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L’arte sottile del sillogismo

Senza voler scomodare “il gran padre Dante” (O insensata cura de’ mortali / quanto son difettivi sillogismi / quei che ti fanno in basso batter l’ali!) devo parlare di una sintetica intervista che m’è capitato di leggere in questi giorni. «Cooperazione», il settimanale del gruppo Coop, ha dedicato un servizio garbato al tema delle pluriclassi, con una specie di omaggio alle quattro pentaclassi che sopravvivono in Ticino – Microcosmo di periferia – presenti a Locarno-Monti, a Personico, Ronco s/Ascona e Bissone.

Chi mi conosce e mi segue in questo sito sa che nutro grande stima delle pluriclassi e dell’eterogeneità. Ma mi ha colpito, nel servizio di «Cooperazione», la breve intervista a Mirko Guzzi, direttore dell’Ufficio cantonale delle scuole comunali. È sintetica quanto basta per poterla riproporre qui di seguito.

 

In Ticino sono rimaste solo quattro pentaclassi. È un modello destinato a sparire?

Non per forza. La pentaclasse non rappresenta mai una scelta didattica. Bensì una conseguenza dei numeri legati a piccole realtà periferiche. Alcuni comuni hanno davvero pochi bambini. Per non chiudere la scuola, si crea così una pentaclasse. Sono la demografia e la geografia a imporlo.

Pedagogicamente quali sono i vantaggi di questo modello?

Più classi nella stessa sezione rappresentano una ricchezza per l’allievo. Per esempio, si ha la possibilità di acquisire competenze con modalità e tempi diversi, si sviluppa la capacità di lavorare in modo autonomo, si capisce il valore formativo dei momenti di scambio. Per il docente è, però, impegnativo coordinare il tutto. Per forza di cose è costretto a fare delle scelte. Va detto, tuttavia, che nemmeno le monoclassi sono omogenee e la capacità di differenziare deve fare parte dell’Abc dell’insegnante.

Il futuro della scuola svizzera, e ticinese, è HarmoS. In quest’ottica che valore assume il concetto di pluriclasse?

È in corso un dibattito interessante. Una delle ipotesi è quella di avere la prima e la seconda elementare nella stessa sezione, in modo da creare un vero primo ciclo, per avere più continuità con la scuola dell’infanzia, diventata obbligatoria. Questa idea potrebbe facilitare il passaggio dei bambini alla scuola elementare, aprendo interessanti possibilità per gestire accelerazioni o rallentamenti del percorso scolastico. Per quanto riguarda terza, quarta e quinta elementare, la questione è più delicata, anche perché l’articolazione dei piani di studio è più complessa.

 

Ed ecco il sillogismo insuperabile.

  • Più classi nella stessa sezione rappresentano una ricchezza per l’allievo: si ha la possibilità di acquisire competenze con modalità e tempi diversi, si sviluppa la capacità di lavorare in modo autonomo, si capisce il valore formativo dei momenti di scambio.

Dato però che per il docente è impegnativo coordinare il tutto:

  • la pentaclasse non rappresenta mai una scelta didattica (e, perché no?, pedagogica), ma è imposta dai numeri. Sono la demografia e la geografia a imporlo.

Per dirla tutta, conviene sempre omologare il più possibile, al di là delle evidenze. Lasciando perdere gli studi di Ferrière sulle influenze astrologiche, che potrebbero contribuire a guidare la formazione migliore delle classi, sarebbe utile studiare altri sistemi di uniformazione, per superare l’ormai ammuffito criterio dell’età. Lo attesta anche il prof. Guzzi nell’intervista citata: «Nemmeno le monoclassi sono omogenee».

Ma guarda un po’?!

Scuole in collina: prove tecniche di collaborazione

Ecco un articolo che è stato pubblicato in questi giorni dalla rivista «Orselina 2015», edita dalla Pro Orselina, dove si parla di pluriclassi e dell’importanza di frequentare la scuola elementare dove si cresce e si vive.

È possibile scaricare interamente la rivista (Orselina 2015) o solo l’articolo, con le immagini e tanto di traduzione in tedesco: basta cliccare qui.


 

Da qualche anno si discute, tra i comuni della collina – Locarno, Orselina e Brione sopra Minusio – della possibilità o della necessità di creare una proficua collaborazione nella gestione delle tre sedi di scuola dell’infanzia ed elementare. Come è forse noto, da diverso tempo Brione e Orselina hanno stipulato una convenzione che regola la gestione della scuola dell’infanzia e della scuola elementare. Orselina ospita la scuola dell’infanzia e una sezione della scuola elementare, mentre un’altra sezione di scuola elementare è a Brione. Dal canto suo, i bambini di Locarno-Monti e di Brè frequentano la scuola dell’infanzia in città e la scuola elementare ai Monti, nella sede ampliata nel 2009 per far fronte a un’ipotesi di crescita importante della popolazione scolastica, crescita che si era poi esaurita in pochi anni.

Il progetto di aggregazione dei comuni della sponda sinistra della Maggia, poi bocciato in votazione popolare nel settembre del 2011, aveva permesso uno studio assai articolato circa l’organizzazione delle scuole della collina, con al centro un principio che ritengo tuttora di grande validità: «Si può (…) ritenere che la presenza della scuola – di una scuola – sul territorio stesso del comune rivesta un’importanza fondamentale, non fosse che a livello di identità e di attaccamento al proprio territorio. Molti comuni che, a suo tempo, optarono per le chiusure delle loro scuole, si sono assai rapidamente trasformati in anonimi quartieri-dormitorio. Un comune senza bambini che lo percorrono per andare a scuola è un comune senz’anima. Frequentare la scuola nel proprio comune – o nel proprio quartiere – è la prima condizione per conoscerlo»[1]. Nell’ottica di una futura collaborazione tra le tre entità comunali, è però necessario tener conto di due novità che saranno operative sul breve termine: la prima è l’entrata in funzione di HarmoS[2], che anticipa l’obbligo di frequentare la scuola a partire da quattro anni; la seconda è l’obbligo, stabilito da una recente decisione del Gran Consiglio, che ogni istituto di scuola comunale faccia capo a un direttore, decisione che azzera la figura del docente responsabile sino a oggi praticata da Brione e Orselina.

La collaborazione con Locarno, a questo punto, rischia di essere logica e naturale; al di là dell’obbligo imposto dal cantone in materia di direzione, Locarno dispone in collina di una sede scolastica ampia e, almeno in parte, moderna, ciò che non è il caso degli altri due comuni: è vero che la qualità della scuola è determinata principalmente dagli insegnanti, ma è altrettanto vero che gli spazi della scuola concorrono a creare quella serenità indispensabile affinché il lavoro di andare a scuola sia piacevole, per maestri e allievi. Detto questo, non si possono scordare due dati importanti entro i quali collocare i dettagli della collaborazione. Il primo è di natura schiettamente numerica: gli allievi presenti tra Brione e Locarno Monti non richiedono l’impellente aumento degli spazi scolastici, ma solo una migliore utilizzazione. Il secondo, più importante, è che Locarno-Monti, Orselina e Brione non hanno molte caratteristiche in comune, se non il fatto di trovarsi in collina e di far capo a una popolazione che, dal punto di vista socio-economico, è abbastanza affine.

