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Qual è il senso di ricordare Summerhill?

Philippe Meirieu, nella sua Petite histoire des pédagogues, lo liquida in poche righe:

Alexander Sutherland Neill (1883-1973): figura emblematica della pedagogia libertaria, fondatore, nel 1921, della scuola di Summerhill in Inghilterra. Fecero scandalo, all’epoca, le sue opzioni molto “liberali” in tema di sessualità. Neill è un discepolo di Rousseau e di Reich: crede nella natura fondamentalmente buona e dinamica del bambino. Istituisce una “scuola” basata sulle libere scelte dell’allievo, che decide dei suoi apprendimenti e beneficia dell’aiuto del “maestro” solo su sua richiesta.
Neill fu però costantemente confrontato con la questione dell’autorità: Bruno Bettelheim disse di lui che la sua personalità era così forte e affascinante che i suoi allievi, per ottenere la sua stima, avrebbero fatto qualunque cosa! In realtà Neill, più che fondare una “pedagogia”, creò solo un “luogo di educazione” il cui successo fu essenzialmente dovuto alla sua persona (alcuni avrebbero detto: “alla sua ditta”).

Il 1921 è stato anche il centenario di Summerhill, la scuola fondata da Neill pochi mesi dopo la nascita della Lega Internazionale per l’Educazione Nuova, di cui lo stesso pedagogista scozzese fu tra i fondatori durante il congresso di Calais in agosto.

Il collega Enrico Bottero ha ben sintetizzato il clima di quegli anni in un suo intervento su RAI Scuola del novembre scorso.

Siamo alla fine dell’800, inizi del ’900. Nascono la scuola sperimentale a Chicago promossa da John Dewey, le scuole montessoriane, la scuola di Abbotsholme in Inghilterra, l’École des Roches in Francia, gli internati di campagna di Hermann Lietz in Germania. Erano, tutti questi, educatori diversi tra di loro: c’erano teosofi, socialisti, anarchici, libertari, liberali, credenti e non credenti: ma li univa la critica radicale della pedagogia tradizionale, la critica a un’educazione libresca e autoritaria, la separazione tra scuola e vita. Li univa una certa istanza naturalista, vitalista, il pacifismo, la necessità della co-educazione tra i sessi, il cosmopolitismo.

Qual è il senso di ricordare oggi Alexander S. Neill? Scarso, se solo si pensa ad altre esperienze pedagogiche che sono giunte fino a noi, pur faticando – inconcepibilmente! – a diffondersi nella scuola pubblica europea, benché, già in quegli anni tra le due guerre, tra i sostenitori di un’Educazione nuova c’era un dibattito acceso tra chi aspirava a una scuola ideale, al di fuori della scuola pubblica, e chi, invece, puntava a portare le innovazioni al cuore della scuola pubblica. Neill apparteneva certamente ai primi, tanto da fondare la sua scuola, che chiamò «Summerhill».

Alexander S. Neill e la scuola di Summerhill.

Summerhill e il suo fondatore ebbero un momento di successo attorno al Sessantotto. Nel 1971 Neill pubblicò Summerhill – Il metodo per progredire nell’educazione dei figli. Sembrava un testo fatto apposta per i cambiamenti di cui la scuola aveva bisogno: l’anti-autoritarismo, la “fantasia” al potere, la cooperazione, le arti, la libertà, il sesso, la religione, la morale.

