Archivi categoria: Attualità

Per un codice deontologico del sistema scolastico

L’articolo evidenzia l’assenza di una cornice etica condivisa nel sistema scolastico, dove la sovrabbondanza di contenuti – per lo più tradizionali e riproduttori dei sistemi scolastici precedenti – e una selezione costante ma poco dichiarata ostacolano la crescita etica e civile. Serve ripensare il ruolo della scuola come spazio di responsabilità, non solo di trasmissione culturale.

Con poche modifiche – tra cui le citazioni in francese, qui non tradotte in italiano – questo articolo fa parte del volume Un’etica per la scuola. Verso un codice deontologico dell’insegnante (a cura di Marcello Ostinelli e Michele Mainardi, 2016, Roma: Carocci editore). Il volume raccoglie e riordina gli interventi dell’omonimo convegno di studio del 25 novembre 2015 (qui il programma, di cui avevo pure parlato in un articolo pubblicato sul Corriere del Ticino del 15 dicembre 2015, Un’etica per la scuola e una deontologia per gli insegnanti).

Lo ripropongo qui, quasi 10 anni dopo, poiché ritengo che continui a essere un testo attuale, così come tutti i contributi del volume, di cui sono stati autori Marcello Ostinelli, Michele Mainardi, Eirick Prairat, Silvano Tagliagambe, Fabio Merlini e Giorgio Ostinelli: naturalmente con l’invito a leggere il libro nella sua interezza – senza scordare la riflessione di Dick Marti (1945-2023), che intervenne al convegno del 2015 e di cui, purtroppo, il libro dell’anno successivo non ha riportato il contributo.

☆☆☆

Nel 1803 il Ticino era entrato a far parte della Confederazione e, l’anno dopo, il Gran Consiglio Ticinese aveva varato la prima Legge sulla scuola, che generalizzava una pratica già presente in diverse zone del Cantone, rendendola però obbligatoria.

L’articolo 1 specificava che In ogni Comune vi sarà una Scuola, ove s’insegnerà almeno  leggere, e scrivere, ed i principj di aritmetica. L’articolo 4 – l’ultimo – serviva a rendere operativa la Legge: Le Municipalità per l’adempimento della presente legge sono autorizzate a costringere con multe pecuniarie le persone contemplate nell’art. secondo (padri di famiglia, tutori e curatori, che sono obbligati a mandare i loro figlj, e minorenni alla Scuola). Tali multe non potranno oltrepassare la somma di franchi dieci all’anno, e saranno versate nella cassa de’ poveri, ove esiste la Scuola.

Naturalmente l’approvazione della Legge non fu un giochetto da ragazzi, come diremmo oggi, anche se i tempi furono più rapidi di quelli un po’ biblici ai quali ci siamo nel frattempo abituati. Il progetto di legge – riportano i verbali del Gran Consiglio dell’epoca – è del maggio 1804, e il Gran Consiglio ne prese atto (Progetti e messaggi sul Burò). Il 22 maggio ci fu un primo esame: Si fa lettura del progetto di legge rimasto sul Burò, sull’erezione di una Scuola in ogni Comune per insegnare a leggere e a scrivere. Rilettosi articolo per articolo dopo qualche discussione il Gran Consiglio lo ha rigettato. Il mese successivo l’Esecutivo lo risistemò e, il giorno stesso, il parlamento lo approvò: Si fa lettura d’un progetto del Piccolo Consiglio del 4 giugno 1804, sull’erezione di una scuola elementare in ogni comune. Dichiaratane l’urgenza, il Gran Consiglio lo ha accettato.