Dunque converrà progettare la collaborazione alla luce delle due novità citate, affinché le maestre e i maestri che svolgono la loro attività in collina possano migliorare ancora un livello già buono, attraverso l’alleggerimento burocratico e una nuova organizzazione che non dev’essere «rivoluzionaria» a tutti i costi. Il mantenimento delle attuali sedi scolastiche è scontato e irrinunciabile. Le pluriclassi, sino a oggi, hanno dimostrato che sono tutt’altro che classi di serie B, come si sente spesso ripetere da più parti, in modo invero un po’ dogmatico. Anzi, a parer mio conservano un valore aggiunto rispetto alle monoclassi che sarebbe da scellerati il solo pensare di smantellarle o di ridurle tutte verso il modello che più assomiglia all’omogeneità[3], senza dimenticare che questo tentativo farebbe aumentare il nomadismo giornaliero degli allievi, aumentando i disagi e i costi.

In altre parole, e per concludere, i dettagli dell’accordo di collaborazione dovranno rappresentare un vantaggioso miglioramento per tutti e non solo un atto amministrativo.

[1] Educazione – Documento ad uso del gruppo di lavoro nell’ambito dello studio di aggregazione dei comuni della Sponda sinistra della Maggia, sottoscritto dai capidicastero dei sette comuni coinvolti, gennaio 2009.

[2] Accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria, al quale il Canton Ticino ha aderito.

[3] A questo proposito si veda pure l’articolo W l’eterogeneità! W le pluriclassi! nel mio sito Cose di scuola (www.adolfotomasini.ch).

L’inclusione tra sogni e realtà

C’è una nuova parola che circola nel contesto pedagogico ticinese da un paio d’anni: inclusione, erede diretta di integrazione e di accoglienza, che hanno caratterizzato gli ultimi due o tre decenni. «Scuola Ticinese», periodico della Divisione della scuola del DECS, ha dedicato un suo recente numero monografico al tema dell’inclusione. E di inclusione si parla anche nel comunicato stampa del DECS dedicato alla quinta indagine internazionale PISA. Vi si legge:

Uno dei capisaldi della scuola ticinese è l’inclusione: il sistema cerca infatti di accogliere al proprio interno il maggior numero di allievi, evitando il più possibile separazioni di tipo strutturale. Questo implica di riflesso la presenza di classi maggiormente eterogenee, come succede nei sistemi scolastici con i migliori risultati, ma di più difficile gestione se non accompagnate da adeguate misure pedagogiche. Partendo dal presupposto che la scuola ticinese intende mantenere, se non rafforzare, la sua natura inclusiva, è necessario un cambiamento che, pur preservando i principi della scuola attuale, permetta ai docenti di disporre di strumenti più efficaci attraverso i quali gestire l’eterogeneità in classe. Maggiore differenziazione, percorsi più personalizzati, incoraggiamento della collaborazione tra docenti e una griglia oraria più flessibile potrebbero essere delle risposte a queste sfide.

I «casi difficili»

In un commento al mio articolo W l’eterogeneità, W le pluriclassi!, Doriano Buffi, direttore di scuola comunale, ha toccato il tema dell’inclusione riferendosi ai cosiddetti casi difficili (si veda in calce all’articolo il suo primo commento un po’ maldestro, seguito dalla mia reazione e dalla sua precisazione). L’argomento rimanda dritti dritti al lodevole proposito dipartimentale, e fanno bene i suoi vertici politici e pedagogici a mirare al nobile obiettivo di accogliere all’interno dei normali canali scolastici il maggior numero possibile di allievi, evitando separazioni di tipo strutturale. Giustamente lo stesso Dipartimento auspica «un cambiamento che (…) permetta ai docenti di disporre di strumenti più efficaci attraverso i quali gestire l’eterogeneità in classe» attraverso «maggiore differenziazione, percorsi più personalizzati, incoraggiamento della collaborazione tra docenti e una griglia oraria più flessibile».

In tanti anni di esperienza ho avuto spesso a che fare con casi difficili, a volte già alla scuola dell’infanzia, e ben prima che si cominciasse a parlarne come di un problema. Detto per inciso: si sa che quando si comincia a parlare di qualche nuovo fenomeno è perché i casi si stanno moltiplicando e, sovente, i buoi sono almeno sull’uscio, pronti a uscire dalla stalla. Chiuso l’inciso.

Quei casi sono triplicemente difficili. Lo sono perché i bambini o i ragazzi soffrono assieme alle loro famiglie. Lo sono perché l’insegnante e gli altri allievi si vedono l’ambiente di lavoro disturbato pesantemente, un ambiente costruito in tanti mesi di impegno assiduo o magari, invece, ancor tutto da creare. E lo sono pure per le cosiddette autorità scolastiche al fronte – ispettori, direttori, capigruppo del sostegno pedagogico – che sanno molto bene come gli strumenti a loro disposizione siano fragili o inesistenti e, soprattutto, richiedano tempi lunghi per essere attivati. Si creano così situazioni drammatiche, grondanti frustrazioni a 360 gradi, senza parlare del pietoso festival delle arrampicate sui vetri, nell’estenuante tentativo di limitare i danni in attesa di escogitare una soluzione precaria.

In questi casi non è lecito intervenire nell’ambito dell’inclusione a priori. Si deve capire che questi casi difficili non possono essere affrontati all’interno della classe, nemmeno con la presenza in aula di personale supplementare, peraltro mai a tempo pieno e quasi mai disponibile dall’oggi al domani. Per contro occorrerebbero strutture in grado di proteggere questi allievi e le loro famiglie e, nel contempo, di intervenire sulle cause che provocano i comportamenti devianti, con l’obiettivo di raggiungere l’inclusione nel tempo più breve: per taluni potrebbero essere poche settimane, per altri anni interi. La presenza di un bambino difficile in una sezione di scuola dell’infanzia o elementare ha effetti devastanti, con ricadute incontrollabili su tutta la scuola. Sono casi che annichiliscono la necessaria serenità che serve per mettere in atto il già difficile compito di educare all’interno di un gruppo attraverso il lavoro dell’imparare.

Tenere in classe questi seppur pochi casi difficili sarà anche politicamente corretto, ma alla fine è logorante e, nel contempo, non fa il bene della scuola né, ovviamente, di quegli stessi allievi. Siamo insomma confrontati con casi psichiatrici. Dalle maestre e dai maestri delle scuole dell’infanzia ed elementari, che sono dei generalisti, non possiamo continuare a pretendere che, oltre a tutti i compiti che son stati loro assegnati negli ultimi quarant’anni, siano pure in grado di affrontare situazioni che neanche gli specialisti saprebbero gestire in situazioni analoghe.