Questa è la storia di una scuola moderna: Summerhill è stata fondata nel 1921. La scuola è situata nelle vicinanze del villaggio di Leiston, nel Suffolk, a circa cento miglia da Londra.
Poche parole sui ragazzi che la frequentano. Alcuni entrano all’età di cinque anni, altri a quella di quindici. Di solito rimangono fino all’età di sedici anni. In media abbiamo venticinque ragazzi ed una ventina di ragazze.
Vengono divisi in tre gruppi a seconda dell’età: i più giovani hanno dai cinque ai setti anni, il gruppo intermedio è formato da quelli che hanno dai sette agli undici anni, gli anziani sono i ragazzi dagli undici ai sedici anni.
Generalmente molti ragazzi provengono da Paesi stranieri. Quest’anno (1960) ci sono fra di noi cinque scandinavi, un olandese, un tedesco, un americano.
I ragazzi vengono alloggiati tenendo conto dell’età e ad ogni gruppo è preposta una assistente. Il gruppo di mezzo alloggia in una costruzione di pietra, gli anziani in casette di legno. Solo un paio dei ragazzi più anziani dispongono di una camera tutta per loro. Gli altri vivono in tre o quattro per stanza e lo stesso vale per le ragazze. Gli allievi non devono subire alcuna ispezione alla camera e nessuno li sorveglia. Vengono lasciati completamente liberi. Nessuno dice loro come debbano vestirsi: in ogni momento possono indossare quello che vogliono.

Si intuisce da queste poche righe che Summerhill, il progetto libertario che ispirò questa scuola, ha più punti in comune con l’Ivan Illich di Descolarizzare la società che, poniamo, con l’opera pedagogica di Célestin Freinet.

Nel frattempo è passato un secolo. L’Educazione Nuova continua a essere una scelta di nicchia. Di Neill e di Summerhill se ne ricordano solo alcuni maestri nati attorno agli anni ’50 e qualche nostalgico di una rivoluzione, o anche solo una seria riforma, che non arrivò mai.

Forse qualcuna delle idee libertarie di Summerhill non farebbero male a una scuola che continua, imperterrita, a riprodursi sempre uguale a sé stessa, decennio dopo decennio. Magari porterebbe un po’ di serenità, un momento di rottura tra un prima e un dopo.

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Note

La citazione di Enrico Bottero è tratta da L’Educazione Nuova a cento anni dal Congresso di Calais – Intervista a Enrico Bottero e Pietro Lucisano (RAI Scuola, novembre 2021).

ALEXANDER S. NEILL, Summerhill – Il metodo per progredire nell’educazione dei figli, 1971, Forum Editoriale, con prefazione di Erich Fromm. Titolo originale: Summerhill, a radical approach to child rearing. All’interno del volume, dopo l’introduzione dell’autore, compare pure un altro titolo: »Summerhill« una proposta contro la società repressiva. La breve citazione è tratta dall’incipit (L’idea di Summerhill, p. 9).

Riflessioni sparse, per chiudere il 2021

Avevo concluso il mio testo augurale di un anno fa (Saluti dal 2020, auguri per il 2021) con un’affermazione avventata e sempliciotta: «Prima o poi anche le truppe del generale Covid avranno la loro Little Bighorn», e avevo riportato una bella filastrocca di Gianni Rodari (L’anno nuovo, 1960).

Si è rivelato un altro anno orribile. Stavolta, quindi, conviene prendere qualche precauzione, come ha fatto il vignettista Vauro. In una recente vignetta afferma beffardamente che l’anno nuovo sarà una variante di quello vecchio.

Per il mondo dell’educazione e della scuola, se il 2020 è stato l’anno di Gianni Rodari, il 2021 è stato contrassegnato dal centesimo anniversario della Lega Internazionale per l’Educazione Nuova, la cui nascita avvenne il 6 agosto 1921 a Calais, in occasione del Congresso fondatore (Buon compleanno, vecchia “Educazione nuova”!). Oddìo, forse parlare di «contrassegnato» parrebbe un’esagerazione. Ci sono stati alcuni festeggiamenti anche in Ticino, il più importante dei quali è stato certamente quello di CEMEA – Il Villaggio dell’Educazione Attiva per i 50 anni dei Cemea Ticino e centenario dell’Educazione Nuova.

