PISA 2003: il Ticino in coda a un treno mediocre

La pubblicazione, a inizio maggio, dei risultati cantonali del confronto internazionale «PISA 2003», che relega la scuola ticinese tra le peggiori della Svizzera, ha già innescato la solita ridda di reazioni più o meno scomposte e contraddittorie. Non c’è testata che non se ne sia occupata – e «Il Caffé» di domenica scorsa s’è sentito in dovere di attribuire a Gendotti il cactus della settimana, quasi che gli scarsi risultati ottenuti dai nostri studenti un paio d’anni fa siano la conseguenza diretta di qualche marchiano errore degli ultimi anni e non, invece e più correttamente, il risultato di una politica scolastica scombinata, che tende – da troppi anni ormai – a conciliare interessi tra i più insoliti, ambigui e superflui.
Tra chi ha detto la sua su questo o quel giornale, si trovano tutte le opinioni che è possibile schierare tra il piromane e il pompiere. C’è chi, ad esempio, mette in dubbio la serietà dello studio, scordandosi un po’ in fretta che in altri frangenti non ci si erano poste fastidiose domande relative alle metodologie adottate, visto che la scuola ticinese era dipinta tra le migliori del mondo. Non mancano quelli che evocano l’alta percentuale di stranieri presenti nelle nostre classi, mentre sappiamo che l’origine socio-economica e culturale ha un impatto ben più rilevante. Poi c’è chi dà la colpa ai recenti tagli finanziari, scordando che risultati come quelli conseguiti dai nostri quindicenni non si costruiscono nello spazio di un mattino. Insomma: di tutto e di più.
Come se non bastasse, il gran consigliere Abbondio Adobati è già partito a sirene spiegate con una bella interpellanza al Governo, chiedendo di pronunciarsi «sui dubbi da un lato e sulle preoccupazioni dall’altro lato che suscita lo studio». Adobati, che non è un parlamentare di primo pelo, si precipita a dire che, basandosi «su esperienze personali, nonché su fatti reali», è tentato «di dubitare molto sulle conclusioni cui giunge l’analisi». Il rischio di questo scambio d’idee un po’ starnazzante è quello di avere un effetto distraente, che ci allontanerà dai problemi reali – che esistono al di là di «PISA 2003». Intanto già il primo rapporto PISA, del 2000, aveva detto chiaro e tondo che la scuola svizzera non è tra le migliori del mondo – diciamo dalle parti di metà classifica. Questo secondo rapporto, pubblicato nel 2004, non fa che confermare quanto già si sapeva, e cioè che la nostra scuola non ha molto di cui vantarsi, immersa com’è in problemi di efficacia e di identità. Ma il progetto PISA non è una sorta di olimpiade dei sistemi scolastici. Già il rapporto che presenta i primi risultati del confronto 2003 – «Apprendre aujourd’hui, réussir demain» (OCDE, 2004) – è un ponderoso tomo di 500 pagine, che forse varrebbe la pena di conoscere prima di lanciarsi in pubbliche dichiarazioni, dubbi, dissensi o facili soluzioni.
Conta poco accapigliarsi perché siamo tra i fanalini di coda di un treno mediocre; più interessante sarebbe cercare di capirne i motivi, che non sono l’uno o l’altro a casaccio, a seconda dei nostri pallini. Oltre a ciò non si dimentichi che il rendimento disciplinare non può essere l’unico parametro per giudicare un sistema scolastico e, soprattutto, non è auspicabile che le prestazioni pilotino integralmente la politica scolastica. Si pensi, ad esempio, che tra i paesi che svettano in cima alla classifica vi sono la Finlandia e la Corea del Sud. Nel paese asiatico le ore settimanali di scuola sono addirittura più imponenti delle nostre; oltre a ciò la frequenza degli esami e la pressione della nota provocano il dilagare di depressioni nervose. Per contro la scuola finlandese termina verso le tre del pomeriggio, i famosi “test” sono pressoché inesistenti, così come le bocciature, e il tempo scolastico è riservato all’apprendimento delle discipline giudicate essenziali. Il meno che si possa dire è che, a pari risultati, i due sistemi scolastici sono diversi.
In ogni modo è sicuro che i risultati cantonali di PISA 2003 provocheranno degli immancabili scossoni: c’è solo da augurarsi che i grands commis della politica elvetica dell’educazione non puntino tutte le loro fiches sui risultati disciplinari, perché in quel caso – si può star certi – a lasciarci le penne saranno i soliti sventurati.

