i due interventi, quello di Andrea Fazioli e quell’altro di Paolo Di Stefano, meritano di essere letti, senza altre mediazioni pericolosamente di parte. Per certi versi ricordano il famoso Sbagliando s’impara, nonché le storielle di Giuseppe Verdi, scartato dal conservatorio milanese che avrebbe poi preso il suo nome, o di Albert Einstein, rifiutato dal politecnico di Zurigo perché non riuscì a superare gli esami di ammissione.

Le valutazioni e gli esami incessanti sono bestiacce. Come diceva Don Lorenzo Milani «Bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo». E aggiungeva: «La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde». In effetti la scuola, quella dell’obbligo e quella che segue subito dopo, è campione nel dividere i bianchi dai neri, il loglio dal grano, la lumaca dal ghepardo. Tanto per fare un esempio che non invecchierà mai, non è chiaro perché un bambino debba imparare a leggere e scrivere secondo l’età decretata dalla scienza statistica, così che se fai parte di quel 15% di statisticamente immaturi – immaturi al momento della valutazione – rischi il pollice verso: bocciato!

La storia delle pari opportunità andava bene giusto giusto 48 anni fa. Oggi è grottesco che quell’enunciato, che certo funzionava in quegli anni, sia cavalcato da chi le pari opportunità le osteggiò più che poté e da chi, invece, ne fece uno slogan senza aver capito bene di cosa si stesse parlando. Pari opportunità, mezzo secolo dopo, significa anche opporsi con fermezza all’inveterata indifferenza alle differenze.

Barrigue Tu as appris quoiAi nostri giorni, sciaguratamente, è molto di moda il pensiero riferito da Di Stefano come incipit del suo articolo. Che osserva: Potrebbe essere il motto di un dirigente marketing dei nostri giorni.

Mi vien da completare: un uomo qualunque, un politico di destra di sinistra o di centro, un insegnante, un dirigente scolastico o un sindacalista. Invece, sapete chi l’ha scritto?, ha chiesto Di Stefano in conclusione.

Chi è d’accordo con l’enunciato, soprattutto se poi scrive proclami, rilascia dichiarazioni ai massmedia e/o inoltra atti parlamentari per raddrizzare la scuola, vada a scoprire chi ne è l’autore.

Chi si ricorda più del «Profilo degli insegnanti»?

Si trattava in realtà di un documento del dicembre 2007, così definito: «Per profilo professionale è intesa la descrizione accurata delle competenze e dei comportamenti attesi dai docenti e riferiti  al lavoro in sezione con gli alunni,  alla preparazione,  alla formazione,  alla vita di istituto,  alle relazioni con i colleghi, le autorità, i genitori, la comunità locale»: mica minuzie. Il documento, come ho accennato, aveva avuto una larga diffusione, benché si trattasse di una proposta in consultazione e non ancora di una sorta di contratto impegnativo tra le parti. In particolare l’avevano ricevuto, oltre ai soliti uffici cantonali e gli ispettorati, i direttori, l’Alta Scuola Pedagogica, le autorità comunali, le associazioni magistrali e la Conferenza cantonale dei genitori. Naturalmente, anche la stampa ne aveva parlato, erano apparsi articoli e riflessioni, c’erano state serate pubbliche. Non mi interessa qui entrare nel merito di questo «Profilo», che chiunque può consultare nella sua versione originale e incompiuta (basta digitarne il titolo in un qualsiasi motore di ricerca). Invece vi sono un paio di dettagli di un certo interesse, anche per capire le cose di questo cantone e della nostra scuola. Nella lettera che accompagnava la trasmissione del documento si può leggere che «tra i numerosi fattori che concorrono a determinare la qualità del complesso sistema scolastico, la professionalità dei vari attori è e rimarrà uno degli elementi centrali. Per questo motivo il Collegio degli ispettori ha riservato una riflessione importante, nel corso di questi ultimi tre anni scolastici, alla figura e al mandato dei docenti di scuola dell’infanzia ed elementare». Infatti già il 23 novembre 2006 il direttore dell’USC, prof. Mirko Guzzi, aveva presentato un documento, a quell’epoca un pochino diverso, ai direttori delle scuole comunali, riuniti in seduta plenaria a Sementina. Solo che il titolo era un altro: «Valutazione docenti». I direttori avevano applaudito l’iniziativa, ma avevano altresì consigliato, con un po’ di sdegno, di non “bruciare” tutto sull’altare della valutazione. Anzi: meglio togliere del tutto l’accenno alla valutazione e pensare invece a valorizzare i docenti. Ohibò: vuoi vedere che chi vive di valutazione quotidiana, ha poi paura della valutazione? Tant’è. Sta di fatto che per la fine del 2010 gli ispettori avrebbero dovuto esaminare il «Profilo» nell’ambito dei loro nove circondari e inviare poi il loro parere e le loro proposte all’USC, affinché il documento fosse calibrato e approvato dal DECS, per diventare quindi uno strumento operativo e impegnativo per valorizzare, correggere, aiutare, formare e, perché no?, liberarsi degli insegnanti «diversamente bravi»… Il circondario di cui facevo parte – il VI – aveva fatto i compiti e aveva inviato entro i termini le sue riflessioni e le sue proposte: mi sembra un documento interessante e per questo motivo lo metto a disposizione di chi fosse interessato [Profilo professionale – Documento del VI circondario] E qui sta la seconda curiosità, perché non se n’è saputo più nulla.