Ma, per lo più, non se n’è accorto nessuno. Il dibattito sulle possibili (e necessarie) riforme della scuola dell’obbligo continua con toni tra il battagliero e il polemico. Chi non è d’accordo con le proposte del Dipartimento dell’Educazione – praticamente tutti – insiste con soluzioni che, tutto sommato, non sono così diverse. Le solite idee, poche ma confuse, come avrebbe detto Flaiano. Di chiaro c’è che continua, ormai da qualche decennio, la corsa al massacro dei più indifesi, attraverso la selezione scolastica; con le solite armi, convenzionali e scontate, ma sempre di moda: un piano di studio velleitario e illusorio, appoggiato dai soliti meccanismi di selezione scolastica – anche se, mi è stato detto, non ci sono più allievi che ripetono la classe; semplicemente si applicano dei rallentamenti.

Di proposte davvero originali non se ne vedono, neanche leggendo benevolmente tra le righe.

Continuo a credere che alla scuola dell’obbligo servirebbe serenità. Ha detto Philippe Meirieu durante un’intervista su Teleticino: Penso che sia necessario che i luoghi deputati all’educazione diventino dei luoghi di resistenza alla reattività e all’immediatezza, dove si impari a fare delle cose che non si sanno fare. In quest’ottica io sono estremamente convinto che tutti gli esseri umani siano educabili e possano crescere, migliorare. Si tratta di virtuosismi? Io dico che docenti, istituzioni, anche gli allievi, debbano sforzarsi di non vedere soltanto il limite nell’altro, le sue mancanze, le sue difficoltà, ma riconoscere dentro sé stesso ciò che ci motiva. Bisogna uscire quindi da questa pedagogia che procede per mancanze e deficit, per avere una pedagogia che guarda all’altro e anche alle difficoltà in generale in maniera positiva, per aiutarsi reciprocamente a superare i propri limiti. [Meirieu: “La scuola dev’essere capace di parlare al cuore, Decoder-Teleticino, 2.10.2021, servizio a cura di Romano Bianchi].

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Rio Bo
(Aldo Palazzeschi, 1909)

Tre casettine
dai tetti aguzzi,
un verde praticello,
un esiguo ruscello: Rio Bo,
un vigile cipresso.
Microscopico paese, è vero,
paese da nulla, ma però…
c’è sempre di sopra una stella,
una grande, magnifica stella,
che a un dipresso…
occhieggia con la punta del cipresso
di Rio Bo.

 Una stella innamorata!
Chi sa
se nemmeno ce l’ha
una grande città.

Questa è la mia Rio Bo (46°10′05″N 8°47′19″E). D’accordo, nel cielo del mio microscopico paese non c’è una stella. Si vedono un pianeta, Venere, e una falce di luna crescente. Ma tutto il resto è uguale.

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Il periodico Scuola ticinese ha dedicato la sua edizione apparsa in questi giorni al tema (ri)costruire la realtà. Andrea Vosti, giornalista e corrispondente per la RSI dagli Stati Uniti, ha pubblicato un mirabile articolo dal titolo L’era della mistificazione. Parte dall’assalto al Campidoglio degli Stati Uniti del 6 gennaio di un anno fa. «Quel giorno – che per sempre sarà ricordato e letto e riletto nei libri di storia come il ‘giorno dell’assalto a Capitol Hill’ – ha significato il punto di non ritorno, l’apice di una pericolosissima e antidemocratica parabola che non è cominciata soltanto con la presidenza di Donald Trump, istigatore di quel folle attacco, ma che affonda le sue radici e le sue origini nella sempre più pervasiva polarizzazione politica e sociale che gli Stati Uniti hanno conosciuto negli ultimi tre decenni».

Vosti percorre lucidamente l’antidemocratica parabola, che passa per Newt Gingrich, i social media e il fenomeno delle fake news, le teorie complottiste come Q-anon e il Deep State, per giungere a una conclusione drammatica.


La presidenza Trump ha dimostrato che basta un personaggio scaltro, ma con un innegabile fiuto politico e una innegabile capacità comunicativa, per far deragliare le regole non scritte della decenza e minare le fondamenta stesse di una grande e indispensabile democrazia come quella americana. Trump non è stato rieletto, certo, ma l’esperimento sociale chiamato Donald Trump è stato comunque un tragico successo, alla luce dei 76 milioni di cittadini che lo hanno rivotato nel 2020 e che sono pronti a riportarlo alla Casa Bianca: il terreno è stato contaminato, la falda acquifera della democrazia inquinata, il populismo incurante della scienza e della verità sdoganato. L’era della mistificazione è appena iniziata.

