«Attenzione! Scuola pericolosa!»

75-Fuori-dallaula-31-08-2005.doc-724x1024Ha proprio fatto bene, la nostra Polizia, a mettere in guardia i bambini sul fatto che, da oggi, si torna sui banchi di scuola. La scelta, ancorché un po’ strampalata, è ragionevole, perché la scuola non è più quella di un tempo: bambini e ragazzi iniziavano la scuola magari storcendo il naso, perché sapevano chiaramente che le vacanze erano terminate e che, da quel momento in poi, per un po’ di mesi avrebbero dovuto sgobbare per imparare competenze e nozioni. Da qualche anno, però, la scuola sembra cambiata: non è più quella riserva protetta in cui si impara a scrivere, leggere e far di conto.
No, ora a scuola si realizzano faccende ben più complesse e multiformi. In parte per stimoli interni – ispettori, pedagogisti, insegnanti, … – e in altra parte per spintarelle estrinseche – i genitori, l’opinione pubblica, il parlamento, … – la scuola di oggi “fa” molte più cose: un sacco di lingue straniere, l’alimentazione e il sesso, l’educazione stradale e l’informatica, e via enumerando secondo la propria inventiva e la propria esperienza. Da anni non passa giorno senza che a qualcuno non venga in mente qualche nuova stramberia di cui la scuola dovrebbe occuparsi.
È fuor di dubbio che negli ultimi anni la nostra scuola, solo in parte inconsapevolmente e in ogni caso senza una precisa coscienza dei propri limiti, ha voluto strafare, e si ritrova oggi a esser ripagata col tipico calcio dell’asino: perché gli osservatori internazionali vengono a dirci che i nostri ragazzi non sanno leggere, e che anche in ambito matematico non tutto fila via liscio come l’olio. Nel contempo lo Stato, stretto nella morsa delle difficoltà economiche, toglie risorse un po’ qua e un po’ là, aggiungendo difficoltà a difficoltà. Infine – è notizia del giugno scorso – ci si mettono gli ambienti economici, che dopo aver imposto informatica e inglese ora pretendono che la scuola potenzi le refezioni e incrementi il doposcuola: per meglio rispondere alle esigenze dei genitori che lavorano (ma delle recenti proposte di Avenir Suisse – che si definisce Think tank for economic and social issues (letteralmente un «serbatoio pensante su argomenti economici e sociali») –avrò forse modo di discorrere prossimamente).
Certo che a guardarsi attorno vien da dire che la scommessa di oggi abita proprio in queste grandi accozzaglie di ruoli: la posta che vende occhiali, i telefoni portatili che scattano fotografie, le stazioni di benzina che spacciano alcolici e salumi, il negozio di elettronica che vende caffé. Personalmente non mi dà fastidio comprare il pane dal benzinaio, mentre il telefonino pieno di carabattole mi irrita assai. Ma ancor più sgradevole è il vedere un’istituzione fondamentale come quella scolastica ridotta sempre più a livello di un qualsiasi emporio di quartiere, che deve rispondere alle esigenze più mutanti e bizzarre della clientela locale.
Questa scuola, per farla breve, sconcerta, frastorna e disorienta. Alcune moderne conquiste delle scienze dell’educazione permetterebbero per davvero di avere una scuola migliore, in cui tutti – anche i figli dei soliti poveri diavoli – possano per davvero crescere al massimo delle proprie individualità; ma occorrerebbe la modestia di limitarsi a svolgere onestamente i propri compiti storici: che sono pochi ma difficili. Invece l’attualità ci dice che abbiamo imboccato altre strade, improntate alla finzione e all’equivoco.
Attenzione, quindi, bambini (e ragazzi, genitori, insegnanti, direttori, ispettori ed esperti): sono iniziate le scuole. E son colme d’insidie.