La scuola, la cultura e i nipoti di Paperino

Tra i tanti luoghi comuni che circolano sui ragazzini di oggi, uno asserirebbe che conoscano molte più cose di quante ne conoscessimo noi alla loro età, una quarantina d’anni fa. L’assunto prende le mosse dal fatto che i frugoletti del duemila hanno l’immensa fortuna di poter disporre, con facilità e profusione, delle moderne tecnologie – come la televisione o internet, senza scordare i computer, con la loro vasta gamma di enciclopedie multimediali e di programmi educativi – così da renderli precocemente individui assai eruditi. Confesso che anch’io ho dato credito a questa baggianata fino a qualche anno fa, per poi dimenticarmene. La cosa m’è venuta in mente qualche sera fa, inciampando casualmente in un giochino televisivo trasmesso da nostra signora di Comano.
Si trattava di uno di quei quiz che si vedono un po’ su tutti i canali, per grandi e piccini: “format”, li chiamano. C’era un ragazzino di otto o nove anni, che doveva rispondere a domande difficilissime per vincere l’agognato premio. Gli è stato chiesto come si chiama, nella fiaba di Biancaneve, il nano perennemente insonnolito: «Nannolo!”, ha risposto il nostro Pico della Mirandola. Poi il bravo presentatore voleva sapere cosa occorre per passare la dogana: «La patente!», ha buttato lì, invero con una punta d’incertezza. Insomma, un gioco pedagogico, dove addirittura bisognava conoscere un numero in francese, dire quale città ticinese dà il nome al Verbano (dopo aver precisato che il Ceresio è quello di Lugano e che a Bellinzona…) e sapere a memoria il nome di tutt’e tre i nipoti di Paperino. Il medesimo gioco esiste anche per i grandi: a un mio coetaneo avrebbero chiesto cos’è l’oritteropo oppure di chi era re Carlo Magno: delle lire, dei dollari o dei franchi?
La TV ci sta prendendo tutti per cretini e rema follemente in quella direzione; dai e dai, credo che ci arriveremo. Sia chiaro che non ce l’ho col povero ragazzino, finito inconsapevolmente davanti alle telecamere e diventato famoso nel giro dei parenti e dei compagni di scuola, almeno per qualche giorno. Perché il bello del comparire in tivù sta nell’apparizione in sé: m’è già capitato di dover sottostare, per mestiere, al rito dell’intervista. Quel che resta, nei giorni successivi, non è ciò che hai raccontato, ma il tuo volto: sbuco dallo schermo, quindi esisto.
Forse c’è stato un tempo in cui il luogo comune di cui ho detto all’inizio abbia potuto avere qualche fondamento di verità. È possibile che negli anni ’60 la televisione contribuisse in qualche modo a far sì che i piccoli e saltuari spettatori della «TV dei ragazzi» e di qualche affascinante documentario aumentassero il bagaglio delle loro conoscenze. C’era sicuramente chi, con l’aiuto di un’enciclopedia e seguendo Angelo Lombardi alla tivù italiana (“Amici dei miei amici, buonasera!”), riusciva a distinguere un leopardo da un giaguaro e da un ghepardo. Senza voler banalizzare, quelli erano anni in cui il controllo sulle televisioni era ancora molto elevato; ci si rendeva conto delle forze pedagogiche del mezzo televisivo e si faceva in modo da un lato di non eccedere, dall’altro di proporre contenuti giudicati positivi: perché svolgere la professione di studioso o di insegnante era ancora un valore dabbene, di cui poter andar fieri.
Il capovolgimento, per quanto ci riguarda, è probabilmente giunto nei primi anni ’80, con l’avvento svelto e ingombrante delle televisioni commerciali. È in quel momento che gli interessi mercantili hanno sorpassato in un battere d’occhio le tensioni pedagogiche ed è da quell’epoca che la vita dei nostri pargoli si è trasformata in una festa senza fine. Nulla più è importante, se non l’effimero. Forse anche in questi fenomeni c’è qualche brandello d’indizio per capire la crisi odierna della scuola, che troppo in fretta si è ritrovata a fare i conti con un mondo esterno troppo mutevole, senza punti di riferimento, senza grandi progetti collettivi per cui valga la pena di battersi. Prima dell’inevitabile redde rationem converrà tornare in fretta ai principi fondatori della nostra scuola: che non contemplano i nipoti di Paperino.

