L’evoluzione della specie secondo la scuola

A inizio novembre molti quotidiani svizzeri ne hanno diffusa una abbastanza graziosa. Il ginevrino «Le temps» titolava: «Un manuel compare Dieu à Darwin». A far rumore è una nuova guida pratica, destinata agli allievi della scuola media bernese, che metterebbe sullo stesso piano la teoria dell’evoluzione, da una parte, e la creazione secondo la fede dei creazionisti dall’altra. «È la prima volta – ha spiegato Markus Wilhelm, professore presso l’Alta scuola pedagogica della Svizzera centrale – che in un libro di testo elvetico le due teorie sono poste sullo stesso piano». C’è sempre una prima volta, verrebbe da esclamare, se solo si pensa che quasi tutti noi siamo cresciuti in bilico tra l’Adamo plasmato con un mucchietto di fango (e con l’inevitabile soffio divino) e l’uomo che discende dalla scimmia (che è quasi un’evidenza, se solo ci si dà la briga di guardarsi attorno con occhio neanche tanto vigile). Questo per dire che la maggior parte di noi ne sa poco del creazionismo, che non è dominio esclusivo del Cristianesimo, e ne sa ancor meno della teoria dell’evoluzione e dell’origine della specie.
Resta che, almeno stando ai brevi resoconti giornalistici, l’operazione proposta da questo nuovo manuale scolastico bernese si configura come l’ennesima faciloneria. Così non sarà certo l’imbarazzata difesa di uno degli autori a convincerci dell’utilità dell’accostamento. Stando al Corriere del 5 novembre, «Bruno Bachmann, che ha diretto il team di autori del testo, si è detto piuttosto sorpreso dalle critiche. A suo avviso non si tratta né si è voluto equiparare il creazionismo alle scienze naturali, ma si è solo cercato di spiegare gli argomenti usati per mettere in dubbio l’evoluzione. Un tema che esiste e va affrontato». Bisogna convenire che si tratta di un problema sentito, di cui dibattono selvaggiamente, giorno dopo giorno, insegnanti e studenti di tutte le scuole d’Europa (e non solo nelle università)… A meno che non si tratti, invece, di un nuovo barlume di scivolamento verso la nostra sempre più inquietante americanizzazione: come dimenticare che in molti stati degli USA Darwin è stato bandito, mentre l’unica verità degna di far parte della scuola è quella creazionista, comprensibilmente di matrice cristiana?
In tutta franchezza, mi sembra che la controversia, giustamente diffusa da un gran numero di testate svizzere a inizio novembre, non aggiunga molto al nulla esistente. Darwin lo si conosce per il nome, al pari di Einstein o di Newton. Loro e le loro scienze esistono perché sono piegate ad alcuni filoni più o meno tradizionali dei programmi scolastici, ma è raro che la scuola affronti i fondamenti epistemologici della fisica, della chimica, della matematica. Pitagora è l’inventore del Teorema per antonomasia, Einstein ha creato la teoria della relatività e Darwin ha architettato la scimmia come progenitore dell’uomo. Punto. Eppure il tema dell’origine della specie – così come molti altri temi, ovviamente – offre appassionanti piste di studio, di riflessione e di speculazione intellettuale sin dalla più tenera età, con sconfinamenti in tante e tante altre scienze. Purtroppo chiedersi se deriviamo da Adamo ed Eva oppure da Lucy serve poco all’industria.

P. S.: lunedì scorso ha aperto i battenti all’Alta scuola pedagogica di Locarno la mostra «Mini Darwin alle Galapagos – L’evoluzione raccontata dai bambini». Attraverso un percorso interattivo e multimediale, bambini e ragazzi sono condotti alla scoperta dell’evoluzione e della biodiversità ripercorrendo il viaggio di Charles Darwin alle isole Galápagos. La mostra prende spunto dalla spedizione «Mini Darwin alle Galápagos» realizzata da un gruppo di otto ragazzi, un biologo e un oceanografo tra dicembre 2006 e gennaio 2007. C’è da augurarsi che sia ben frequentata e che, dopo la chiusura, pianti le tende in altre parti del Cantone: potrebbe aprire piste di grande interesse.

