Dell’inutilità della nota di condotta

Mancano ormai pochi giorni al rito dei libretti. La sfilata dei consigli di classe, degli esami o pseudo-tali, dei predicozzi ammonitori agli allievi è nella sua fase più acuta. Fra due settimane gli allievi della scuola dell’obbligo potranno verificare nero su bianco l’attendibilità delle proprie previsioni. Più di una volta in questa rubrica ho fatto degli accenni alle note, per sbeffeggiarne la soggettività, il grande arbitrio che solitamente vi soggiace e gli effetti spesso devastanti di questo sistema di classificazione degli allievi basato su convenzioni instabili e – in ogni modo – prive di qualsivoglia fondamento scientifico: tutti conoscono, per averlo sperimentato, il vantaggio di avere il Professor A al posto del Professor B, che non t’inguaia con test tipo “percorso di guerra” ed è di manica larga (e poi, magari, insegna anche meglio).
Oggi però non ho voglia di parlare delle mie pessime valutazioni in chimica, né delle belle note qualche volta rapinate ai tempi del ginnasio (tra le regole del gioco c’è anche la scorciatoia allo studio: l’importante è che l’insegnante si convinca delle mie conoscenze e, in questo senso,  i modi per persuaderlo non hanno molto peso: basta farla franca, con o senza bigino). Piuttosto voglio parlare del nobel delle valutazioni abusive, l’oscar del tentativo di omologazione dei comportamenti, l’inutilità contrabbandata per rimedio efficace dagli spalloni della scuola: la nota di condotta. Perché tanta stizza annunciata? Per almeno sei ragioni.
1. La nota di condotta è la più importante. La si chiami poi condotta o comportamento, atteggiamento o contegno, è la prima nota che si incontra sul libretto o sulla cosiddetta pagella. Ciò significa che, almeno nelle intenzioni, magari subliminali, per la scuola l’atteggiamento dell’allievo rispetto alle regole della classe o dell’istituto, è la madre di tutte le note. Di regola, una brutta valutazione del comportamento prelude ad una lunga teoria di altre insufficienze. Un quattro in condotta, insomma, sembrerebbe esser lì per dimostrare che se non ci si impegna e ci si comporta da allocchi è quasi naturale che ne soffrano poi la matematica e il francese, la geografia e l’educazione fisica.
2. La nota di condotta non è un apprezzamento dell’allievo, ma dei suoi genitori. Nessuno se ne accorge, ma siamo al popolare gatto che si morde l’altrettanto tradizionale coda. Dal giudizio sul comportamento trasudano le opinioni che la scuola si è costruita dei genitori: il ragazzo è gentile oppure insolente, s’avvale d’un gergo dantesco o affonda le sue radici comunicative nel peggio del porto, è manesco o mansueto come un vecchio soriano da calorifero. E chi è mai il responsabile primo del modo di fare dei pargoli? La famiglia, indubbiamente.
3. La nota di condotta è un’ipotesi sul futuro. Quando il collegio dei docenti dà un quattro in condotta a un allievo, emette in realtà una divinazione: tu sarai un ladruncolo, tu un eroinomane, tu batterai in Viale Stazione. Evasori fiscali e grandi maneggioni non rientrano nella categoria: è facile che siano garbati con chiunque – e, soprattutto, col potere, che a quell’età si specchia nel prof –, poiché ciò fa parte del mestiere. Nel contempo chi sarà baciato dal sei è come se ricevesse una maledizione, che si trasformerà nei continui sfottò dei compagni: secchione.
4. La nota di condotta è socialmente discriminatoria. Statisticamente è più facile per un ex balcanico o un mediorientale racimolare una notaccia come giudizio del suo atteggiamento, anche perché la sua condotta è quasi sempre il prodotto dall’ambiente che respira giorno dopo giorno. Forse la mamma la vede poco, impegnata com’è con gli orari della casa per anziani; e il papà fa il camionista, ed è già qualcosa se ha il tempo per telefonare all’Armida e dedicare una canzone di Baglioni ai suoi cari.
5. La nota di condotta è una spia dell’inettitudine. Della scuola, questa volta, e non dell’allievo. Quando un intero consiglio di classe sente il bisogno irrefrenabile di assegnare una pessima valutazione in condotta ad un suo allievo, ammette la sua incapacità (o, peggio, la sua ignavia). O non è vero che la scuola, oltre che istruire, dovrebbe anche Educare?
6. La nota di condotta è come la pena di morte. Serve a niente e non è un deterrente di alcunché, ma mette in pace la coscienza di chi la commina.