È curiosa, storicamente, la rapidità con cui una legge così importante – importante con gli occhi di oggi – era finita in parlamento due volte nell’arco di un mese. Ma c’è un’altra piccola curiosità, anche se c’entra poco, che restituisce però un certo spirito dell’epoca. Durante la stessa seduta il parlamento aveva preso atto «dell’avvenimento al Trono imperiale di Francia nella persona del primo Console Bonaparte. Sentito il riscontro, che il Piccolo Consiglio ha dato al Landamano della Svizzera su tale comunicazione, il Gran Consiglio ne ha esternata la sua approvazione». Per farla breve, penso che si può essere d’accordo nel dire che la politica dell’epoca, malgrado tutto, aveva preso una decisione saggia.

C’è però qualcosa che accomuna le discussioni di oggi con quelle di 200 anni fa. Non si può sorvolare sul fatto che l’istituzione dell’ob­bli­ga­torietà scolastica In ogni Comune, ove s’insegnerà almeno  leggere, e scrivere, ed i principj di aritmetica faceva strame di certo utilitarismo mai sopito: intanto, fin lì, a frequentar la scuola erano per lo più i maschi. Secondariamente era pressoché logica l’irritazione di gran parte del mondo contadino, visto che si poteva andar per monti e campi e occuparsi del bestiame senza bisogno di conoscere principj di aritmetica e, addirittura, di saper leggere e scrivere. Cos’abbia prodotto quella legge coraggiosa, e tante altre che son venute dopo, è comunque indubbio.

La Legge della scuola attualmente in vigore è stata votata dal parlamento il 1° febbraio 1990. La data di nascita, di per sé, dice poco. In realtà essa aveva mosso i suoi primi passi negli anni ’70, con l’iniziale denominazione di Statuto giuridico del docente: per dire che, all’inizio, le inquietudini erano altre. L’influenza del ’68 era ancora marcata, malgrado gli anni di piombo e la prima crisi energetica del ’73. Oltre a ciò, nel 1974 era stata formalmente istituita la scuola media, che avrebbe cambiato radicalmente il sistema scolastico e culturale ticinese, con l’abolizione del vecchio crocevia al termine della scuola elementare: di qua la scuola maggiore di tre anni, per quelli che oggi sceglierebbero un apprendistato; di là il ginnasio di cinque, per chi invece avrebbe tentato il liceo e l’università. Va da sé che, nel frattempo, il contesto storico è cambiato e che già negli anni ’60 il ginnasio, nei centri in cui esisteva, era diventato una scuola di massa.

Nel 1974, dopo un dibattito accesissimo, nacque dunque la scuola media, che sarebbe stata generalizzata a partire dall’anno scolastico 78/79 nel Locarnese. Ma per farla nascere era stato necessario, alle forze progressiste dell’epoca, cedere «qualcosa» ai contrari: i famigerati livelli A e B, che in mezzo a mille cambiamenti persistono ancor oggi, seppur con sembianze apparentemente più smorzate.

Mi si conceda una testimonianza del tutto personale. Gli allievi della mia prima classe di scuola elementare, che mi fu affidata nel ’74, avrebbero frequentato a partire dal 1978 la nuova scuola media, scongiurando in tal modo la tradizionale scelta tra scuola maggiore e ginnasio. In quell’anno noi maestri di allievi di 5ª ricevemmo montagne di rassicurazioni sul trattamento che la nuova scuola media avrebbe riservato anche a chi fin lì avrebbe frequentato scuole diverse. In particolare, et pour cause, ci fu garantito che la nuova scuola avrebbe preso contatto con noi, maestri che per la prima volta non dovevamo «orientare» arbitrariamente i nostri alievi sulla scelta della scuola da frequentare. Dato che, in autunno, dalla scuola media nessuno si era fatto vivo, chiesi un appuntamento e potei incontrare i docenti dei miei ormai ex allievi. Ricordo una riunione spiacevole. Io parlavo, ma pochi erano interessati ai miei timori e alle mie preoccupazioni. Verso la fine saltò su il professore di educazione musicale, che mi disse e mi chiese: «Se fossimo stati in regime di scuola maggiore e ginnasio, chi avresti consigliato di iscriversi all’una o all’altra scuola?». Convengo: come una rondine non fa primavera, così una domanda imbecille non fa statistica e non diventa regola. La storia, nondimeno, racconta che la Scuola media istituita nel 1974 è rimasta più conforme al modello precedente di quel che si possa pensare.