L’italiano non è un malato immaginario

L’italiano ha ormai perso conoscenza. E allora? Non è certo la prima preoccupazione del nostro dipartimento dell’educazione – e della cultura e dello sport e del doposcuola e delle mense. Sì certo, qualcosa si farà. Cosa, non è dato sapere. Ma come: la nostra bella lingua italiana – che tanto inchiostro ha fatto scorrere e tante parole ha affidato al vento in questi ultimi mesi, per avversare la chiusura di qualche cattedra universitaria nella Svizzera confederata – la nostra bella lingua, dicevo, non è un tormento di cui curarsi in fretta? Forse…
Non tutti sanno, in effetti, che alla fine del 2002, nel pieno del tumulto provocato dalla decisione del Consiglio di Stato d’introdurre l’insegnamento obbligatorio dell’inglese a partire dalla III media, il nostro DECS aveva istituito in tutta fretta un «Gruppo potenziamento dell’italiano», forse perché accortosi – appunto – che la lingua se non di Dante almeno di Francesco Chiesa destava a dir poco qualche preoccupazione. Hai voglia: a furia di fingere che “l’italiano si pratica e si impara dentro tutte le aule, essendo usato nell’insegnamento di ogni materia”, sarebbe stato un miracolo se fosse riuscito a sopravvivere senza prendere un cronico febbrone da cavallo. Come invece è capitato.
In ogni modo, per l’appunto, ecco lì un bel gruppo di lavoro, con dentro rappresentanti di un po’ tutti i settori scolastici, designati con una bella risoluzione dipartimentale. I commissari speciali non si sono fatti pregare più di tanto: con l’entusiasmo dei giovani, in men che non si dica hanno scodellato il loro bel rapporto, all’indirizzo del direttore del DECS e di quello della divisione della scuola, con l’inevitabile copia a mezzo dipartimento. Il rapporto è un impietoso ritratto di una lingua a pezzi, sia dal punto di vista della quotidianità comunicativa di allievi e studenti – “Gli allievi sono spesso in difficoltà per quanto attiene a un uso funzionale della lingua e dei testi, finendo per scontare queste difficoltà in ogni ambito dell’accesso alla conoscenza” – che sul piano culturale. Come dire: Sono talmente maldestri con l’italiano che non riescono a penetrare nelle altre discipline.
Il documento meriterebbe la pubblicazione integrale, mentre non si capisce come mai dal 4 luglio del 2003 – data della pubblicazione – a oggi nessuno ne abbia parlato. Eppure il rapporto è pubblico, anche se nessuno – nemmeno i membri del gruppo – ha pensato di divulgarlo come si deve: la sua lettura è avvincente e una maggior diffusione avrebbe giovato a tutti. Perché il committente e i commissari stessi si siano improvvisamente fatti tanto pudichi resta un mistero. Forse le stesse proposte finali del gruppo di lavoro – che, a dirla tutta, sono un po’ raffazzonate – li hanno messi in totale imbarazzo: dopo una disamina così acuta, ci si potevano attendere proposte altrettanto sagaci. Invece le scelte terapeutiche sono a metà strada tra l’enunciazione retorica («una chiara scelta di indirizzi della politica della scuola dell’obbligo nel nuovo contesto sociale ed economico, eccetera eccetera») e le solite proposte trite e ritrite, vale a dire le prime che vengono in mente: aumentare le ore e diminuire il numero di allievi.
Fatto sta che intanto l’italiano boccheggia e nessuno se ne cura seriamente. Giustamente il gruppo di lavoro dipartimentale osserva come «debba essere seriamente presa in considerazione la questione – davvero fondamentale – della formazione linguistica degli insegnanti. Ci si può chiedere infatti se nei curricoli oggi previsti (che si tratti di insegnanti comunali o cantonali) è posta sufficiente attenzione agli aspetti linguistici e culturali; ci si può chiedere se […] è sufficientemente considerata, nella professionalizzazione della carriera dell’insegnante, la necessaria competenza linguistico-espressiva e comunicativa. Le risposte purtroppo non possono essere affermative». Insomma, l’italiano non è un malato immaginario: e allora che qualcuno corra ai ripari, sperando che non sia troppo tardi.

Non si può imparare a insegnare?