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In un clima del genere – a cavallo della pandemia e della mistificazione globale – può diventare improvvido fermarsi al tradizionale e scialbo «Buon Anno». Forse un augurio potrebbe essere che ognuno riesca a potenziare i suoi ottimismi e relativizzare i pessimismi, con le sensibilità e i sentimenti che gli sono propri. Ripartendo, in altre parole, da Gianni Rodari:

Di più per ora scritto non trovo
nel destino dell’anno nuovo:
per il resto anche quest’anno
sarà come gli uomini lo faranno.

La scuola non deve abbandonare nessuno

Ormai siamo alla frutta, pur avendo saltato diverse portate. Così è arrivato il momento di chiudere con la domanda delle domande: ma che scuola è la scuola dell’obbligo ticinese, quella che termina con la licenza di scuola media (anche se non a tutti va bene)? Dipende dai punti di vista.

Nei confronti internazionali la scuola ticinese esce sempre con buoni voti. Prendiamo PISA, che è la verifica più conosciuta e che ogni tre anni valuta in tre ambiti – lettura, matematica e scienze – il livello dei quindicenni di una sessantina di paesi industrializzati. Da noi le analisi si concentrano su paesi simili al nostro: i paesi confinanti, alcuni paesi bilingui (tra cui il Canada) e la Finlandia, che sin dalle prime indagini PISA ha ottenuto risultati tra i migliori del mondo. Per contro, non avrebbe un gran senso il confronto con paesi culturalmente diversissimi.

Se guardiamo i punteggi ottenuti nell’ultimo rilevamento (2018) vediamo che la scuola svizzera è risultata, in media, tra le migliori di questo gruppo e che quella ticinese è tra le migliori in Svizzera. Ma le medie, come si sa, descrivono alcune cose e ne tralasciano altre. In tutti i paesi scolarizzati ci sono i primi della classe, in proporzioni diverse. Ma dall’altra parte della classifica ci sono quelli così tanto lontani dalla media da risultare del tutto incompetenti nei tre settori considerati. In Svizzera sono circa uno su dieci.

Diceva don Milani che «la scuola ha un problema solo, i ragazzi che perde». Non siamo più negli anni ’50 dell’Italia rurale – non lo siamo più da un pezzo – eppure, ancor oggi, c’è un numero importante di ragazzi che a venticinque anni non ha in mano lo straccio di un diploma: tanto che il cantone Ticino ha istituito la norma che mira ad assicurare che tutti i giovani residenti, dopo la scuola obbligatoria e fino alla maggiore età, siano seguiti e accompagnati in un progetto individuale di formazione che permetta loro di ottenere un diploma – ad esempio un certificato di formazione professionale. È difficile pensare che, tra gli allievi malmessi già alla fine della scuola obbligatoria, non vi siano quelli che si erano già persi prima, e che continueranno a brancolare senza un orizzonte.

I confronti internazionali servono anche a mettere in luce queste difficoltà dei sistemi formativi, benché di solito si tenda a mettere sotto i riflettori i cannonieri, le partite vinte e il posto in classifica. Il paese ha bisogno anche dei suoi campioni, ma il compito della scuola dell’obbligo è un altro. Sono convinto che per mirare all’educazione di futuri cittadini consapevoli, critici e liberi serva in primo luogo un ambiente sereno, che accolga e accompagni tutti. Il numero dei «fuori classifica», sommato a quello dei «minimo per la sufficienza», non fornisce grandi garanzie di cooperazione e di crescita. La competizione per stare a galla assorbe troppe energie preziose.