La scuola dell’obbligo tra Chiasso e la Lapponia

Come dar torto al deputato del Gran Consiglio Raoul Ghisletta quando scrive, sulla Regione di sabato scorso, che «le riforme in ambito scolastico […] si fanno ispirandosi ai modelli vincenti, e non con il bricolage o con le esortazioni buonistiche»? Prendendo le mosse dai risultati scadenti dell’ormai noto studio PISA 2003, Ghisletta cita «uno di questi modelli vincenti […], quello finlandese, recentemente illustrato da un vicerettore di liceo di Helsinki, il prof. Heikki Kotilainen, che ha effettuato una serie di conferenze nella Svizzera tedesca». Non conosco il prof. Kotilainen, né ne ho mai sentito parlare. Però il nostro deputato cita un’intervista da lui rilasciata alla Neue Luzerner Zeitung a fine maggio, in occasione di una serie di conferenze che ha tenuto in giro per la Svizzera tedesca, non si sa invitato da chi.
È vero che l’organizzazione scolastica finlandese è per parecchi aspetti diversa dalla nostra, così com’è altrettanto certo che tra il paese scandinavo e il Ticino ci sono differenze politiche e culturali che in qualche modo influenzano il modo di reggere una scuola e di produrre dei risultati. Ad esempio il «tradizionale culto della lettura in voga in Finlandia», – cito il prof. Kotilainen citato da Ghisletta – che «si riflette sulle competenze linguistiche degli allievi», non può essere importato sic et simpliciter, se solo si pensa a quali possano essere le ragioni storiche e culturali che hanno generato questo culto da sogno e che lo tengono ancor oggi in vita. Un altro elemento che non si può importare è la percentuale di stranieri, che nel paese dei mille laghi è del 2% e che fa dire a Ghisletta «che significa avere 10 volte meno problemi interculturali e linguistici rispetto alla media svizzera». Il rimando un po’ xenofobo a questo dato ha invero un fondo di populismo: perché anche da noi esistono fior di scuole composte in massima parte da autoctoni, magari appartenenti a quella «classe politica borghese» che tanto infastidisce il nostro onorevole: eppure il culto della lettura non è di casa, così come le competenze linguistiche dei nostri allievi son quelle che conosciamo.
A ciò si potrebbe aggiungere che le classi finlandesi sono assai più numerose delle nostre (anche oltre 30 allievi, ciò che secondo il vicerettore Kotilainen rimane un problema): ma con alcune sostanziali differenze non solo quantitative. Intanto le scuole obbligatorie – dai sei anni della scuola elementare ai tre della media – sono poste tutte, ma proprio tutte, sotto l’egida dei comuni, che ricevono importanti sostegni dal governo centrale quando sono in presenza di casistiche particolari che potrebbero rendere più difficoltoso l’insegnamento: è il caso – appunto! – della presenza di allievi alloglotti, così com’è il caso della poco densamente popolata Lapponia. Invece da noi tutto è stabilito una volta per tutte. L’assegnazione agli istituti delle unità lavorative nell’ambito del sostegno pedagogico, ad esempio, è stabilita su basi burocratiche: ogni tot allievi c’è un docente di sostegno, e a nessuno importa se vi sono tanti o pochi allievi che potrebbero giovarsi di questo importante appoggio. Eppure è a tutti noto che vi sono, in giro per il Cantone, istituti con problematiche ben diverse, mentre in nome di uno strano senso dell’equità c’è chi ha troppo e chi troppo poco.
Infine gli allievi finlandesi non conoscono praticamente il dispositivo della bocciatura e, nel contempo, frequentano la scuola per molte meno ore dei nostri. Come ha dichiarato ai «Cahiers pédagogiques» la prof. Leena Vaurio, insegnante all’Università di Helsinki, «Vien da dire che la fruttuosa situazione sia la testimonianza diretta della competenza degli insegnanti! (…) Gli allievi svolgono buona parte del loro lavoro a scuola e si impara bene perché le ore di insegnamento sono impiegate in modo efficace. Le giornate scolastiche sono relativamente corte, ma dense (…). È chiaro che se l’allievo resta a scuola per delle attività extra-scolastiche, la sua giornata si allunga. In Finlandia le scuole propongono poche attività di questo tipo, sia in ambito sportivo che altro».
Quasi come da noi, dove il parlamento rifila nuovi compiti alla scuola con fenomenale regolarità.