Con un’argomentazione un po’ ardita, Saverio Snider, sul Corriere di venerdì scorso, insinua il dubbio che l’ignoranza dilagante scaturisca dai dettami della moderna pedagogia, che si occuperebbe per lo più del “come” insegnare, facendosene un bel baffo del “cosa”. Nel suo pezzullo Snider scrive che, ai suoi tempi, aveva avuto un vecchio professore «… che faceva splendide ed avvincenti lezioni senza troppo interagire con i suoi allievi, senza far uso di proiettori e controproiettori, senza far ricorso agli artifici esplicativi dei “lucidi”»: a occhio e croce doveva essere una specie di Vittorio Gassman dell’insegnamento. Quel docente aveva la sua ricetta, che Snider sembra elevare al rango di assioma: «In primo luogo la capacità d’insegnamento non può essere data per via d’apprendimento teorico: questo ci può essere d’aiuto, ma essenzialmente la valenza del suo esercizio concreto è un dono che uno ha o non ha, dunque che non si può imparare più di quel tanto sui libri. In secondo luogo chi sa cento, se insegna bene, riesce a trasmettere ottanta o settanta; per converso, chi sa solo cinquanta, pur insegnando bene, trasmette alla fine solo trenta o venti». E conclude, tra lo sconsolato e l’ironico: «Sinceramente non mi sembra fuori posto quel suo elementare ragionamento, o almeno non ho trovato argomenti atti a contraddirlo».
Tutti, negli scaffali della nostra memoria, conserviamo un insegnante come quello, ma, nel contempo, serbiamo docenti che ci fanno ancora sghignazzare o incavolare a distanza di anni. Già in questa semplice constatazione c’è un elemento per contraddire l’assunto del vecchio professore di Snider: ogni Paese ha bisogno di un numero elevato di insegnanti e se la scuola dovesse far capo solo ai maestri formati all’Actors’ studio (o alla più nostrana Scuola Dimitri) potrebbe tranquillamente passare dalle aule agli stadi, per contenere contemporaneamente tutti gli allievi. È impensabile pretendere che nella scuola vi siano solo maestri baciati dalla vocazione, colti e motivati, così come ci sono provetti chirurghi e squartatori, avvocati di grido e azzeccagarbugli, falegnami valenti e maldestri praticoni, giornalisti che sanno scrivere e altri che cadono nelle trappole tese dalla paronomasia, proprio come i concorrenti dei quiz televisivi…
Anche tra i pedagogisti, dunque, ci sono i buoni e i cattivi, come dappertutto. Ma non sono certamente le scienze dell’educazione le uniche cause del degrado attuale, dove – come annota giustamente Snider – è purtroppo facile confondere il cardinal Borromeo con Brissago, o Petrarca con Leopardi, per finire dritti dritti a un improbabile premio Nobel a Dante. Ma la pedagogia non è solo l’arte di “insegnare a insegnare”, mentre si occupa – o dovrebbe occuparsi – anche del cosa e delle condizioni in cui. Come ci sono giornalisti rabberciati o riciclati, così ci sono pedagogisti un po’ ignoranti, che tenderanno a privilegiare l’ormai trito e ritrito “saper fare”, magari costruito sul vuoto assolutamente pneumatico, al “sapere” e basta. Affermare però che le due facce non appartengano alla stessa medaglia sembra francamente illegittimo.
Senza poi scordare qualche minuzia di una certa importanza. Jules Ferry, che è un po’ lo Stefano Franscini della Francia repubblicana, nella seconda metà dell’800 si lasciava andare a propositi un po’ sessantottini, affermando ad esempio che «… i nuovi metodi che hanno preso piede negli ultimi tempi consistono nell’evitare di somministrare regole rigide al ragazzo, ma di fargliele scoprire. Esse si propongono primariamente di eccitare e risvegliare la sua spontaneità, per vigilare e indirizzare un normale sviluppo, al posto di imprigionarlo in regole precostituite di cui non capisce nulla». Poi non sono sicuramente i pedagogisti – per natura piuttosto classicisti – ad aver esiliato le discipline umanistiche nel ghetto in cui si trovano attualmente. Il primato delle lingue straniere e delle scienze naturali ed esatte sembra piuttosto il prodotto dell’imperante neo-liberismo globalizzato e globalizzante, di cui non si può certo accusare i pedagogisti. Perché, insomma, non si può imparare a insegnare?