Insegnamento dell’italiano e principi fondamentali della scuola

Per imparare è sempre necessario fare una cosa che non si è in grado di fare per imparare a farla. Questo sofismo, che affonda le sue radici in Platone (*), mi è venuto in mente un paio di settimane fa leggendo sul settimanale della Coop un servizio dedicato all’italiano, «una lingua da salvare». Raccontava uno studente del liceo: «l’anello debole è la scuola media. Per mia esperienza, in un anno di temi ne ho scritto solo tre». Sarà che, come un’unica rondine non fa primavera, la testimonianza di uno studente non fa statistica. Però – dài e dài – è proprio questa l’impressione che si ha: si scrive sempre meno e non solo alla scuola media. Eppure, per tornare a Platone, sembrerebbe logico che per imparare a suonare la cetra sia necessario suonarla. Ma, allora, se la si suona, è perché lo si sa già fare?
Anni fa, durante un festival del film di Locarno, avevo intervistato il critico di «Repubblica» e teorico del cinema Alberto Farassino. Erano gli anni in cui l’«educazione all’immagine» era un tema emergente e molto sentito. Come fare a «insegnare» il cinema ai nostri allievi? gli avevo chiesto, con una buona dose di ingenuità. La risposta era stata alquanto scettica. In poche parole, Farassino aveva sostenuto che se per imparare a suonare la tromba era comunque inevitabile passare qualche ora al giorno a fare perepè-perepè, non si capiva bene come fosse possibile imparare a capire – e magari “scrivere” – il cinema senza guardare almeno giornalmente dei film.
Per restare all’esercizio della scrittura, non esisterà mai nessuna trovata didattica in grado di insegnare a scrivere prescindendo dall’atto assiduo dello scrivere. Non ci sono scorciatoie; imparare è faticoso. Poi è vero che per superare l’idea di un’educazione del tutto spontaneista, occorrono insegnanti che sappiano stimolare e correggere in maniera esemplare, offrendo dei modelli grammaticali, sintattici, lessicali e semantici. Eppure si dice che all’Alta Scuola Pedagogica entrino studenti che l’italiano lo praticano a stento: io speriamo che me la cavo. Il bello è che provengono per lo più dal liceo, scuola che, a ben vedere, non ha tra i suoi obiettivi quello di insegnare l’italiano, così come insegnare l’italiano non è compito dell’ASP. Ma, in definitiva, chi se l’assume questo compito?
In realtà dovrebbe essere una finalità di tutta la scuola: si comincia alla scuola dell’infanzia e si finisce alla media superiore o alle scuole professionali, ma ognuno è tenuto a fare la sua parte. Perché se conoscere la lingua significa anche saper riflettere e organizzare il proprio pensiero, allora non è immaginabile un sistema scolastico che schivi l’oliva, oggi con un’attenuante, domani con l’altra. Prima o poi qualcuno diventerà insegnante – forse un generalista della scuola elementare; forse, invece, uno specialista del liceo. Ma non è immaginabile che un docente insegni – o faccia finta di insegnare – una competenza che non possiede, convinto di esserne provvisto per il solo fatto d’avere in mano il classico «pezzo di carta». Anche questa è democratizzazione dei diplomi, che fa a pugni con la democratizzazione degli studi.
Il problema è certamente complesso e ha molteplici cause. È però interessante ricordare che verso la fine del ’02 il DECS aveva costituito un gruppo di lavoro denominato «Potenziamento dell’italiano». Il gruppo di esperti provenienti da tutti i settori scolastici del Cantone aveva lavorato con particolare solerzia, tanto che già nel luglio dell’anno dopo aveva rassegnato un corposo rapporto che premetteva come «in ogni ordine di scuola gli esiti linguistici sono insoddisfacenti». E scriveva tra l’altro: «Si ritiene anzitutto che la soluzione del problema sia da ricercare in una ridefinizione della politica scolastica che porti a (…) evitare il rischio di trasformare la scuola in un “supermercato formativo”, individuando invece i curricoli di base fondati su essenzialità formative (un diverso atteggiamento della politica scolastica di fronte alle continue richieste di formazioni contingenti e utilitaristiche)». Eccolo lì, il sempre più indispensabile ritorno ai principi fondamentali della scuola.


(*): questo articolo era apparso sul Corriere del Ticino nel 2007. Questa nota, invece, è postuma, giunge quasi un decennio dopo. Non so dove avevo preso la frase «Questo sofismo, che affonda le sue radici in Platone». In realtà non si tratta di un sofismo (meglio, di un sofisma). In più Platone non c’entra nulla. Il riferimento esatto è ad Aristotele, più precisamente al Libro II: La virtù ha per presupposto l’abitudine dell’Etica a Nicomaco. Dove l’allievo di Platone osserva come Le cose che bisogna avere appreso prima di farle, noi le apprendiamo facendole: un prezioso principio della scuola attiva.