Monte Carasso: fatta la legge…

Mi sa tanto che la vicenda di Monte Carasso terrà banco ancora per un po’, finendo per superare in rinomanza, invero un tantino folcloristica, anche lo tsunami d’inizio anno. Certo che ci vogliono una buona dose di sfrontatezza e una furberia decisamente fuori del comune per escogitare il ticket scolastico comunale. Cinquemila franchetti da offrire a quattro famiglie disposte ad iscrivere i loro figli in una scuola diversa da quella di Monte Carasso non sono bruscolini, né per il Comune, né per la famiglia. Poi c’è di mezzo il disprezzo verso un verdetto popolare che quattro anni fa aveva fatto polpette di certe mene liberiste, di cui il Gran Consiglio s’era fatto corifeo. Certo che se tutte le famiglie si fossero presentate al cospetto del capodicastero per riscuotere il bel gruzzolo, Morisoli sarebbe stato seppellito da una sonora risata.
Nella vicenda stupisce tuttavia la reazione per lo meno un po’ fiacca del nostro Dipartimento, che da una parte declama la probabile mancanza della base legale, e dall’altra s’affretta a suggerire soluzioni alla buona con i comuni limitrofi: come se fosse normale e auspicabile che tra confinanti ci si desse una mano per tenere i contingenti delle classi di scuola elementare entro i limiti più elevati fissati dalle leggi. Insomma: sarà vero, come ho ribadito più volte, che il numero di allievi per classe non è un assioma incontrovertibile, attorno a cui ruotano il successo e l’insuccesso della scuola. Ma è altrettanto vero che il Parlamento ha fissato limiti precisi – minimo 13, massimo 25 –, e se li si vogliono confutare lo si deve fare a palazzo delle Orsoline: sennò la protesta diventa una furberia e nulla più.
Che poi – come scrivono un po’ tutti – l’idea di Morisoli fosse quella di pagare la retta ad un istituto privato ciellino, è solo un complemento di sfacciataggine e di disprezzo nei confronti di una decisione popolare, che si era soprattutto manifestata in opposizione alle scuole confessionali. Per contro, agevolare e dare l’imbeccata per trovare soluzioni intercomunali sembra un modo elegante per aggirare la legge: di fatto se risiedo a Monte Carasso e lì pago le tasse non vedo un motivo serio perché mio figlio debba frequentare la scuola elementare a Sementina, e magari costruirsi lì il suo giro di amicizie. E allora quello stesso Dipartimento, sempre così lesto a sopprimere sezioni di scuola dell’infanzia o elementare non appena vengono a mancare un paio di allievi, farebbe bene ad essere altrettanto sbrigativo con quei comuni che non vogliono aumentare le loro sezioni quando il paio d’allievi supera la fatidica soglia fissata dal Parlamento.
A meno che dietro questa svicolata non ci sia dell’altro: ad esempio un primo passo verso la liberalizzazione dell’iscrizione scolastica, in palese contrasto con quella norma di legge che impone la frequenza nel comune di residenza – e che, lo ricordo di transenna, fissa a 600 franchi l’importo da pagare quando, per oggettive ragioni, la frequenza nel comune di domicilio non è realizzabile. D’altra parte è noto che nel cassetto dei sogni del direttore del DECS ce n’è uno che auspica il riscatto da parte del Cantone delle gloriose scuole comunali, un po’ perché, secondo Gendotti, i Comuni, a parte le nomine, non hanno competenze di gran rilievo; e un altro po’ perché, sempre secondo lui, ciò permetterebbe di evitare squilibri tra istituti di categoria A (ricchi) e di categoria Z (poveri).
È subito evidente che la qualità di un istituto non la si può misurare sulla base dei fondi a disposizione – ma questo è ovviamente un altro discorso. Se però cominciano i cedimenti verso quei comuni che non intendono rispettare le leggi dello Stato, allora il futuro si farà sempre più fosco: da Monte Carasso potrebbe partire l’esempio per altri comuni e, perché no?, per singole famiglie. Ad esempio, uno potrebbe iscrivere i suoi pargoli in quell’istituto che è lì a un tiro di schioppo e dove non ci sono quasi stranieri, oppure in quell’altro dove insegna l’amica di mia moglie, che dicono ch’è così brava…