Non so in cielo, ma a scuola non è vero che gli ultimi sono beati, anzi. D’accordo, non siamo al punto di quegli stati dove la competitività scolastica esasperata ti porta a buttarti giù da un ponte se boccheggi o fallisci. Ma forse sarebbe utile sostenere con maggiore convinzione quelle discipline, che già fanno parte dei piani di studio, come la storia, la geografia e le arti – senza scordare la filosofia – che contribuirebbero a un’educazione civica più viva e sensata.

Insomma, proprio per chiuderla qui: «La scuola potrebbe fare di più!», per usare un’espressione che le è tanto cara.


Qualche nota, oltre l’articolo

In occasione di tutti i miei articoli pubblicati sul Caffè a partire dal 1° novembre, il giornalista Andrea Bertagni ha curato le Analisi di tanti operatori della scuola ticinese sui temi che avevo proposto. È stato certamente un lavoro non facile, anche perché i tempi sono sempre stati molto stretti. Lo voglio ringraziare per questo lavoro prezioso. Non ho mai messo il naso nelle sue scelte, solo in pochi casi posso dire che conoscessi la persona invitata a parlare dei «miei» temi. Questa è l’ultima Analisi pubblicata, un colloquio con la maestra Raffaella Moresi, che, appunto, non conosco.


Oggi il Caffè è uscito per l’ultima volta. Ha scritto in prima pagina il suo direttore Lillo Alaimo:

GRAZIE. Questa è l’ultima edizione del Caffè, nato 28 anni fa come quindicinale e 23 anni fa diventato settimanale. Un grazie particolare va ai lettori che in questi anni ci hanno premiati. Riconoscenza va a coloro che hanno contribuito alla nascita e alla crescita di questo giornale. Non può mancare un augurio a quanti e a quanto verrà dopo il Caffè, «la Domenica».

Poche parole che dicono molto sulla chiusura del domenicale, che era stata annunciata, sempre in prima pagina, sull’edizione del 9 maggio.

Segnalo due articoli pubblicati in quei giorni su Naufraghi/e:

Questa è stata l’ultima puntata della mia collaborazione con il Caffè. Era iniziata il 12 luglio di un anno fa, con una seria di cinque articoli, Verso la ripresa delle lezioni – si andava  all’apertura di un nuovo anno scolastico, dopo le tribolazioni di Covid-19 – l’ultimo dei quali era apparso sull’edizione del 30 agosto. Poi la collaborazione è continuata sulla scorta di un accordo con il direttore Lillo Alaimo, che non ho neanche rispettato fino in fondo [La formazione scolastica alla prova del tempo. Materia per materia così la scuola si rinnova].

Quest’ultimo contributo parla, indirettamente, del perché non ho rispettato a 360° la proposta di Lillo Alaimo (ma gliel’avevo detto, non ho ordito nessun intrigo).

È stata una bella esperienza. Grazie.

La cultura professionale non può nascere dal nulla

La storia delle idee pedagogiche – che non si deve confondere con la storia delle istituzioni scolastiche – è un percorso che dura da secoli, innescata da quei pensatori che, nell’antichità, erano pure scienziati o matematici: basti pensare ad Aristotele, che già nel IV secolo a. C. affermava che le cose che bisogna imparare, «prima di farle noi le apprendiamo facendole: per esempio, si diventa costruttori costruendo, e suonatori di cetra suonando la cetra». Col passare dei secoli il quadro si è vieppiù affollato e ha arricchito il dibattito di idee e sperimentazioni con gli sguardi del medico, dello psicologo, del sociologo…

Continuo a essere convinto che la storia delle idee pedagogiche sia un strumento che non può mancare nella cassetta degli attrezzi di chi opera nella scuola. È una storia appassionante, con temi che, anche in tempi recenti, non hanno mancato di innescare discussioni accese. Si pensi a Pestalozzi, che nel 1798 accoglieva a Stans gli orfani della rivoluzione francese, bambini e ragazzi allo sbando: «erano nella condizione alla quale conduce l’estrema degenerazione della natura umana. Arrivavano con occhi pieni d’angoscia e con fronti cariche di rughe della diffidenza e della preoccupazione, alcuni pieni di audace sfrontatezza, abituati alla mendicità, all’ipocrisia e ad ogni falsità, altri oppressi dalla miseria, pazienti ma sospettosi, incapaci di amore e timorosi».