I diversi «non difficili»

Diversa è la vicenda, invece, di alcuni allievi che non sono di per sé casi difficili, ma finiscono assai spesso in quel benemerito settore scolastico che si chiama scuola speciale. Penso, in particolare, a quei bambini o ragazzi dalle capacità intellettive lievemente ridotte, leggeri ritardi che rendono particolarmente difficile la loro inclusione nelle classi «normali», essenzialmente a causa del fatto che nelle classi «normali» – le virgolette sono naturalmente una scelta consapevole – vige il primato della prestazione prettamente scolastica, appesantito da un accanimento valutativo e sommativo che non giova a nessuno. Questa indifferenza alle differenze, che si traduce, ad esempio, nella certificazione annuale, cozza in maniera apertamente contraddittoria contro quella differenziazione dell’insegnamento e quei percorsi personalizzati di cui parla il Dipartimento.

Vi sono allievi che finiscono a scuola speciale perché non raggiungono determinati obiettivi dei programmi nei tempi prestabiliti, tempi che sono fissati dalle statistiche della psicologia cognitiva e da quelle, più empiriche, dell’esperienza. Ho visto ragazzi finire a scuola speciale perché, ad esempio, dopo aver rinviato l’inizio della scuola obbligatoria e aver ripetuto poi una classe, rischiavano di ritrovarsi con delle competenze scolastiche inadeguate per l’età, mentre il corpo era già quello di un preadolescente. Per questi ragazzi l’alternativa alla scuola speciale poteva essere il disimpegno della scuola: li si aiutava a cavarsela in qualche modo per tirare a campare fino al termine della scuola elementare, assegnando delle sufficienze che nascondevano gravi lacune e che si aggravavano col trascorrere degli anni. Qualcuno sarebbe riuscito a barcamenarsi fino ai quindici anni, qualche altro sarebbe diventato un caso difficile.

Ancora una volta, quindi, W la massima eterogeneità. Per una volta mi sento di sognare anch’io coi vertici del Dipartimento dell’Educazione: la scuola indicata, quella dell’inclusione, è l’unica che può Educare per davvero. Ma occorre azzerare le contraddizioni interne, la più vistosa delle quali resta la selezione dei «migliori», o quantomeno la loro classificazione, attraverso programmi scolastici ingiustificabili, che sono soggettivamente valutati a scadenze ravvicinate e regolari – con tanto di promozioni e bocciature – senza tener conto delle differenze individuali. Le pari opportunità sono state una conquista; oggi, tuttavia, non devono impedire di mirare alla parità dei risultati a livello elevato, vale a dire al raggiungimento del risultato massimo a cui ognuno può spingersi.

W l’eterogeneità, W le pluriclassi!

La campagna in vista della votazione sull’iniziativa «Aiutiamo le scuole comunali», iniziata in primavera, ha moltiplicato a dismisura gli interventi sulla stampa. Dal fronte del e da quello del no giungono motivazioni a sostegno dell’una o dell’altra tesi che vanno ad arricchire la già nutrita serie dei colori dell’iride. Non ho naturalmente letto e ascoltato tutto ciò che è stato scritto e detto. Sono stato costretto a una selezione, perché, a dispetto dell’essere in pensione, non posso mica passare le giornate a leggere di tutto e di più sulla scuola ticinese e i suoi dintorni.

Ma, qua e là, ho colto qualche sparata degna di citazione. Eccone tre che mi hanno colpito per l’originalità della traiettoria.

  • Per replicare a chi afferma che se quest’iniziativa fosse accolta dal popolo il margine decisionale dei comuni si avvicinerebbe allo zero, qualcuno ha affermato che «La scuola comunale rimane ai comuni per quanto riguarda la scelta dei docenti, del direttore, dell’edilizia e tante altre cose; e soprattutto la vigilanza. Però è importante che su tutto il territorio cantonale tutti abbiano le medesime opportunità». Quando si dice l’autonomia – e senza tornare al merito delle ormai famose «pari opportunità», che son diventate il classico nebbione che nasconde e confonde tutto. L’autonomia: babbo Stato impone ai comuni auto costose e non necessariamente adeguate a ogni particolare territorio. Naturalmente il Comune paga una sostanziosa parte del costo (e non è un leasing). Poi può scegliere il colore dell’auto e chi la guida. Addirittura ha l’autonomia di verificare che l’auto funzioni come si deve. Per finire può (eh eh!) finanche costruire una bella autorimessa, possibilmente Minergie.
  • «Con più la classe è numerosa, più il maestro è costretto a fare delle lezioni frontali, delle lezioni cattedratiche». Questa l’ha detta un caro amico e ormai ex collega, che conosce bene le esperienze di Don Lorenzo Milani, tanto per citarne uno tutt’altro che a caso. Un Maestro che non la pensava proprio così, anzi. Si vede che il caro amico e ormai ex collega è ancora attratto dal magister, sul modello universitario; l’unica alternativa possibile sarebbero classi sufficientemente piccole, affinché sia possibile dare “lezioni private”. Tertium non datur.
  • Della terza chicca ho perso l’autore e il giornale che l’ha ospitata. Riassumo a memoria: l’opinionista di turno è d’accordo che si diminuisca il numero di allievi per classe. Ma ritiene che tra 25 e 15, 16 o 20 non cambi gran che. Bisognerebbe fare classi veramente piccole, di otto o dieci allievi. Vabbe’, pian piano torneremo al precettore di aristocratica memoria.

Un’interessante intervista al ministro dell’educazione

Ma torniamo alle cose serie. Manuele Bertoli, che da presidente del Partito socialista era tra i promotori dell’iniziativa e che da Direttore del DECS aveva proposto un compromesso al Parlamento, oggi, da Presidente del Consiglio di Stato, si ritrova a sostenere il punto di vista della maggioranza governativa, come noto contrario all’iniziativa. E lo sta facendo con grande correttezza: tanto di cappello. L’11 settembre ha rilasciato una lunga intervista al Corriere del Ticino, pubblicata col titolo «Scuola, oggi sono tenuto a dire no». Non entro nuovamente nel merito dei soliti capitoli trattati dall’iniziativa, ma voglio sottolineare una sua affermazione significativa, importante e fuori dal coro.

Domanda del giornalista: «È vero che portare a 20 allievi l’asticella potrebbe generare l’effetto perverso dell’aumento delle pluriclassi?».