La Legge della scuola del 1990, che, come detto, ha radici in quella stagione di speranze e utopie che fu il Sessantotto, fissava delle finalità che si rifacevano per tanti versi a ideali umanisti, liberali e pacifisti. Il progetto politico dello Stato è tutto sommato molto chiaro: la scuola è [ancora] al servizio dello Stato e del paese nell’intento di formare dei cittadini in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà. In altre parole potremmo dire che la Legge scolastica del ’90 si poneva sulla stessa linea dinastica di una scuola dell’obbligo al servizio dello Stato. Si tenga tuttavia conto che, neanche tre mesi prima, era caduto il muro di Berlino, con tutte le ripercussioni che conosciamo. Per dare qualche altro punto di riferimento, il 24 gennaio dell’84 era nato Macintosh, un computer destinato a cambiare il mondo. E in quegli stessi anni nasceva pure la televisione com­merciale, che, per il nostro cantone, significava, in particolare, le reti del gruppo Fininvest del Cavaliere, sdoganate dal governo Craxi tra l’84 e l’85, affinché le televisioni private potessero continuare a trasmettere su tutto il territorio nazionale italiano: e, naturalmente, anche da noi.

A questo punto, e considerato il quadro istituzionale, è indubbio che qualsiasi codice deontologico che intende rifarsi a un’etica per la scuola deve adoperarsi affinché le sue regole non debbano ricadere in maniera pressoché unidirezionale sulle spalle di chi è «al fronte», vale a dire gli insegnanti per primi. Vediamo un esempio concreto. Il Codice deontologico del mestiere di formatore e di formatrice (Meirieu, 2013) è costruito attorno a tre capitoli e ventun articoli. I tre capitoli sono così concepiti:

  1. Le formateur doit considérer chaque apprenant comme un sujet.
  2. Le formateur doit être le garant de la structuration du collectif apprenant.
  3. Le formateur doit interroger en permanence les savoirs qu’il transmet et les méthodes qu’il utilise.

Si nota immediatamente che il soggetto è sempre il formatore, che, sempre per esemplificare, sarà conseguentemente tenuto a reconnaître chacun des apprenants dans sa singularité: son histoire, ses représentations, ses valeurs, ses stratégies d’apprentissage, ses acquis et ses projets (art. 1); a s’attacher à formuler les consignes nécessaires au bon déroulement du travail avec la plus grande clarté et précision, en vérifiant leur assimilation par tous (art. 13); e a construire des évaluations qui permettent à l’apprenant de se situer dans ses apprentissages et de progresser en identifiant ce qu’il a appris, le chemin parcouru et ce qu’il lui reste à apprendre (art. 20).

È importante, dunque, che l’etica per la scuola non possa essere circoscritta a una deontologia dei formatori. Per contro è inevitabile – e dovuto – che ogni scelta che riguarda l’etica della scuola, con particolare attenzione alla scuola dell’obbligo, e la sua declinazione più tangibile – la deontologia – sia concepita e realizzata in modo da tener conto dell’intero sistema scolastico, considerando che vi sono, all’apice della piramide, scelte politiche e organizzative dall’impatto etico e deontologico fondamentale e irrinunciabile. Semplificando, ma neanche troppo: le scelte fondatrici dello Stato devono potersi realizzare dentro le aule scolastiche senza troppi margini interpretativi riguardo alle finalità. Purtroppo il lungo e tortuoso viaggio dell’idea di scolarizzare obbligatoriamente i futuri cittadini da un’età data, affinché, come recita la Legge della scuola ancor oggi in vigore, si promuova lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà, non porta necessariamente alla destinazione ipotizzata, mantenendo intatti e coerenti con i principi dichiarati in partenza.