Scuola obbligatoria: all’urgente ricerca delle finalità

«È colpa della scuola dell’obbligo se oggi dal 30 al 50% degli allievi non riesce a conseguire la qualifica a fine tirocinio?». È, questa, una delle tante domande uscite durante il convegno sul tema «Apprendistato: quale futuro?», organizzato nei giorni scorsi a Manno e di cui ha riferito La Regione del 28 settembre. Naturalmente tante le certezze, le preoccupazioni, i dubbi e le ipotesi che sono state avanzate. Cristina Resmi, dell’Unione svizzera del metallo: «Il livello dei ragazzi che escono dalla scuola media si abbassa ogni anno sempre di più». Vincenzo Nembrini, capo della Divisione della formazione professionale del DECS: «Le imprese, a volte, pretendono molto, forse troppo. Non ci si può attendere che un giovane appena uscito dalla scuola dell’obbligo risponda immediatamente a tutti i requisiti».
È abbastanza evidente, anche se la scelta è solo sottintesa, che la scuola dell’obbligo è primariamente progettata per quegli allievi che proseguiranno gli studi. Basti pensare che il passaggio automatico di un allievo dalla scuola media al liceo avviene sulla scorta di taluni presupposti ben precisi, quali una media complessiva di almeno 4.65, la frequenza dei corsi attitudinali di matematica e tedesco (e perché non – tanto per dire – storia?) e come minimo il 4½ in italiano. Chi non raggiunge questi obiettivi – ed è una percentuale piuttosto significativa – può tentare, con scarse possibilità di successo, gli esami di ammissione alla scuola media superiore, oppure ripiegare sull’apprendistato. Di transenna, ma non è certo la scoperta dell’America: al convegno di Manno si è pure detto che «l’apprendistato è generalmente frequentato dalle classi sociali più basse».
Dunque chi, come me, era fermo alla realtà di un elevato tasso di bocciatura soprattutto nei primi anni del liceo e della scuola di commercio – dal 20 al 30% – ora è servito con questo supplemento offerto dalle scuole professionali, che descrivono uno scenario inquietante, fatto da fallimenti che toccano fino alla metà degli apprendisti. Ma c’è un’altra circostanza altrettanto allarmante che ha fatto capolino al convegno di Manno: sempre secondo la Resmi, «Oggi gli allievi che escono dalla scuola obbligatoria hanno sì un’infarinatura su molti argomenti, ma molto superficiale». Ecco allora che balza nuovamente all’attenzione una duplice urgenza. La prima: la scuola dell’obbligo deve urgentemente ritrovare quell’essenzialità imprescindibile, e da sostenere col necessario rigore, affinché sia chiaro a tutti – insegnanti, allievi, genitori, settori formativi post-obbligatori – cosa un allievo di quindici anni deve conoscere e padroneggiare. È la prima e fondamentale finalità di una scuola che è in grado di insegnare delle conoscenze e delle competenze che si ritengono indispensabili per ogni successivo percorso formativo, ed è un obiettivo sulla cui limpidezza è poi possibile costruire l’Educazione di tutti gli allievi.
La seconda, vincolata alla prima: a ormai più di trent’anni dall’entrata in vigore della scuola media, la scuola dell’obbligo deve diventare la scuola di tutti, affinché ognuno, entro i quindici anni, abbia acquisto l’essenziale bagaglio di conoscenze culturali, linguistiche, storiche, geografiche, artistiche, “filosofiche”, … che permetta una scelta futura ben ponderata. Insomma: è una sciagura se centinaia di giovani si sfracellano ogni anno contro le valutazioni sommative della scuola scelta, sia che si tuffino nell’acqua alta e scura del liceo, sia che entrino correndo e ridacchiando nel mare apparentemente tranquillo della scuola professionale. Si tenga conto che tra sei e quindici anni, un allievo che non ripete neanche una classe trascorre a scuola – obbligatoriamente – oltre diecimila ore. Come ha scritto il sociologo Philippe Perrenoud, se la medicina potesse occuparsi della popolazione, per obbligo statale, anche solo per una porzione infinitesimale di questo tempo, non le si perdonerebbe neanche un raffreddore.