Risposta del ministro Bertoli: «Lo abbiamo segnalato nel documento consegnato alla Commissione scolastica sugli effetti quantitativi che dava conto dei costi dell’iniziativa. È vero che in alcune zone il numero di pluriclassi potrebbe aumentare perché non sarebbe data la possibilità di fare monoclassi da 22 o 23 allievi e quindi si andrebbero a comporre sezioni con più classi al loro interno. Bisogna però non drammatizzare troppo il tema, le pluriclassi non sono necessariamente un male. Alcuni sostengono addirittura che sono utili nella misura in cui chi è più debole può, quando segue la classe più avanzata, ascoltare e ripetere quanto fatto l’anno prima e chi è più forte, nella classe meno avanzata, può già sentire cosa farà l’anno successivo. Comunque l’iniziativa porta ad un aumento delle pluriclassi, anche se la situazione è molto differenziata sul territorio».

Era ora che qualcuno lo dicesse, non fosse che per il grande rispetto verso i tanti maestri che insegnano bene e da anni nelle pluriclassi [1]. Ma è ora e tempo di finirla con la storiella che le pluriclassi siano una sorta di male necessario allorché, per far funzionare le alchimie numeriche e nell’impossibilità di poter istituire le tanto agognate monoclassi, si è costretti a mettere insieme allievi di classi diverse. Prendendo a prestito un recente tormentone di Celentano – mi si passi la citazione bislacca – la pluriclasse è rock, mentre la monoclasse è lenta.

Non è questa la sede per sintetizzare i tanti vantaggi della pluriclasse e il primato educativo della massima eterogeneità. Chi è interessato ad approfondire il tema può rivolgersi all’ampia letteratura in materia. Se si vuol trovare qualche spunto, magari leggermente provocatorio, si può dare un’occhiata al capitolo che Philippe Meirieu dedica all’eterogeneità nel suo libro L’école ou la guerre civile, che può essere consultato e scaricato qui: Pour un nouveau contrat entre la société et son école: “vive l’école obligatoire”! (da pagina 108).

L’omologazione è nemica dello sviluppo, della crescita e della creatività

La monoclasse è parente stretta di quella classe che si è stabilizzata nel XIX secolo, basata essenzialmente sul corso ex cathedra, e nasconde in modo subdolo la selezione delle future élites attraverso la legittimazione degli status socio-economici e culturali di partenza. Se è questa la scuola che si vuole, lo si dica con chiarezza. In caso contrario occorrono «delle riforme di carattere più pedagogico» per la scuola dell’obbligo (Manuele Bertoli, nella medesima intervista citata), per staccarsi esplicitamente e senza alibi quantitativi dall’organizzazione del lavoro quotidiano degli insegnanti che ruota attorno a lezioni uguali per tutti, esercizi uguali per tutti, tempi uguali per tutti e valutazioni uguali per tutti da effettuarsi nei medesimi momenti per tutti – col servizio di sostegno pedagogico a inseguire i danni provocati da questa maniera di affrontare la scuola dell’obbligo, senza mai arrivarne a capo.

Sarò vecchio, ma resto vicino alle finalità che il nostro Parlamento ha definito per la scuola dell’obbligo: formare cittadini. Cioè educare e istruire, perché non esiste un concetto di cittadino ignorante, mentre è facile allevare idioti specializzati, vale a dire uomini e donne super-specialisti nella loro disciplina, che non sanno assolutamente nulla delle discipline altrui.

Nell’ultimo decennio la scuola è divenuta sempre più utilitaristica. Cioè a dire: si è votata anno dopo anno alle conoscenze sterili e specialistiche (pardon, oggi le chiamano competenze).

Una scuola siffatta ha bisogno di strutture coerenti. Oddio: da sempre la scuola tende a omologare i gruppi, come avevo scritto in un articolo «Fuori dall’aula» del 2009, prendendo spunto da un’estemporanea proposta che voleva reintrodurre la separazione dei sessi nella formazione delle classi: Classi maschili e femminili nella scuola media? Così come, in due altre puntate della mia rubrica sul Corriere del Ticino, mi ero occupato dell’omologazione delle classi (I ghetti del XXI secolo) e dell’individualizzazione esasperata dell’insegnamento (Nel grande emporio della formazione).

I vantaggi della pluriclasse

Detto questo, parliamo un poco delle pluriclassi, con un plauso al ministro Manuele Bertoli, che, seppur timidamente (le pluriclassi non sono necessariamente un male), ha avuto il coraggio di dire quel che sarebbe stato preferibile sentire, da sempre e non solo da ieri, da ispettori, direttori e funzionari del Dipartimento. In questo Cantone le pluriclassi sono normalmente istituite quando non è possibile fare altrimenti, vale a dire quando i numeri non permettono l’istituzione delle tanto bramate monoclassi, quasi che il mettere insieme allievi più o meno della stessa età risolvesse motuproprio il problema dell’insuccesso scolastico.

Dovremmo chiederci, per cominciare, se vi sono dati chiari che indichino se vi sono significative differenze tra le competenze che si acquisiscono in una monoclasse rispetto alla pluriclasse. Nel contempo: da una trentina d’anni si ripete che, mono o pluri che sia la classe, è fondamentale differenziare l’insegnamento, badando bene al fatto che differenziare non è l’equivalente di individualizzare. Anche in questo caso l’insegnante è la trave portante della scuola: il maestro che non sa o non vuole differenziare il suo insegnamento, optando per troppe chiacchiere cattedratiche ed esercizi uguali per tutti, sarà ancor più in difficoltà in una pluriclasse. Ma se non sa o non vuole, non è al suo posto.

Vi sono sedi scolastiche che non conoscono le monoclassi, perché i numeri non l’hanno mai permesso. Però anche in questi casi ogni tanto non mancano le soluzioni perverse o, quantomeno, poco ragionevoli. Ho incontrato a fine agosto una bravissima maestra che lavora in una di queste piccole sedi. Mi ha detto che quest’anno le è stata assegnata una 1ª/2ª/3ª di 24 allievi, mentre la sua collega avrà una 4ª/5ª di 16 allievi. In quella sede ci sono dunque 40 allievi. Non sarebbe stato più logico istituire due pluriclassi di 20 allievi? O, meglio ancora, non sarebbe stato più razionale istituire un’unica sezione di cinque classi e 40 allievi affidata a due docenti a tempo pieno, quasi certamente con la presenza di un docente d’appoggio? Per dirne una, un’organizzazione siffatta avrebbe offerto la possibilità di far variare il numero di allievi a dipendenza dell’attività da svolgere. Per esemplificare, con un caso semplice semplice, e farmi capire: mentre 20 allievi sono in palestra con il docente speciale, due maestre possono occuparsi di 20 allievi. Le combinazioni sono naturalmente infinite.