Attendiamo impazienti il nostro ritorno al futuro

La politica scolastica ticinese degli ultimi anni è stata caratterizzata da diverse ondate, non necessariamente interconnesse, non per forza sostanziali e non certo al cuore degli obiettivi autentici che la tradizione affida come mandato fondatore alla scuola in generale, e alla scuola obbligatoria in particolare. È pur vero che il Cantone ha concentrato nel recente passato risorse finanziarie e concettuali sulla scuola di livello terziario – USI, SUPSI e ASP. Ma è ugualmente vero che, frattanto, nelle retrovie si sono combattute piccole scaramucce tutto sommato marginali, che hanno creato confusione da una parte, hanno disorientato molti operatori della scuola – anzitutto gli insegnanti – e hanno finito col lasciare andare alla deriva alcuni imprescindibili tasselli che caratterizzano l’identità stessa della scuola: tra mense, turismo, doposcuola, asili nido, sport, dipendenza dalle droghe e politica delle lingue, si è finito per scordarsi dell’italiano – e d’un paio d’altre cosucce sulle quali sarà comunque utile chinarsi quanto prima.
La decisione di introdurre l’inglese obbligatorio nella scuola media ha avuto ricadute un po’ in tutti i settori, con vittime illustri quali il francese, il latino, il greco e – naturalmente – l’italiano. Con la scelta di dare a tutti almeno un’infarinatura d’inglese prima di uscire dalla scuola dell’obbligo, si è tra l’altro disposto che il francese avrebbe dovuto attribuirsi migliore dignità nella scuola elementare, come se non fosse a tutti noto che questa lingua fa parte dei programmi da una trentina d’anni. Eppure nelle segrete stanze del nostro Dipartimento si è sentito impellente il bisogno di dare un segnale forte, che si sta traducendo in un nuovo metodo che esigerà dai Comuni fior di quattrini.
«Alex et Zoé» – questo il nome del nuovo manuale, che trasformerà i nostri frugoletti in potenziali membri dell’Académie de France – è attualmente sperimentato in una cinquantina di classi del Cantone, ma sembra che già nel 2006 sarà generalizzato: alla faccia dell’ortodossia sperimentale. Resta poi da appurare se i Comuni saranno disposti a scucire le borse, visto che il supporto didattico costa parecchio. All’orizzonte, almeno per ora, non spuntano progetti di aggiornamento degli insegnanti: «Alex et Zoé» potrà anche essere la Porsche dei sussidi didattici per l’insegnamento della lingua di Maupassant e di Baudelaire; ma poi ci vogliono i piloti capaci di trarne le migliori prestazioni.
Intanto la pubblicazione dei risultati cantonali di PISA 2003 continua a far clamore e a creare imbarazzi un po’ in tutta la Svizzera, soprattutto per gli scarsi risultati ottenuti in lettura e in scienze naturali. A Ginevra, cantone che condivide con noi il poco invidiabile ultimo posto nazionale nella classifica dei lettori, il patron del dipartimento dell’istruzione pubblica ha già predisposto la reintroduzione delle note scolastiche, come se la lingua materna la si insegnasse con le note, e non – invece e più correttamente – attraverso insegnanti professionalmente irreprensibili, che operano in un sistema scolastico che sa chi è, cosa fa e dove vuole andare: ma non è evidentemente un problema nostro, ché le note le abbiamo da sempre, mentre l’italiano lo padroneggiamo sempre meno.
Con l’aplomb invocato dal ruolo, Gendotti non si è invece lasciato prendere dal panico e ha dichiarato nei giorni scorsi con vibrante senso di responsabilità (Corriere del 18 maggio): «Purtroppo si rileva una dispersione di forze su attività collaterali e materie secondarie. Le griglie scolastiche sono troppo cariche e forse si sono un po’ perse di vista le vecchie ma sempre valide priorità: leggere, scrivere e saper fare di conto». Appunto. Come ho scritto in questa rubrica un paio di mesi fa, il «Gruppo potenziamento dell’italiano», istituito a suo tempo dal DECS, ha rassegnato un rapporto quasi due anni or sono. Da quel giorno più nessuno ne ha parlato. Eppure la diagnosi sullo stato di salute dell’italiano nelle nostre scuole è implacabile: forse, perciò, è giunto il momento di sgravare le griglie e irrobustire la lingua madre. Anche – ma non solo! – per riguadagnare credibilità al di là delle Alpi.