Pestalozzi e gli orfani di Stans nel 1798.

Nella storia della pedagogia vi sono molte vicende appassionanti. Potrei raccontare di Janusz Korczak e dei suoi ragazzi del ghetto di Varsavia, dove elaborò interessanti strategie per risolvere i conflitti tra allievi – prima di essere deportato con i suoi ragazzi nel campo di sterminio di Treblinka nel 1942. O quella di un altro medico, Jean-Gaspard Itard, convinto che fosse possibile educare chiunque (la sua storia è quella raccontata dal film «Il ragazzo selvaggio» di Truffaut). O, ancora, delle esperienze di Jean Piaget, Don Lorenzo Milani, Maria Montessori, Célestin Freinet, la nostra Maria Boschetti-Alberti, tanto per citare qualche nome tra i più popolari.

Quest’anno ricorre il centenario della fondazione della Lega internazionale per l’educazione nuova (LIEN), che fu fondata a Calais nel 1921 e che, nel 1927, tenne a Locarno il suo IV congresso, con oltre mille partecipanti provenienti da ogni continente. Nelle intenzioni dei suoi fondatori LIEN riunisce e promuove quel movimento che, ancora oggi, si ispira alla scuola attiva, alla collaborazione e alla cooperazione tra allievi. Essa appartiene alla storia delle idee pedagogiche e quel congresso fu ospitato dalla scuola normale di Locarno.

A festeggiare il centenario dell’Educazione nuova anche in Ticino non ci sarà però il DFA, erede istituzionale della scuola normale di un secolo fa. Da oltre un trentennio la formazione dei docenti non passa più dalla storia delle idee, degli ideali, e, sì, a volte anche delle utopie, che per tanti anni hanno ispirato le politiche scolastiche e contribuito a costruire le democrazie.

Credere che sia possibile reinventare una nuova pedagogia per questi tempi complicati dimenticando la storia dell’educazione – che a volte si è incrociata con la storia della scuola – è una scelta vanitosa o imprudente,  perché la cultura professionale non può nascere dal nulla. Le epoche e i contesti economici, culturali e sociali dove questa storia ha proseguito il suo percorso non erano semplici, né banali.

A questo punto ci si potrebbe pure chiedere chi sono i cattivi maestri.


Nota aggiuntiva

Mi piace, in questa occasione, pubblicare il parere del prof. Franco Zambelloni, interpellato da Andrea Bertagni, giornalista del Caffè, e pubblicato dal domenicale insieme al mio articolo (uscito col titolo Non si può non conoscere la storia della pedagogia).

«Zambelloni ha insegnato filosofia e pedagogia nei licei del Cantone Ticino», ha scritto Bertagni. Ma Zambelloni è pure stato direttore della scuola magistrale di Lugano, che ebbe vita breve negli anni ’70.

In quegli anni la massa di studenti che frequentavano la magistrale “storica”, quella di Locarno, per diventare insegnanti di scuola dell’infanzie, elementare e di economia domestica indusse l’istituzione di una sede a Lugano, dapprima solo per le prime tre classi (il quarto anno, quello più professionalizzante, si svolgeva ancora a Locarno), poi come istituto completo e autonomo, alla guida del quale si alternarono Franco Zambelloni e Alberto Cotti.

L’avventura della vecchia scuola magistrale, però, stava per giungere al capolinea. È in quegli anni che, oltre allo storico liceo di Lugano, furono istituiti i licei di Bellinzona, Locarno e Mendrisio. Ed è pure di quegli anni la decisone di trasformare la scuola magistrale da seminariale (vi si accedeva a quindici anni) a post-liceale.

Per la cronaca: entrata in funzione nella seconda metà degli anni ’80, la magistrale post-liceale divenne poi Alta Scuola Pedagogica (ASP) nel 2002, più o meno in concomitanza con l’avvio del Processo di Bologna. A partire dal 2009/10 l’ASP – che era un istituto gestito interamente dal Cantone tramite il Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport – confluì nella Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana come suo dipartimento (poi denominato DFA, Dipartimento Formazione e Apprendimento).