In altri anni c’era stata la moda dei consorzi. Mi viene in mente il caso della Vallemaggia. Negli anni ’70 si era costruito e istituito il Centro Scolastico Bassa Vallemaggia, azzerando con un colpo di spugna le scuole di nove comuni (Avegno, Gordevio, Aurigeno, Moghegno, Maggia, Lodano, Coglio, Giumaglio e Someo). Il nuovo centro sembra una scuola di città. Ha la palestra e le sue brave monoclassi. Costa un sacco di soldi, costringe un gran numero di bambini e ragazzetti a trasferte giornaliere coi bus. I villaggi non hanno più la loro scuola (uh, le pluriclassi…) e la nuova scuola assomiglia a tutte le altre.  Cosa ne abbia guadagnato la Valle in termini di educazione e istruzione non si sa.

École-active-de-MalagnouLe scuolette di paese. Anni fa avevo avuto occasione di visitare una scuola a Ginevra, «La Barigoule», nel quartiere di Malagnou, a quei tempi diretta da un bravissimo Jean-Claude Brès [2]. Ricordo un piccolo edificio a due piani, su una collinetta, attorniato da palazzi che fanno sembrare «La Barigoule» a una specie di isola in mezzo all’oceano (la foto mostra una ristrutturazione recente; io parlo di oltre vent’anni fa). È una scuola che ha scelto L’école active, malgrado i locali esigui, i banchi e il mobilio raffazzonati (forse scarti di scuole pubbliche rammodernate). Ma vi si respirava un’aria entusiasmante e vivace, generatrice di educazione, sostenuta da un gruppo di insegnanti appassionati e ben consapevoli del loro ruolo. Alle monoclassi e al mobilio scintillante e moderno avevano preferito la forza delle idee e del rigore.

Célestin Freinet (1896-1966) ha spesso operato con pluriclassi piuttosto numerose. In quei primi decenni del ’900 i dibattiti attorno all’educazione come strada di progresso e di emancipazione politica e civica sono intensi. Accanto alla scuola «ufficiale», che classifica gli allievi e seleziona le élite, crescono e si diffondono movimenti che approfondiscono la cooperazione tra allievi, la corrispondenza scolastica, la differenziazione come forma di rispetto dei ritmi di ognuno, il rigore della conoscenza. Lo stesso Freinet si butta nell’esperienza dell’Educazione nuova, entra in contatto con John Dewey, Adolphe Ferrière, Ovide Decroly, Roger Cousinet.

Chissà: forse le scuole ispirate dai modelli dell’educazione nuova non sono mai riuscite a offuscare la vecchia scuola «ufficiale» proprio perché i suoi principi e le sue finalità tendono per davvero all’emancipazione. Quell’altra scuola, ancor molto legata nella sua organizzazione e nelle sue strutture a quella dei suoi albori (XVIII e XIX secolo), ha saputo superare anche il ’68 e arrivare sin qua, pimpante e cinica, pronta ad affrontare le prossime riforme gattopardesche: tanto ci sarà sempre qualche nuovo gruppo sociale da bocciare ed escludere. C’è sempre bisogno di braccia che, soprattutto, stiano zitte.

Mi fermo qui, per oggi. Sono convinto che la pluriclasse, combinata col lavoro in équipe, offrirebbe tante formidabili opportunità per migliorare la scuola dell’obbligo. La ricerca affannosa dell’omogeneità – per età, per sesso, per quoziente intellettivo, per segno astrologico, per scelta religiosa… – impone di volta in volta aggiustamenti costosi. La strada affinché ogni cittadino possa dire, con l’Alfieri (e con Piero Gobetti), di non aver niente a che fare con gli schiavi è ancora lunghissima.

Poi ci sarebbero altre innovazioni per rendere la scuola più coerente col mondo che la circonda. Ma di ciò parlerò forse in altra occasione.


[1] Per intenderci: quando parlo di pluriclasse intendo ogni sezione formata da allievi che frequentano classi diverse: dai classici 1ª/2ª e 3ª/4ª/5ª alle tante combinazioni possibili, non escluse le sezioni di otto classi, ancora esistente in qualche scuoletta discosta fino a 40 o 50 anni fa (dalla 1ª elementare alla 3ª maggiore, senza saltare nessuno).

[2] En 1972, Claude Ferrière, Robert Hacco, Michael Huberman, Laurie Lamartine et Freddy Stauffer fondent une association dans le but de promouvoir la pédagogie active à Genève. Face à la difficulté d’introduire une rénovation rapide au sein de l’instruction publique, ils décident de créer une école privée. Ils font appel pour cela à différentes personnes déjà engagées dans des démarches de pédagogie active dont Jean-Claude Brès et Ariane Ferrière. (École active de Malagnou).

Una lettura critica dell’iniziativa «Aiutiamo le scuole comunali»

Il testo che segue, e le schermate Power Point che lo accompagnano, riferiscono di una presentazione e di una riflessione che proposi alla Conferenza dei Direttori degli Istituti Scolastici Comunali (cosiddetta CDD, con un vecchio acronimo) durante una seduta che si tenne al Centro diurno di Rivera il 20 gennaio 2011, oggi comune di Monteceneri. Questo intervento mi fu chiesto dalla presidenza della Conferenza, all’epoca presieduta da Matteo Cavadini. Leggo dal verbale datato marzo 2011 che erano presenti 36 direttori (su 44).

Avevo trasmesso le slides e i miei appunti all’ufficio presidenziale, con questa premessa: «Il testo che segue è il complesso degli appunti utilizzati durante la presentazione, durata circa un’ora. Proprio per la loro natura di brevi annotazioni a mo’ di promemoria, è necessario sottolineare che a far stato è il testo proposto oralmente».


Gli appunti dell’intervento

In tutta sincerità, non ho ben capito come mai sia stato chiesto proprio a me di intervenire oggi sull’Iniziativa popolare legislativa nella forma elaborata, lanciata nel 2009 da persone vicine al sindacato VPOD e al Partito socialista. L’iniziativa ha goduto di un successo che definirei strepitoso, raccogliendo rapidamente 10 mila firme, dunque ben più del necessario.

Immagino che tutti sappiano che personalmente non l’ho firmata e che sono intervenuto due o tre volte, nell’ambito della mia rubrica sul Corriere del Ticino, con considerazioni piuttosto critiche. Do quasi per scontato che molti di voi l’hanno firmata, così come l’ha firmata un gran numero di nostri insegnanti.

Il “taglio” del mio intervento di questa mattina non è certo quello di spiegare le proposte dell’iniziativa: ci mancherebbe. Nel contempo non è neanche mia intenzione aprire un fronte politicamente contrario a quelle proposte: credo che l’iniziativa debba compiere fino in fondo il suo percorso democratico, con la discussione in Parlamento e, semmai, il voto popolare.

Non credo nemmeno che la nostra Conferenza si trovi attualmente nella posizione di inserirsi nel dibattito, al limite in modo critico, dopo che per anni è stata zitta oppure non è stata ascoltata. Mi limiterò invece a fare una specie di «esercizio accademico» per riflettere sulla nostra scuola partendo dalle proposte dell’iniziativa: ma questo, naturalmente, è un parere del tutto personale.