Ne consegue che pensare un Codice deontologico degli insegnanti senza tener conto della complessità del sistema e delle molte tentazioni che s’incontrano lungo il percorso significa creare un (fin troppo facile) capro espiatorio di ogni fallimento, seppur parziale.

John Dewey (1859-1952), autore, tra tanti, di numerosi testi sui temi dell’etica, della libertà, della democrazia: Il mio credo pedagogico (1897), Scuola e società (1899), Democrazia e educazione (1916), Esperienza e educazione (1938).

I primi due articoli della nostra Legge della scuola (Definizione e Finalità) rappresentano di per sé un progetto di cittadinanza – un progetto politico – di ampio respiro, che indica obiettivi elevati per i singoli individui e per l’intera società.

L’attuale Magna Charta che definisce i confini istituzionali del nostro sistema scolastico è indubitabilmente datata. Essa nasce in un contesto completamente diverso rispetto a quello in cui esplica oggi la sua azione. Al di là della giusta preoccupazione di dotare il Paese di uno strumento legislativo per adattare «la funzione della scuola in una società in rapida trasformazione» [Messaggio N° 3200 del Consiglio di Stato al Parlamento, del 30.06.1987], è pur necessario, come detto, sottolineare che i primi passi verso questa legge risalgono ai primi anni ’70 del secolo scorso: ci sarebbero voluti quasi vent’anni per l’approvazione e, nel frattempo, ne sono trascorsi altri venti e passa. Ciononostante il quadro giuridico che detta le regole fondamentali – mentre le direttive più mirate sono disseminate in un nugolo di leggi settoriali, regolamenti, decreti, disposizioni e pratiche non scritte – è rimasto più o meno immutato, sebbene la società ticinese di questi primi anni del XXI secolo sia (anch’essa) profondamente cambiata: si pensi, tanto per evocare qualche contesto che ha pesato più di altri sulla «rapida trasformazione», all’esplosione delle tecnologie dell’in­formazione e della comunicazione, al profondo mutamento delle caratteristiche della popolazione residente, alla globalizzazione e al nuovo assetto economico e finanziario, alla diversa struttura del mondo del lavoro.

È difficile dire se, nei cinque lustri trascorsi, qualcuno si sia dato la briga di verificare la coerenza tra questi principi fondatori e l’applicazione concreta nella scuola di tutti i giorni – e, in caso di constatazione problematica o negativa, cosa sia stato messo in atto per correggere il tiro. Di certo il cammino della scuola è stato toccato da  un subisso di piccole e grandi riforme, a volte veri e propri cambiamenti, almeno sul piano organizzativo e legislativo; altre «semplici» ritocchi di testi esistenti. Nel frattempo abbiamo imboccato HarmoS, l’accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria. Ma alcuni indizi permettono di credere che, qua e là, possano sorgere palesi contraddizioni tra il progetto iniziale e la realtà. Si pensi, per citare qualche caso, al dibattito sull’educazione alla cittadinanza, alle elevate percentuali di allievi che, nella scuola media, non raggiungono i criteri per il passaggio diretto alla scuola media superiore, ai tassi appariscenti di bocciatura durante il primo biennio del liceo, al sovraccarico sempre più marcato dei servizi di sostegno pedagogico, alla richiesta di psicologi e tutori per puntellare insegnanti in difficoltà.

D’altra parte già nel 1996 Norberto Bottani sottolineava come potesse essere «indecoroso continuare ad infierire sulle prestazioni dei sistemi scolastici nell’ambito conoscitivo», tenuto conto di quattro obiettivi generici «collegati alle principali funzioni dei sistemi scolastici, ossia (Bottani, 1997):

  • obiettivi conoscitivi, connessi alla trasmissione di un corpo di conoscenze, che per comodo chiamerei scolastiche e, nei casi migliori, di un sapere e di una cultura;
  • obiettivi di socializzazione, intesi come la costituzione di organizzazioni educative allo scopo di conservare e rafforzare non solo le strutture e i meccanismi delle istituzioni sociali, ma soprattutto di fare assimilare, mediante i riti scolastici, i principi razionali su cui si fonda ogni tipo di organizzazione burocratica (…);
  • obiettivi politico-culturali, che impongono modalità socialmente e legalmente riconosciute di appropriazione dei discorsi e dunque dei saperi e dei poteri che questi discorsi veicolano (…);
  • obiettivi burocratici-amministrativi, ossia la crescita autopoietica dei sistemi scolastici secondo principi di sviluppo autoreferenziali».