PISA 2003: il Ticino in coda a un treno mediocre

La pubblicazione, a inizio maggio, dei risultati cantonali del confronto internazionale «PISA 2003», che relega la scuola ticinese tra le peggiori della Svizzera, ha già innescato la solita ridda di reazioni più o meno scomposte e contraddittorie. Non c’è testata che non se ne sia occupata – e «Il Caffé» di domenica scorsa s’è sentito in dovere di attribuire a Gendotti il cactus della settimana, quasi che gli scarsi risultati ottenuti dai nostri studenti un paio d’anni fa siano la conseguenza diretta di qualche marchiano errore degli ultimi anni e non, invece e più correttamente, il risultato di una politica scolastica scombinata, che tende – da troppi anni ormai – a conciliare interessi tra i più insoliti, ambigui e superflui.
Tra chi ha detto la sua su questo o quel giornale, si trovano tutte le opinioni che è possibile schierare tra il piromane e il pompiere. C’è chi, ad esempio, mette in dubbio la serietà dello studio, scordandosi un po’ in fretta che in altri frangenti non ci si erano poste fastidiose domande relative alle metodologie adottate, visto che la scuola ticinese era dipinta tra le migliori del mondo. Non mancano quelli che evocano l’alta percentuale di stranieri presenti nelle nostre classi, mentre sappiamo che l’origine socio-economica e culturale ha un impatto ben più rilevante. Poi c’è chi dà la colpa ai recenti tagli finanziari, scordando che risultati come quelli conseguiti dai nostri quindicenni non si costruiscono nello spazio di un mattino. Insomma: di tutto e di più.
Come se non bastasse, il gran consigliere Abbondio Adobati è già partito a sirene spiegate con una bella interpellanza al Governo, chiedendo di pronunciarsi «sui dubbi da un lato e sulle preoccupazioni dall’altro lato che suscita lo studio». Adobati, che non è un parlamentare di primo pelo, si precipita a dire che, basandosi «su esperienze personali, nonché su fatti reali», è tentato «di dubitare molto sulle conclusioni cui giunge l’analisi». Il rischio di questo scambio d’idee un po’ starnazzante è quello di avere un effetto distraente, che ci allontanerà dai problemi reali – che esistono al di là di «PISA 2003». Intanto già il primo rapporto PISA, del 2000, aveva detto chiaro e tondo che la scuola svizzera non è tra le migliori del mondo – diciamo dalle parti di metà classifica. Questo secondo rapporto, pubblicato nel 2004, non fa che confermare quanto già si sapeva, e cioè che la nostra scuola non ha molto di cui vantarsi, immersa com’è in problemi di efficacia e di identità. Ma il progetto PISA non è una sorta di olimpiade dei sistemi scolastici. Già il rapporto che presenta i primi risultati del confronto 2003 – «Apprendre aujourd’hui, réussir demain» (OCDE, 2004) – è un ponderoso tomo di 500 pagine, che forse varrebbe la pena di conoscere prima di lanciarsi in pubbliche dichiarazioni, dubbi, dissensi o facili soluzioni.
Conta poco accapigliarsi perché siamo tra i fanalini di coda di un treno mediocre; più interessante sarebbe cercare di capirne i motivi, che non sono l’uno o l’altro a casaccio, a seconda dei nostri pallini. Oltre a ciò non si dimentichi che il rendimento disciplinare non può essere l’unico parametro per giudicare un sistema scolastico e, soprattutto, non è auspicabile che le prestazioni pilotino integralmente la politica scolastica. Si pensi, ad esempio, che tra i paesi che svettano in cima alla classifica vi sono la Finlandia e la Corea del Sud. Nel paese asiatico le ore settimanali di scuola sono addirittura più imponenti delle nostre; oltre a ciò la frequenza degli esami e la pressione della nota provocano il dilagare di depressioni nervose. Per contro la scuola finlandese termina verso le tre del pomeriggio, i famosi “test” sono pressoché inesistenti, così come le bocciature, e il tempo scolastico è riservato all’apprendimento delle discipline giudicate essenziali. Il meno che si possa dire è che, a pari risultati, i due sistemi scolastici sono diversi.
In ogni modo è sicuro che i risultati cantonali di PISA 2003 provocheranno degli immancabili scossoni: c’è solo da augurarsi che i grands commis della politica elvetica dell’educazione non puntino tutte le loro fiches sui risultati disciplinari, perché in quel caso – si può star certi – a lasciarci le penne saranno i soliti sventurati.

Il blog di Adolfo Tomasini, dove si parla di educazione e di scuola