Un’ultima precisazione prima di entrare nel merito: l’invito a sedermi qui questa mattina mi è giunto giusto una settimana fa. Ogni riga dell’iniziativa scatena in me una ridda di considerazioni che, quasi sempre, meriterebbero un approfondimento più scientifico: cosa che non ho potuto fare per ragioni che mi paiono evidenti.

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Apparentemente le proposte sono di tre tipi: di ordine sociale, di ordine pedagogico e di ordine amministrativo. In realtà i tre grandi capitoli riassumono qualcosa come una ventina e più di riforme e/o cambiamenti, che toccano la scuola dell’infanzia e quella elementare, nonché servizi para-scolastici, direzioni, circondari e così via. Immagino che, nel dettaglio delle proposte, conosciate l’iniziativa meglio di me. In ogni modo, più che come direttore di una scuola comunale, mi esprimerò come pedagogista e osservatore dei sistemi formativi.

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Da sempre la scuola ha svolto anche un ruolo sociale, di sorveglianza dei bambini, per permettere ai genitori di lavorare. Nell’800 ciò era fondamentale, soprattutto per l’asilo, mentre quando i ragazzi crescevano il problema si capovolgeva: i genitori preferivano tenere i figli a casa, per dare una mano nei campi, piuttosto che mandarli a scuola. È una preoccupazione che ben traspare dalla prima Legge della scuola, del 4 giugno 1804:

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Più difficile, invece, è capire come mai permanga oggi questa valenza sociale della scuola, che non è più adeguata ai tempi, dal momento che il mondo del lavoro è cambiato radicalmente ed è in continuo movimento.

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Le ipotesi possono essere diverse.

Votazione del 18 febbraio 2001 sui sussidi alle scuole private

Si tratta di rivendicazioni che hanno assunto grande importanza soprattutto in occasione della votazione del 18 febbraio 2001 concernente il sussidio alle scuole private. Come si ricorderà, la campagna in vista della votazione si era occupata in maniera spropositata, a mio modo di vedere, proprio di tali servizi, di cui spesso le scuole private erano già dotate.

Ricordo che Franco Zambelloni era intervenuto a un certo punto chiedendo se si stesse discutendo del primato della scuola pubblica e del suo progetto di educazione dei futuri cittadini attivi oppure se il problema erano le mense, i doposcuola e gli asili a orario prolungato. A mente mia si tratta essenzialmente di un problema di natura sociale e socio-economica, che come tale avrebbe dovuto essere affrontato.

La LSiSe si occupa anche di trasporti, mense e doposcuola

Un primo peccato originale che ha probabilmente originato questo malinteso – chiamiamolo pure così… – risiede proprio nella LSiSe del 1996, che dedica alcuni capitoli proprio ad alcune di queste problematiche. Ma perché la LSiSe ha sentito la necessità di occuparsi di questi temi, che le competono solo marginalmente?

  • all’epoca il problema era più marginale e toccava per lo più solo alcune fasce di popolazione e alcune scuole;
  • contiguità tra l’allora capo dell’UIP e qualche direttore più vicino a questi temi.

Un nuovo paradigma sociale, che richiederebbe forse un altro ruolo dello Stato

  • Almeno fino ai primi anni ’70 vi era una più marcata corrispondenza tra gli orari della scuola e quella del mondo del lavoro.
  • La scuola dettava i ritmi della società; per esemplificare: nessuno si sarebbe sognato di aggiungere settimane di vacanza alle normali vacanze scolastiche.
  • La famiglia-tipo era caratterizzata, tra l’altro, da una moglie-madre-casa­lin­ga, e l’orga­niz­za­zione delle vita sociale ruotava attorno ai ritmi dettati dalla scuola.
  • Inoltre, almeno fino alla prima crisi del petrolio (1973), il salario del capo-famiglia permetteva un sostentamento decoroso dell’intero nucleo familiare.
  • Nel trenta/quarantennio successivo abbiamo assistito all’emergere di ben altre problematiche, che oggi presentano famiglie dalla struttura molto più variegata.
  • La famiglia odierna si è assottigliata, almeno dal punto di vista statistico (-> meno figli).
  • Possiamo raggruppare le nuove famiglie attorno ad alcune caratteristiche assai diffuse:
    • famiglie mono-parentali;
    • famiglie che, nel territorio in cui abitano, non hanno parenti sui quali contare per la gestione familiare, magari anche solo per momenti di piccola emergenza;
    • doppi redditi “obbligati”, nel senso che con un unico reddito non si garantirebbe un livello di vita almeno sufficiente: cameriere e commessa in un grande magazzino.
    • Si tenga conto che una famiglia con due figli a carico ha bisogno di un salario lordo attorno a 6 mila franchi per garantirsi una vita normalmente “tranquilla”, che magari consente anche qualche breve vacanza…
    • doppi redditi che garantiscono un livello di vita più che dignitoso (Es.: coppia di insegnanti di scuola elementare);
    • doppi redditi che garantiscono un livello di vita almeno “benestante” (Es.: coppia di liberi professionisti).

Non intendo ovviamente entrare nelle scelte individuali di ogni singola famiglia, soprattutto tenendo conto che le vere possibilità di scelta toccano solo queste ultime due categorie (dal dignitoso in su…). È però evidente che sono proprio queste scelte e queste costrizioni che fanno lievitare la necessità di disporre di più mense, più doposcuola e più sorveglianza durante la prima infanzia – il problema non tocca soltanto gli allievi di tre anni, ma anche quelli nati prima, tanto che si sta assistendo alla proliferazione di nidi dell’in­fanzia pubblici e privati.

Un paio di altri aspetti mi sembrano evidenti:

  • Non sono sicuramente le coppie di camerieri e inservienti di cucina che hanno i mezzi per far pressione sullo Stato affinché questo intervenga con ineludibili forme di sostegno.
  • Un ruolo importante nella richiesta di servizi cosiddetti parascolastici – meglio sarebbe dire sic et simpliciter sociali! – è rivestito dagli ambienti economici (grandi aziende come banche e assicurazioni, Économie Suisse, ecc.: tanto che anche HarmoS si occupa di queste cose).

Concretamente la soluzione di queste problematiche in ambito scolastico sottrae molte energie e distoglie l’atten­zio­ne dai veri problemi della scuola: pubblica, laica e democratica.

Soprattutto in tempi contraddistinti da una certa confusione attorno al ruolo e agli obiettivi della scuola, credo che sarebbe ben più legittimo, serio e corretto che fossero i settori sociali dello Stato a occuparsi di queste faccende e non certo la scuola, che ha già le sue belle gatte da pelare.