Lo stesso Bottani riconosceva efficienza e funzionalità nell’ambito degli obiettivi di socializzazione e rimandava invece ad altri autori per la comprova dei restanti due obiettivi: «Anticipo subito che non svolgerò la stessa operazione per i due obiettivi restanti – quello politico-culturale e quello burocratico-amministrativo –, ma posso anche affermare che in entrambi i casi si ha la comprova di una notevole efficienza dei sistemi scolastici. La funzionalità dei sistemi scolastici come dispositivi regolatori delle modalità di appropriazione dei discorsi è stata spiegata da Foucault nella sua celeberrima lezione inaugurale al Collège de France il 2 dicembre 1970. Illich, Dupuy, Dumouchel, Luhman e Varela hanno invece dimostrato la straordinaria capacità autopoietica dei servizi sociali e quindi anche di quelli scolastici»(ibid.).

In un suo recente saggio Philippe Perrenoud si sofferma sulle contraddizioni di un sistema scolastico che pretenderebbe addirittura di «preparare alla vita» (Perrenoud, 2011). Sappiamo che negli ultimi trenta o quarant’anni si sono affacciati a livello di scelte curricolari almeno due diversi approcci, che hanno marcato e marcano ancor oggi il dibattito, senza in realtà esser giunti a una conclusione concreta ed efficace. Vi è stato dapprima il passaggio dalle nozioni al primato dell’imparare a imparare come alternativa al vecchio nozionismo e alla classificazione degli allievi. Ma, come ha osservato Philippe Meirieu, non è possibile imparare basando l’appren­di­mento sul nulla: «À la Sorbonne, devant un parterre de milliers d’inspecteurs, on a même entendu un ministre proclamer avec la foi du nouveau converti qu’il faut désormais, à l’école, “apprendre à apprendre”… Il n’ignore sûrement pas que cette idée date de Montaigne et du Ratio studiorum (texte fondateur de la pédagogie jésuite dont la version définitive parut en 1599), qu’elle est développée depuis plus d’un siècle par les militants pédagogiques de l’Éducation nouvelle… Il n’est pas non plus sans savoir que cette même formule est précisément remise en question par de très nombreux chercheurs qui constatent la difficulté à acquérir une méthode indépendamment de son contenu. Mais tout est bon, en matière éducative, pour donner le sentiment à la population que l’on fait quelque chose. Imaginerait-on un ministre de la Santé, devant les meilleurs spécialistes des traitements les plus sophistiqués, faire l’éloge de la saignée?» (Meirieu e Guiraud, 1997).

Nell’ultimo decennio la riflessione si è spostata sul tema delle competenze, la cui definizione è ancora in attesa di un’applicazione pragmatica, ciò che crea tuttavia molteplici confusioni tra gli insegnanti, soprattutto considerando che le norme attuali prevedono ancora una valutazione disciplinare a livello sommativo e almeno annuale. Una definizione di competenza abbastanza diffusa e ammessa e quella secondo cui essa è la capacità di affrontare un problema complesso o di svolgere un’attività complessa; o, ancora, che una competenza  comprende diverse componenti che si possono riassumere nella ormai classica triade dei saperi, delle capacità e degli atteggiamenti. Perrenoud, dal canto suo, definisce la competenza come «un pouvoir d’agir dans une famille de situations» (Perrenoud, 2011).