Educazione alla cittadinanza: tu t’incazzi o Lei s’infuria?

L’iniziativa «Per educare i giovani alla cittadinanza» sta generando un dibattito fitto. C’è da augurarsi che, alla fine, produca qualcosa di buono, e non la solita risoluzione parlamentare che, un colpo al cerchio e uno alla botte, dà a intendere che il problema è stato risolto. Il rischio, non da poco, è che le posizioni si polarizzino: ha ragione il primo firmatario Alberto Siccardi, segnalando sospetti, insinuazioni e letture troppo disinvolte (CdT del 3 giugno). Non credo che la proposta sia di per sé di destra o di sinistra. Ha scritto Giancarlo Dillena nel suo editoriale del 25 maggio: «Chi identifica nell’iniziativa solo l’espressione di una “destra populista” […] tradisce una visione curiosamente simmetrica del problema, nel senso di quell’“educazione politica” ideologicamente orientata a sinistra, che il Ticino e la sua scuola hanno ben conosciuto in tempi non molto lontani, quando questa concezione era assai ben rappresentata nel corpo insegnante». L’affermazione è sacrosanta. Ma, simmetria per simmetria, dimostra solo che se l’educazione alla cittadinanza è unilaterale il fallimento è pressoché una certezza. Non fosse così, i tanti partiti socialisti avrebbero dovuto prendere la maggioranza nel Paese già da diversi anni.
Personalmente continuo a credere che l’educazione alla cittadinanza abbia bisogno di alcune condizioni di base che in nessun modo possono essere (r)aggirate. Ad esempio è assolutamente necessario che al termine della scolarità obbligatoria i quindicenni abbiano acquisito quelle competenze basilari che consentano una critica lettura del mondo circostante. Raggiungere tale obiettivo comporta naturalmente delle scelte anche dolorose, per sfoltire i tronfi programmi della nostra scuola dell’obbligo e per investire in maniera convinta nelle competenze professionali degli insegnanti. Le finalità della scuola, sancite dall’art. 2 della Legge, sono di per sé il manifesto dell’educazione alla cittadinanza. Ma pretendere di educare e istruire i giovani dal punto di vista civico scavalcando ipocritamente le conoscenze essenziali, è come voler coltivare il frumento nell’asfalto.
C’è poi quella parte di educazione alla cittadinanza che coinvolge tutti, dentro e fuori dalla scuola, a volte modi di fare che paiono quisquilie. Prendiamo le forme di cortesia. A me non dà fastidio che gli allievi della mia scuola, quando m’incontrano, mi dicano «Ciao, direttore». Non è la forma, di per sé, che crea il rispetto. Mi secca invece che i nostri bambini e giovani – o allievi e studenti – non imparino nemmeno cosa siano, le forme di cortesia: non le conoscono dal punto di vista linguistico, né sanno distinguere quando usarle, perché nessuno glielo insegna. Capita però di peggio: assai spesso i genitori che bussano alla mia porta, soprattutto se stranieri, mi dicono ciao e mi danno del tu. Maleducati e cafoni? Certo che no. L’hanno imparato proprio qui, sul posto di lavoro, nei centri di accoglienza, in polizia, in tanti uffici dello Stato e dei sindacati. Quasi che dandoci tutti del tu fossimo più democratici e ospitali. In modo analogo sin da piccoli si impara una certa «economia cognitiva», che impoverisce e ci fa sembrare un popolo di buzzurri. Ha scritto Dario Corno, linguista torinese, che esistono almeno 61 forme diverse per indicare il verbo arrabbiarsi. «E tuttavia sembra che ne prevalga una sola, la quale asseconda la generale tendenza all’uso del turpiloquio nel linguaggio quotidiano e comune». Forse si potrebbe ripartire già da qui.