Mi si permetta, quindi, una semplice osservazione. Il ruolo sussidiario dello Stato dovrebbe prendere in considerazione soprattutto i ceti che vivono coi salari più trasandati. Allora, invece che costringere le coppie di genitori a svolgere lavori men che modesti, sovente con salari scandalosi, converrebbe aiutare le famiglie con contributi finanziari, così da difendere – tra l’altro – il ruolo educativo della famiglia.

Potrebbe darsi che, in futuro, sia lo Stato a doversi occupare dell’educazione dei suoi «cuccioli» fin dalla primissima età. Sarebbe un nuovo paradigma educativo, del quale non conosciamo ancora nulla. Oggi, in ogni modo, da una parte è difficile sostituirsi alla famiglia nei suoi primari compiti educativi e, nel contempo, troppo spesso alla famiglia vengono sottratte le possibilità concrete di occuparsi dei figli, salvo poi metterle alla gogna, soprattutto mediatica, quando le famiglie sono latitanti e i figli adolescenti delinquono.

Insomma: più mense, più doposcuola e più asili nido.

Ma chiediamoci: a chi giova realmente?

CDD-06In realtà gli ultimi due punti fanno parte, secondo la presentazione dell’iniziativa, degli aspetti organizzativi, ma io li ho posti qui.

La reazione del Consiglio di Stato

Proprio in questi giorni sono in atto alcune scaramucce tra Governo e iniziativisti. Per il momento il Governo ha dato qualche risposta, come ad esempio il potenziamento del sostegno pedagogico (con cantonalizzazione), una specie di “liberalizzazione” del docente di appoggio (più di forma che di sostanza, a dire il vero), il coordinamento dei programmi (HarmoS), … I proponenti, dal canto loro, chiedono che l’iniziativa vada in Parlamento entro aprile e che, in caso di quasi sicuro voto contrario, l’iniziativa sia sottoposta al popolo.

A scanso di equivoci: al di là del giudizio che ognuno di noi può dare all’iniziativa – che, lo ricordo, è riuscita a furor di popolo – sarebbe meglio se fosse rispettata la normale procedura entro i tempi stabiliti. Trovo molto “alla ticinese” questo tergiversare e cambiare qualche carta in tavola. Se l’iniziativa è stata lanciata e se ha raccolto tali e tanti consensi, significa che nel corso degli anni qualcuno è riuscito a far passare nell’opinione pubblica la convinzione che quanto proposto s’ha da fare.

D’altra parte lo stesso ministro Gendotti aveva scritto a suo tempo che il discorso sul numero di allievi per classe non poteva essere affrontato per motivi finanziari. Ergo: anche lui è d’accordo col principio, ma purtroppo non ci sono i soldi. Attitudine fuorviante, a mente mia: perché se fosse convinto della bontà della proposta dovrebbe darsi da fare per perseguire l’obiettivo. In sostanza, nondimeno, di voci critiche nei confronti di quest’ammucchiata di proposte, sino ad oggi se ne sono lette o sentite ben poche. Si può dunque immaginare che, in votazione popolare, l’iniziativa potrebbe godere di un ampio consenso popolare.

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A parte i temi sociali, di cui ho già detto, molte parti del testo dell’iniziativa si basano su alcuni dogmi che sono divenuti tali nel corso dei decenni, benché non abbiano delle solide basi scientifiche. Il meccanismo è un po’ quello che crea le cosiddette leggende metropolitane, cioè cose dette e ripetute che, a un certo punto, diventano credibili perché reiterate e fatte proprie da un gran numero di persone. Nel nostro caso il gran numero di persone avvalora ancor più la scientificità degli assunti, dato che sono insegnanti, direttori, ispettori e operatori del settore.

Vediamone un qualcuno, di questi dogmi.

La diminuzione del numero di allievi per classe aumenta la qualità dell’educa­zio­ne e dell’istruzione

Non vi sono dati scientifici a comprova di questa tesi. A volte – a parità di caratteristiche socio-culturali – l’affermazione è vera, altre volte è falsa. Quasi sempre i cambiamenti non dipendono dal numero di allievi, ma da altre variabili, le più importanti delle quali sono:

  • le caratteristiche cognitive e socio-culturali degli allievi;
  • le scelte didattiche e pedagogiche, nonché il grado e il ritmo di differenziazione dell’inse­gnante (cioè l’insegnamento);
  • le modalità e le aspettative degli strumenti di controllo (valutazione).

Faccio un esempio.

Nella primavera 2009 ho ripreso la prova cantonale “Problemi di matematica” dell’anno precedente. Ho modificato i dati e l’ho somministrata alle mie sezioni di 5ª. A differenza della prova cantonale, però, somministrazione e correzione sono state fatte da una persona esterna. Su 6 classi, 4 avevano 20 allievi, una 19 e una 21: quindi, praticamente, classi uguali da questo punto di vista. Per sede la composizione delle classi era comparabile dal profilo socio-culturale.

Eppure:

  • ai Saleggi una classe ha ottenuto il 95.4% di riuscita (80.9% l’allievo peggiore);
  • le altre 3 tra il 79.8% e il 71.9%. La differenza è dunque stata molto significativa;
  • a Solduno una classe ha raggiunto l’85.3%, l’altra solo il 72.1%.

Un altro esempio.
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Sul rapporto tra numero di allievi per classe e qualità almeno dell’istruzione si potrebbe ancora parlare a lungo.

La pluriclasse è un ostacolo verso un insegnamento di qualità: più sono le classi, più diminuisce la qualità

Noto in entrata che, in base all’iniziativa, questo dogma vale solo a partire dalla scuola elementare. Si vede che alla SI non si insegna…

Secondo alcuni autori – coi quali concordo pienamente – la pluriclasse è una ricchezza e non un impedimento. La pluriclasse diventa un ostacolo quando l’insegnamento è centrato essenzialmente su attività ex cathedra, con lezioni frontali, esercizi omologati, nessuna parvenza di differenziazione e di applicazione di metodi attivi, al massimo tentativi di individualizzazione per il recupero degli allievi più in difficoltà.

Tutti i docenti sono bravi

Prendo in prestito una definizione di Zambelloni: sappiamo tutti che accanto a docenti straordinariamente bravi ve ne sono altri solo normalmente bravi. Diciamo che il docente straordinariamente bravo otterrà buoni risultati con tanti o pochi allievi, in situazione di mono- o pluriclasse.

Le valutazioni espresse dagli insegnanti sono scientifiche e, quindi, attendibili

 

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Eppure sappiamo tutti come già nel micro-cosmo dei nostri istituti il valore di un allievo può cambiare in maniera significativa cambiando istituto o, addirittura, anche solo cambiando insegnante. Nella classe migliore delle prove di matematica che ho citato prima, c’era un allievo particolarmente problematico. In matematica aveva ricevuto 3½ in 4ª, 4 in 3ª, 4½ nel I ciclo. Unanimemente – famiglia compresa – si riteneva che «non era tagliato per la matematica». Eppure in quella prova ha raggiunto una percentuale di riuscita dell’86%.