Per il nostro discorso è però di grande interesse, competenze o meno, constatare quanti e quali siano gli insegnamenti, le educazioni e le omissioni della scuola di oggi. Perrenoud, nel lavoro citato, ne fa un elenco sufficientemente completo:

Discipline centrate su un campo del sapere Educazioni Discipline assenti dall’insegnamento obbligatorio
La biologia

La chimica

La fisica

La matematica

La letteratura

La filosofia

La storia

La geografia

L’informatica

La lingua “materna”

Le lingue seconde

L’educazione fisica

L’educazione musicale

L’educazione artistica

L’educazione pratica

L’educazione ai mass-media

L’educazione alla salute

L’educazione sessuale

L’educazione interculturale

L’educazione tecnologica

L’educazione allo sviluppo sostenibile

L’educazione religiosa

L’educazione non sessista

L’educazione morale e/o etica

La psicologia e la psicanalisi

La sociologia

Le scienze politiche

Le scienze economiche

Il diritto

La criminologia

L’architettura e l’urbanistica

Il riferimento è alla situazione romanda. È però evidente che vi sono chiare analogie con la nostra scuola dell’obbligo, dove, ad esempio, fa capolino l’educazione stradale, mentre altre «educazioni» non sono formalizzate, anche se compaiono spesso nell’ambito di altre discipline… È interessante notare, seguendo la riflessione del sociologo ginevrino, come una parte delle discipline affondi le sue radici nella tradizione, mentre altre si sono installate nel tempo attraverso canali istituzionali diversi, solitamente per rispondere a nuovi problemi o a richieste provenienti da contesti disparati.

Due, tuttavia, sembrano le variabili che più di altre concorrono a garantire una stabile fissità:

  • il potere delle lobby disciplinari, che determinano il «valore» di ogni disciplina all’interno dell’orario settimanale, attraverso la quantificazione delle ore disponibili e l’incidenza sul piano della selezione scolastica;
  • il livello propedeutico dei contenuti disciplinari, che è spendibile in prospettiva e che genera la pressione del settore scolastico successivo su quello che lo precede (l’università sul liceo, il liceo sulla scuola media, …).

Non si tratta certo di una scelta organizzativa di cui sia interamente responsabile il corpo insegnante, dal momento che anche l’opzione politica prevede sin dall’istituzione della scuola media il titolo accademico nella disciplina, accompagnato dall’abilitazione all’insegnamento. A ciò si aggiunga il ruolo degli esperti di materia, che ovviamente provengono dalle discipline e concorrono in definitiva a creare e consolidare le diverse lobby disciplinari e a esercitare pressioni a più livelli, partendo da quello politico.

È invece più difficile dire quale sia la situazione generale, a questo livello, nella scuola elementare. Un certo disciplinarismo, ancorché poco dichiarato e pubblicizzato, è esistito anche lungo tutta la fase storica che ha contraddistinto il post ’68 e che era poi confluito nei programmi della scuola elementare del 1984. Basti pensare all’evoluzione che ha avuto negli anni il concetto di «Studio dell’ambiente». Nel programma ad uso delle classi sperimentali, a metà egli anni ’80, vi era un implicito riferimento alle teorie dello storico e filosofo della pedagogia Arnould Clausse (Clausse, 1964): «L’ambiente non è solo la realtà oggettiva, spaziale o fisica, ma l’insieme dei significati che l’esperienza compiuta dal bambino assume per lui. L’ambiente non si limita quindi al solo aspetto naturalistico, all’aspetto economico-sociale oppure ai loro rapporti reciproci, ma supera gli aspetti “oggettivi” (separati od isolati in discipline oppure allargati a settori più ampi) e si definisce come l’insieme di impressioni, sentimenti, percezioni, concezioni, ipotesi, conoscenze soggettive o parzialmente oggettive della realtà elaborate dal fanciullo». La versione dei programmi poi formalmente istituita dal Consiglio di Stato è già più sfumata: «L’attività didattica dovrebbe riferirsi quanto più possibile all’ambiente, consentendo così agli allievi di avvertire l’utilità e la concretezza di quanto apprendono. L’ambiente a cui si è pensato elaborando il curricolo elementare non va ridotto al luogo in cui gli allievi abitano e la scuola ha sede. Esso è innanzi tutto ambiente culturale e umano, fatto di linguaggi, valori, tradizioni, norme, realizzazioni tecniche: l’esperienza che l’allievo ne ha fatto nel corso della vita gli ha fornito i primi elementi di cultura».Infine il regolamento della Legge sulla scuola dell’in­fanzia e sulla scuola elementare (1996) stabilisce che un obiettivo importante della scuola fuori sede è quello di «conoscere un ambiente particolare, studiandone le caratteristiche geografiche, storiche, naturalistiche, nonché le realizzazioni dell’uomo».