Quando si contano gli allievi nelle classi

Puntuale come una grippe, con i primi tepori primaverili è arrivata l’ammuffita questione del numero di allievi per classe, che i maestri ritengono da sempre troppo elevato. Quand’erano quaranta se ne volevano trentacinque – e chi ha frequentato le classi di quaranta allievi tende oggi a divinizzare il suo maestro, perché quelli erano tempi e quelli sì ch’erano maestri.
Ne dà notizia l’ultimo numero del Risveglio, l’organo della Federazione dei Docenti Ticinesi (sarebbe poi l’associazione dei docenti pipidì), che ha in Agostino Savoldelli – già fervente sostenitore del sussidio alle scuole private, dove notoriamente le classi hanno effettivi esagerati… – uno dei suoi uomini più acuti. Quest’anno l’influenza è salpata da Arbedo-Castione, dove insegna Savoldelli e dove gli insegnanti hanno dato l’allarme e, a quanto scrive La Regione del 7 maggio, hanno scritto un’accorata [sic] lettera a Gabriele Gendotti, chiedendo che sia adottata “urgentemente […] una diminuzione sostanziale del numero massimo di allievi per classe”.
I motivi della richiesta sono più o meno i medesimi che gli epidemiologi avevano già reperito l’ultima volta che la tutto sommato innocua influenza aveva tormentato il nostro Cantone. La lettera cita tre fattori scatenanti. Il primo è “un grosso [doppio sic] aumento di allievi stranieri” che “si integrano nelle nostre scuole e contribuiscono all’arricchimento culturale”, ma che “hanno bisogno di un’attenzione particolare”. Il secondo è relativo ad una modifica dei programmi, che sono effettivamente cambiati, ma per colmo di sventura l’ultima revisione risale a diciotto anni fa. Il terzo, infine, parte da un presunto disorientamento di alcune famiglie sui metodi di educazione dei figli e sul modo di affrontare problemi particolari, che causano “un aumento di bambini con difficoltà di adattamento, di comportamento, di educazione che non sono facilmente gestibili in classe”.
Naturalmente Diego Erba, direttore della Divisione della scuola del DIC, a precisa domanda postagli da non so più quale quotidiano ticinese, ha precisato che la media cantonale di allievi per classe è attestata attorno a venti, facendo finta di non sapere che in giro per il Cantone vi sono sezioni ridotte all’osso, mentre le classi di 24 o 25 sono assai copiose, indipendentemente dalle qualità specifiche delle popolazioni scolastiche locali. Giocare a rimpiattino col numero massimo di allievi per classe è, in fondo, un modo poco raffinato per evitare il nocciolo della questione, che risiede in parte in ciò che la scuola elementare dovrebbe insegnare e in parte nella stessa struttura organizzativa della scuola, ancor sempre basata sul trinomio «un maestro, un’aula, una classe». Cerchiamo di capirci: non è vero, per cominciare, che esiste un numero adeguato di scolari per far scuola (bene), ma ne esistono più d’uno. Un dettato può essere assegnato indifferentemente a tre o a trenta allievi, così come il numero di allievi è irrilevante per ascoltare una storia raccontata dal maestro o per seguire un documentario. Viceversa, aiutare un allievo in difficoltà a superare un ostacolo linguistico o matematico presuppone un impegno più individualizzato.
Oltre a ciò il numero di allievi per classe rappresenta una media, che come tale dice tutto e tace su tutto. Ad esempio, in un istituto di duecento allievi potremmo avere sette sezioni più che adeguate – 17/18 allievi per classe – e tre sezioni numericamente spropositate. Far fronte al problema ritoccando il numero massimo di allievi per classe, invece, si traduce in un assurdo aumento dei costi, in un’altrettanto insensata diminuzione del numero minimo di allievi e, soprattutto, assicura che si continuerà sulla strada dell’omologazione delle pratiche pedagogiche odierne, anche laddove la realtà contraddice platealmente talune enunciazioni di principio.
Nel caso dell’esempio appena citato, quindi, basterebbe che i maestri collaborassero concretamente tra loro – e con i loro colleghi che insegnano le cosiddette materie speciali – per far variare il numero di allievi, adattandolo alle necessità sostanziali e considerando di volta in volta che certe pratiche presuppongono gruppi di allievi omogenei, altre danno risultati migliori grazie all’interazione tra competenze e capacità molto diverse, e altre ancora sono basate sul lavoro individuale di ogni singolo allievo. La rivendicazione che parte stavolta da Arbedo-Castione e vien fatta propria dal Risveglio – che in tal modo fa stucchevolmente suo un tema che fino a ieri era peculiare alla sinistra – rischia unicamente di lasciar sul campo di battaglia qualche morto e qualche ferito, senza riuscire a intaccare minimamente la qualità della scuola: in realtà per guarire dalla grippe, non sempre la soluzione ideale sta nel primo medicamento che salta in mente.