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Nessuno, però, si assume il rischio di parlare della formazione:

  • profilo professionale dei docenti, speciali compresi, degli ispettori e dei direttori e conseguenti necessità nella formazione di base o nelle condizioni di accesso alla funzione;
  • ruolo della formazione continua e articolazione tra compiti della scuola e istituti per la formazione degli insegnanti;
  • controllo serio dei risultati: cosa imparano i nostri ragazzi?

Per andare a concludere

A inizio ’900 il nostro Governo aveva parecchie preoccupazioni nei confronti della scuola: problemi di igiene, di formazione dei maestri, di distanza della scuola dal domicilio, senza scordare la necessità – presente fino ai primi anni del XX secolo – di convincere le famiglie a mandare i figli a scuola. Non poteva mancare, già allora, il numero di allievi per classe, anche se le dimensioni del fenomeno erano altre:

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[Scuole sta per classi].

Vediamo che la media cantonale ruotava attorno a 30. Ricordo che per la SE il numero massimo di allievi per classe era stato abbassato a 25 una trentina di anni fa, solo all’inizio degli anni ’90 per la SI.

All’epoca rimanevano però anche classi di 40, 50 e oltre 60 allievi:

CDD-12C’era infine, il problema delle pluriclassi, dette allora classi plurime. Ancora nel 1890 ci si interrogava:

Nelle scuole la divisione per sesso resterà prevalente, anche se si comincerà ad interrogarsi sull’opportunità di dividere gli allievi per classi di età.

Da questo punto di vista, dunque, si direbbe che alcune preoccupazioni siano rimaste costanti, anche se – ad esempio – il numero delle pluriclassi è molto diminuito, soprattutto in alcune zone periferiche, optando per la creazione di centri scolastici consortili: con quali reali benefici è ancora tutto da dimostrare.

La mia sensazione è che i problemi della scuola vengano in parte nascosti e in parte affrontati col paraocchi. Ma ciò non può stupire, se appena pensiamo, ad esempio, che a partire dal 1978 si è costruita la nuova scuola media sul modello del ginnasio – una scuola selettiva e senza troppa pedagogia – invece che sul modello della scuola maggiore, una scuola che, malgrado le difficoltà, soprattutto nei centri dove c’era il ginnasio, era una buona scuola. Mancano comunque delle visioni, mentre siamo sempre più alla cultura dell’enun­ciato: quando una cosa viene detta o, meglio ancora, scritta – magari in una legge – essa diviene realtà e il problema è risolto:

  • si pensi all’educazione civica nella scuola media, che il Parlamento ha introdotto qualche anno fa;
  • si pensi ai tanti progetti e progettini sulla gestione dei conflitti;
  • si pensi alla nuova politica delle lingue: davvero noi Ticinesi siamo pronti a quindici anni per lanciarci alla conquista del mondo?

È sintomatico il poco interesse generato, due anni fa, dalla presentazione del «Profilo professionale» dei nostri insegnanti, così come esemplare è la completa assenza di dibattito sul come organizzare la quotidianità dell’aula e come, conseguentemente, formare i maestri. In poco meno di 25 anni abbiamo visto sfilare ben tre diverse scuole magistrali:

  • la post-liceale alla fine degli anni ’80
  • l’ASP meno di dieci anni fa
  • e ora il DFA della SUPSI.

Il passaggio dalla seminariale alla post-liceale era stato oggetto di aspri dibattiti; poi, però, più nulla. Ogni volta la Magistrale di turno ha preso delle decisioni interne e tutto sommato sconosciute all’esterno sui curricoli formativi dei nuovi maestri, influenzando in tal modo le pratiche di chi già era in servizio: senza che nessuno fiatasse.

Più il tempo passa, più ci si scosta da tanti insegnamenti del passato. Ciò che prima ci riportava costantemente al principio di educabilità (da Pestalozzi in qua), oggi viene affrontato con le procedure didattiche (che non sono mai state miracolose) e con le figure demiurgiche – i vari docenti speciali, gli psicologi, i docenti integratori, i sostenitori pedagogici… E chissà cos’altro riusciremo ancora a inventare.

Torno un momento agli aspetti di natura sociale, che l’iniziativa propone di risolvere attraverso procedure note: le prime, insomma, che saltano in mente. In altri anni proprio questa conferenza aveva tentato di far partire un dibattito attorno a un nuovo e diverso rapporto tra esigenze della nuova realtà economica e sociale e le finalità della scuola. Così, ad esempio, si era parlato:

  • della scuola a tempo pieno, aperta tutto l’anno, con precise regole di frequenza per allievi e insegnanti;
  • di una diversa articolazione dell’in­se­gnamento delle discipline sull’arco delle giornata; per esemplificare:
    • le discipline essenziali – italiano, matematica, studio dell’ambiente – nella prima metà della giornata;
    • le altre discipline – le arti, l’educa­zio­ne fisica, … – nella seconda parte della giornata, invadendo pure gli orari dell’attuale doposcuola.

Oppure ancora sul numero di allievi per classe: il numero incide a seconda dell’attività che si svolge. A volte serve il rapporto 1/1, in altri momenti anche l’1/40 funziona bene. L’équipe pedagogica – il team teaching – è un modo per facilitare il variare del rapporto: ma come è possibile imboccare questa nuova organizzazione dell’inse­gnamento, se sin dall’entrata nell’istituto di formazione si basa l’insegnamento sul solito tris «Un maestro, un’aula, un gruppo di allievi»?

Come ho detto all’inizio, potrei naturalmente continuare ancora per molto, ma è meglio che mi fermi qui. Si dice che Berlusconi, prima di scendere in campo, abbia instupidito gli italiani con le sue televisioni. Vorrei far notare che quei canali televisivi sono molto seguiti anche nel nostro Cantone, sin dai primi anni ’80. Tutto ciò mi fa temere che prima o poi dovremo dare ragione a Ivan Illich, che già nel 1971 perorava la descolarizzazione della società.

Nel frattempo, a furia di perseverare nella nostra quasi atavica attitudine autoreferenziale, ci sarà il rischio di arrivare a una liberalizzazione del mercato della scuola: alla faccia di chi crede ancora nella scuola pubblica.

Ma – mi chiedo ogni tanto – ci crediamo tutti per davvero?

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Bibliografia

  • MARZIO CONTI, Storia della scuola ticinese dal punto di vista dell’allievo (XIX-XX), 2004
  • ROBERT DESNOS, “Le pélican”, in Chantefables et chantefleurs, 1970 (postumo) – La filastrocca è citata da Jean-Pierre Bourdieu e Claude Passeron come prologo a La reproduction. Éléments pour une théorie du système d’enseignement, Minuit, 1970
  • WALO HUTMACHER, Quand la réalité résiste à la lutte contre l’échec scolaire, 1993, Genève, Service de la recherche sociologique