In America non c’è educazione senza censura

Sesso, religione, blasfemia, volgarità sono tra le principali ragioni che hanno spinto l’autorità di vigilanza a censurare, senza troppi patemi d’animo, alcuni libri giudicati diseducativi per i giovani studenti americani. Nello stato di Washington, ad esempio, negli ultimi due anni ben 34 titoli sono stati oggetto di controversie; di questi, dieci hanno subito delle restrizioni d’accesso e sei sono stati garbatamente sottratti dagli scaffali. Nel Texas un ponderoso rapporto intitolato «Free People Read Freely» riferisce di ben 62 titoli rimossi da questa o quell’altra biblioteca scolastica e di 33 altri volumi colpiti da restrizioni.
Fin qui non ci sarebbe nulla da eccepire. Però, immergendoci in qualche maggiore dettaglio, se ne scoprono delle belle. Ad esempio che «Le avventure di Huckleberry Finn» non è accessibile a chiunque, perché il nostro eroe smoccola un po’ troppo; oppure che tutta la saga di Harry Potter è andata incontro ad alterne fortune in questa o quell’altra scuola, perché incita alla stregoneria. Altri libri assai noti – e straletti da schiere di adolescenti, almeno fino a qualche anno fa, quando leggere era ancora un’attività assai diffusa dentro e fuori dall’aula – sono incappati nelle maglie censorie dell’«American Civil Liberties Union»: ad esempio «Ragazzo negro» di Wright e «Il colore viola» della Walker (razzialmente scorretti); «Ritorno al mondo nuovo» di Huxley, «1984» di Orwell e «Peter Pan» (contenuti sessuali); «Uomini e topi» di Steinbeck (linguaggio scurrile e violenza). E via inventariando.
E a noi, abitanti delle vecchia Europa, ce ne deve forse importare qualcosa? In fondo si tratta solamente di procedure assai coerenti con quell’America puritana e bacchettona che tutti noi conosciamo, che certo fa a pugni con le professoresse che si portano a letto gli studenti o con le insulse serie televisive che imperversano anche da noi, soprattutto dopo la liberalizzazione dell’etere; ma che è nel contempo in linea con quell’elevata percentuale di americani che diffida delle teorie di Darwin sull’evoluzione della specie ed è invece più propensa a dar credito scientifico al mito di Adamo ed Eva. Eppure c’è da inquietarsi, perché l’espansione della “correttezza politica e sessuale” sta lambendo anche le nostre contrade. Come interpretare, sennò, talune crociate dai toni un po’ apocalittici messe in atto negli ultimi tempi dal nostro governo? Se addirittura uno come Giuseppe Zois, disquisendo sulla proposta di vietare il fumo nei locali pubblici,  arriva a parlare di «Sicurezza ad altimetria variabile», siamo proprio al capolinea della Libertà, così come l’abbiamo intesa fino all’altro ieri.
Il vento della globalizzazione – che non è solo economica e finanziaria (anzi!), ma ha caratteristiche antropologiche e culturali – spira impetuoso dagli Stati Uniti, e dopo la Coca-Cola e i miti hollywoodiani ora sta imponendo con modi suadenti il liberismo più sfrenato in tutti i campi. Quale sarà – ad esempio – lo sviluppo futuro del cosiddetto “Accordo di Bologna” sull’armonizzazione delle università (un modello formativo molto americano, of course!)? Già stiamo assistendo impotenti al taglio di qualche ramo ritenuto troppo vizzo e deficitario, ma quali sorprese ci riserveranno i prossimi anni? Esisteranno ancora atenei dove si sviluppa la ricerca fondamentale? Sopravvivranno facoltà improduttive come quelle delle lingue classiche? Sarà ancora possibile “fare cultura” senza produrre indotti misurabili in denaro sonante?
E allora cerchiamo almeno di tenere alta la guardia, affinché prima o poi non ci si venga a dire ciò che i nostri bambini e adolescenti possono o non possono leggere. Perché anche qui il ridicolo è sempre più dietro l’angolo, e non vorremmo veder incenerito «Il fondo del sacco» per i suoi contenuti troppo disincantati o la leggenda di Guglielmo Tell messa all’indice perché razzialmente sgarbata (gli austriaci vengono a fare i turisti in Ticino, o no?). Come ha scritto il filosofo Zambelloni, dopo il divieto di Bacco e Tabacco toccherà pure a Venere, prima o poi. E perché non ai libri?

Il blog di Adolfo Tomasini, dove si parla di educazione e di scuola