Scuola «liberale» o «democratica»? Una scelta necessaria

Nei giorni dell’apertura dell’anno scolastico, abbiamo letto anche da noi numerose riflessioni sulla nostra scuola. Oddio, in Ticino il dibattito non è particolarmente infiammato, segno che il sistema scolastico non è così sgangherato e che taluni legami tra scuola e società tengono ancora. Anche perché, nonostante tutto, le tensioni sociali sono molto «svizzere», non confluiscono in violenti episodi di piazza, non si trasformano in scontri fisici tra integrati ed esclusi, non lasciano tracce di polemica infuocata su quotidiani e settimanali. Siamo assai lontani, insomma, dalle consultazioni popolari sulle valutazioni scolastiche – note sì, note no… – o dalle pubbliche controversie sul degrado dell’ortografia, come succede da qualche anno in diversi cantoni romandi, forse influenzati dall’adiacente Francia. Nel nostro caso la contiguità con l’Italia (e il suo mutevole sistema scolastico) è senz’altro un vantaggio.
Eppure sotto sotto, nei diversi interventi, si leggono in filigrana due progetti di scuola che solo apparentemente hanno dei punti in comune. Da una parte c’è chi, con un malinconico occhio a un passato che non c’è più, opterebbe per un modello che privilegia l’istruzione. Accanto al tradizionale programma fondato su «leggere, scrivere e far di conto» sarebbe sufficiente aggiungere quelle quattro carabattole necessarie per stare solidamente a galla in questo mondo spietato: naturalmente qualche lingua straniera e l’informatica, oltre a un elenco di altre “cose” che la scuola dovrebbe e/o potrebbe “fare” (quello di assegnare sempre nuovi compiti alla scuola è ormai diventato uno sport nazionale). Una volta istituito «il programma», toccherà ad allievi e studenti dimostrare le loro capacità. Chi studia riesce. Chi è anche “predisposto” di suo farà molta strada. E gli altri s’arrangino: c’è sempre bisogno di braccia (e a quel punto non sarebbe neanche più necessario far le battaglie politiche a colpi di pecore nere…).
Pur tuttavia c’è anche chi ha in mente un altro modello di scuola: quello basato sull’Educazione, che è un proposito senz’altro più ambizioso – e pertanto difficile – ma che non è necessariamente in antitesi col primo schema citato. Anche una scuola che educa, nel contempo istruisce. Negli anni, assai recenti, dell’anti-nozionismo, era di moda ripetere che «è più importante imparare a imparare, che non ciò che s’impara». Quel manifesto è finito col bambino nello scarico, assieme all’acqua sporca. Ma il primato dell’Educazione e delle proprie capacità di leggere e interpretare il mondo, di un’educazione che trae la sua linfa vitale dalla conoscenza e dalle competenze, resta intatto. Lo diceva già Freinet oltre quarant’anni fa: «Ce n’est pas le jeu qui est naturel à l’enfant, mais le travail». D’altronde don Milani, ai suoi allievi di Barbiana, chiedeva grandi sforzi, consapevole che imparare e crescere non sono giochini – tanto meno giochini televisivi, coi quali è possibile diventar milionari e restare ancorati alla propria barbarie (un po’ come le note scolastiche: siamo davvero convinti che le buone note faranno un buon cittadino?).
Ma qual è, in definitiva, il modello a cui appartiene la scuola ticinese? Un po’ a tutt’e due, si direbbe, a seconda del vento che soffia. Prima che sia troppo tardi, converrebbe però che lo Stato definisse esplicitamente e tangibilmente, e non solo esteriormente, che scuola vuole per il futuro dei suoi cittadini: perché non è limitandosi a distribuire risorse omologate e apparentemente eque alle scuole dell’obbligo, che si risolvono i problemi della riuscita scolastica e dell’orientamento. Come l’insegnante non può far finta che i suoi allievi siano tutti uguali, così lo Stato non può fingere che tutte le sue scuole siano identiche. Proprio per questo motivo occorre un chiaro progetto, fatto di obiettivi e ambizioni culturali, di modalità per accompagnare gli allievi, di educazione alla cittadinanza e all’assunzione di responsabilità. All’attuale modello «liberale» (sulla linea di partenza, pronti, via: e vinca il migliore), dovremmo poter sostituire un modello autenticamente democratico, in perfetta linea con le finalità della nostra scuola (che sino a oggi nessuno ha messo formalmente in discussione).