È comunque negli anni post-liceali che inizia la lenta discesa della pedagogia nella scala dei valori della cultura professionale degli insegnanti.

L’informatica è straordinaria, ma è il mezzo e non il fine

È da una trentina d’anni che c’è chi invoca un maggiore coinvolgimento della scuola nell’ambito delle TIC, le Tecnologie dell’informazione e della comunicazione: computer, reti, telefonini, robot… Le TIC sono dappertutto, anche quando non ce ne accorgiamo. Così, di pari passo con la loro vertiginosa evoluzione, si chiede da sempre che la scuola si metta al passo coi tempi: praticamente un ossimoro.

Quando si parla di potenziare la dotazione scolastica TIC, prima del «Cosa» bisognerebbe chiedersi «Per fare cosa». Non è attrezzando le scuole di tutta la mercanzia tecnologica immaginabile che si possono risolvere problemi educativi e formativi nati ben prima del 1984 – che non è solo il titolo del romanzo di Orwell, ma anche l’anno di nascita di Macintosh, la rivoluzionaria famiglia di computer che avrebbe dato il via alla diffusione dei PC nelle nostre case e nei luoghi più inverosimili.

Però, diciamoci la verità: se, da un lato, una percentuale altissima di alunni della scuola dell’obbligo ha imparato a interagire col touch screen prima di imparare a parlare, e anche se la gran parte degli insegnanti possiede uno smartphone e probabilmente usa un computer, il sistema scuola non si è mai chinato seriamente sulla formazione degli insegnanti. In realtà si continua a dare per scontata la capacità degli insegnanti di padroneggiare www e dintorni; nel contempo non si è mai affrontata una riflessione a 360° sulle TIC e su come queste hanno cambiato da così a così l’intero contesto formativo.

Un esempio significativo l’abbiamo sperimentato giusto un anno fa. A metà marzo si sono chiuse le scuole, riaperte in maggio. In quei tre lunghi mesi, a salvare l’anno scolastico ha contribuito la scuola a distanza. Gli ostacoli sono stati tanti e di varia natura. C’era chi, a casa, il computer non l’aveva, o ne aveva uno solo per più di un figlio. Dall’altra parte dello schermo c’erano docenti che riuscivano a fornire prestazioni all’altezza, mentre altri erano del tutto a disagio, con competenze informatiche rudimentali. L’estrema urgenza ha imposto di mantenere quel minimo di contatti, benché virtuali, e di garantire la continuazione dell’attività didattica, per quanto limitata ad alcune discipline. Tuttavia è probabile che le pratiche messe in atto in quei mesi dagli insegnanti non divergessero nella sostanza dagli stili di insegnamento precedenti.

È però dimostrato che quel breve periodo di scuola a singhiozzo, con presenze ridotte e altrettanto ridotta continuazione dei percorsi didattici, abbia danneggiato soprattutto gli allievi delle fasce sociali più disagiate. In tal senso, quindi, si può dire che, almeno in quel frangente, messo in piedi in fretta e furia, gli «ambienti informatici» disponibili hanno mostrato la loro assoluta inadeguatezza pedagogica. Malgrado ciò, c’è già chi afferma che grazie alla pandemia abbiamo scoperto la scuola del futuro prossimo, precorritrice di nuovi e fantastici orizzonti formativi. Di sicuro c’è chi favoleggia una scuola a regime ibrido, un po’ in presenza e un altro po’ davanti a uno schermo, ognuno a casa propria.

Sono convinto che la tecnologia nasconda straordinarie possibilità per contribuire al progetto politico e culturale della scuola obbligatoria. Ma le TIC, di per sé, sono un mezzo, non una finalità. Si cresce e si impara attraverso l’impegno individuale, ma anzitutto lavorando in gruppo e contribuendo alla vita di quella piccola comunità di cui ciascuno è protagonista.