Scuola, istruzione ed educazione

Ammetto che il “Giornale del Popolo” non fa parte delle mie letture preferite, soprattutto da quando Giuseppe Zois lo dirige con piglio curiale. Però ogni tanto mi trastullo sfogliandolo, non fosse che per informarmi su quanto passa il convento del cattolicesimo accreditato. È così che sabato scorso sono incappato, in prima pagina, su un editoriale del direttore, che ha attirato immediatamente la mia attenzione con un titolo accattivante: “Cambiare registro culturale”. Toh, mi sono detto: vuoi vedere che la Santa Romana Chiesa è diventata abortista o che il Papa ha deciso di consentire il matrimonio ai preti e alle suore? Insomma, “culturale” è una parola di peso, per cui un lettore – seppur distratto come lo posso essere io – si aspetta stravolgimenti tali da incidere non solo sul popolo dei cattolici, ma sull’intera società civile.
Delusione annunciata, invece, perché il “registro culturale” di cui si parla – un po’ a sproposito, a dire il vero – è di tutt’altra pasta. Commentando i fatti di Erfurt, dove un giovane espulso dalla scuola ha fatto strage dei suoi (ex) insegnanti, Zois se la prende con “l’atmosfera che respiriamo e che avvelena soprattutto le nuove generazioni”: l’atmosfera sarebbe poi quella delle scene di violenza che i ragazzi vedono per anni e anni, dalla televisione ai videogiochi, e che possono trasformare in un batter d’occhio ogni innocuo adolescente in un giustiziere assetato di sangue.
La tesi, ovviamente, non è nuova, né originale. È dai tempi della diffusione massificata della televisione e degli audiovisivi in genere che una parte del mondo se la prende con la televisione, che induce all’ozio e all’indolenza, mentre istilla inesorabilmente il virus della violenza. Fin qui, dunque, nulla di nuovo, nessuno stravolgimento del “registro culturale”. Si trattasse solo del fatto che il direttore del GdP si serve di un caso drammatico, ma del tutto eccezionale, per farne una parabola e buttar lì il suo predicozzo contro la perniciosa vacuità di certi programmi, il suo editoriale non meriterebbe neanche un’energica scrollata di capo, tanto l’assunto è scontato. Ma Zois non si lascia sfuggire l’occasione per sparare sulla scuola, e sintetizzando alla carlona un paio di conferenze pubbliche, sciorina in cinque righe la sua riforma: “La scuola dovrebbe essere sempre di più anche un luogo che educa a diventare cittadini, a controllare i propri impulsi, ad ascoltare le emozioni e non soltanto aule dove si apprendono delle materie di studio, delle nozioni”. E conclude: “Ci vorranno sempre di più delle competenze psicologiche e ciascun docente dovrà anche essere un buon comunicatore”. Giuro che non ho riassunto nulla e che Zois ha scritto proprio e solo queste parole.
Si potrebbe argomentare a lungo sulla contrapposizione tra Educazione e Istruzione, magari per concludere che la Scuola potrebbe far bene entrambe le cose. Numerosi studiosi, un po’ in tutta Europa, sostengono da anni che i sistemi scolastici dovrebbero preoccuparsi dell’educazione alla cittadinanza e alla pace, invece che incenerire gran parte delle loro energie sull’altare della selezione scolastica più bieca. Ma Zois dovrebbe anche sapere che la strada che porta a questa scuola nuova è tutta in salita: non certo per colpa degli insegnanti o della burocrazia scolastica, tenuto conto che, almeno sino ad oggi, è tutto il sistema educativo ad essere costruito all’insegna della concorrenza spietata e dell’edonismo smodato. Il fallito tentativo di riforma del liceo francese, definitivamente affossato un paio d’anni fa dagli alti ufficiali della politica prima ancora che giungesse in Parlamento, la dice lunga sugli ostacoli che costellano la strada di quella scuola nuova di cui si parla da quasi un secolo.
Purtroppo, invece, la struttura stessa della scuola di oggi è ancora intrisa di cattolicesimo, tanta è la somiglianza tra i maestri di oggi, chiusi nelle loro aule alle prese con programmi desueti, e i chierici d’un tempo. E, d’altra parte, anche i cattolici nostrani potrebbero dare il buon esempio ed indicare la via maestra: potrebbero smettere di dar le note agli allievi che si iscrivono alle loro lezioni; potrebbero rinunciare al catechismo a favore dell’ecumenismo; meglio ancora, potrebbero mollare quell’ora settimanale di privilegio e collaborare con l’Associazione per la scuola pubblica per realizzare il progetto di Educazione al fenomeno religioso. A quel punto non saremmo al riparo dai pazzi, ma avremmo compiuto un perentorio passo avanti.