La televisione educa: che lo si voglia oppure no

A fine agosto il consiglio del pubblico della CORSI ha stigmatizzato un’intervista a Roger Etter mandata in onda dalla nostra TSI, ritenendo «fuori luogo, anche dal profilo etico ed educativo, la diffusione di questo servizio». A «La Regione» il rimprovero è andato di traverso, tanto che – per zampetta della sua formichina – ha paragonato il consiglio del pubblico al MinCulPop di totalitaria memoria. Scrive: «siamo ormai al giornalismo ‘pedagogico’, caldeggiato in particolare dalle dittature», mentre «il giornalismo [deve] anche e soprattutto informare». Öh, la pèpa: se «La Regione» ha ragione, devo aver perso qualche puntata.
Non ho visto l’intervista a Etter, ma sono rimasto sconcertato da quel «siamo ormai» che la formichina ha usato per enfatizzare la sua improvvisa avversione a un giornalismo, televisivo o meno, che ogni tanto dovrebbe ricordare la sua funzione di servizio pubblico o i suoi impegni etici (ovviamente al di là delle più prosaiche occorrenze di audience e/o di tiratura: francamente, un bel dilemma). Senz’altro non da oggi, si dice che una delle difficoltà della scuola a tener dietro ai suoi obiettivi risieda proprio nella «cattiva maestra televisione», come la definì Karl Popper. Perché la TV educa, che lo si voglia o no, così come educano tutti i mezzi di comunicazione di massa. E allora come si fa a paventare un rigurgito di dittatura davanti a un legittimo diritto espresso da un organo costitutivo della CORSI? Oppure si ritiene che il Consiglio del pubblico si sia improvvisamente tramutato in un’ammucchiata di bacchettoni, che tramano il colpo di stato e, all’occorrenza, potrebbero tramutare Nostra Signora di Comano in un servile portaborse del potere? La prospettiva fa almeno abbozzare un sorriso.
Non si capisce, insomma, perché mai un giornalismo ‘pedagogico’ dovrebbe finire al rogo, sbertucciato peggio della spazzatura che imperversa in ordine sparso su un po’ tutti i canali televisivi e le tante testate. Tanto più che un’azienda di servizio pubblico, come la SSR, ha «il compito di produrre e distribuire programmi radiofonici e televisivi su tutto il territorio della Confederazione» con il preciso mandato di «tutelare e promuovere i valori culturali del Paese e contribuire alla formazione dell’opinione e dello svago del pubblico». Oppure si ritiene che scopi del genere non siano (più) educativi, nell’accezione più neutra del termine?
È chiaro che, per assurdo, il problema non si porrebbe se solo ogni telespettatore fosse autonomamente in grado di farsi un’opinione critica e consapevole di ciò che gli viene propinato o di ciò che preferisce farsi rifilare. Ma sappiamo che non è così. Benché i programmi scolastici contemplino da qualche decennio anche l’educazione ai mass media, in concreto si tratta di un’istruzione che non passa, che stenta a entrare nella «cassetta degli attrezzi» che ogni cittadino dovrebbe avere a disposizione per leggere il mondo. Il guaio è che, con la crescita quantitativa dell’offerta televisiva e massmediatica in generale, sono pure prosperati gli ambiti di cui la scuola ha creduto di doversi occupare e quelli che le sono stati affibbiati: col risultato che la scuola annaspa ed è sempre più insistentemente chiamata a operare delle scelte radicali, per andare al cuore delle essenzialità e di ciò che è in grado di fare bene. Perché nella realtà dei fatti la ressa pasticciona dei programmi televisivi – che accosta sul medesimo scaffale l’informazione e il reality show, l’approfondimento giornalistico e il quiz cretino, il capolavoro cinematografico e il telefilm insulso – ha finito col favorire lo zapping e il pensiero a singhiozzo.
Nell’universale marasma, quindi, un giornalismo ‘pedagogico’ – che non è sinonimo di ‘censorio’ o ‘dispotico’ – potrebbe contribuire al vasto progetto di educazione che è proprio di ogni Paese civile. Non si vede per quale astruso motivo la scuola (pubblica) e la televisione (pubblica) dovrebbero essere tradizionalmente «l’un contro l’altra armate». Perché la libertà di stampa è un po’ come la libertà d’insegnamento: dovrebbe terminare laddove inizia la libertà dell’altro. Almeno nel settore pubblico.

Il blog di Adolfo Tomasini, dove si parla di educazione e di scuola