Ma altri segnali sono fonte di preoccupazioni, come ad esempio la recentissima introduzione, nella scuola elementare, della valutazione sommativa intermedia, disciplina per disciplina, che interviene dopo le vacanze di Natale e che è espressa con una scala ordinale di aggettivi al posto delle più tradizionali note, che sono assegnate invece al termine dell’anno scolastico.

Ne esce, rafforzata, l’ipotesi che vuole la scuola obbligatoria al servizio di talune élite, manifestamente confezionata per gli allievi «destinati» a proseguire e terminare studi u­ni­versitari. Ha annotato il sociologo François Dubet: «Se dovessi fare una critica al sistema scolastico, direi che è, contemporaneamente, troppo e troppo poco strumentale. È troppo e troppo poco scolastico. Prendo in particolare, come esempio, il modo in cui viene selezionata l’élite scolastica, che è sempre più specialistico e che si fonda sulle scienze e la matematica. Questa élite non sarà formata da scienziati e matematici, ma da individui selezionati da quelle discipline ridotte alla loro sola funzione di selezione. In altre parole, in un gran numero di casi le discipline perdono completamente la loro dimensione educativa per diventare semplicemente delle chiavi d’accesso a determinate condizioni sociali» (Dubet, 2002). Lo stesso autore mette inoltre in evidenza come la scuola, col passaggio all’educazione di massa (democratizzazione) si sia assunto il ruolo selezionistico che prima era svolto dalla società: «Ovviamente, la selezione si applica a tutti gli allievi, ma il dato è che essa risulta più clemente verso i ragazzi degli ambienti avvantaggiati. Nel 1950 un figlio d’operaio poteva pensare: “Gli studi di lunga durata non fanno per me, a meno che io non sia particolarmente dotato”. Oggi, invece, può dire: “Gli studi di lunga durata fanno per me”, ma rischia di dover scoprire a sue spese che ciò non è vero. È a questo punto che è possibile osservare una sorta di dispersivo frazionarsi delle gerarchie fra discipline, canali formativi e tipo d’istituto proprio perché il sistema stesso diventa autore della selezione. È possibile naturalmente pensare che i politici hanno lasciato che questo accadesse con una certa leggerezza. Ma poteva essere altrimenti?»

In tutto questo bailamme di difficoltà e di dibattito continuo non mancano, a scadenze più o meno regolari, le soluzioni miracolose, proposte praticamente da sempre come condizioni irrinunciabili per garantire una scuola equa, attenta ai bisogni di tutti, ma proprio tutti: quasi che una cattiva pratica o un’incapacità palese possa essere risolta con riforme strutturali, quali l’ennesima diminuzione del numero di allievi per classe. O come quell’altra, partita come iniziativa popolare per istituire una nuova disciplina a sé stante – «Educhiamo i giovani alla cittadinanza» – come se fosse utile studiare la civica sui libri prima che viverla quotidianamente tra i banchi, a confronto con l’oligarchia della scuola e l’autocrazia dell’insegnante.

È piuttosto evidente che i meccanismi di selezione, non necessariamente accompagnati da un adeguato impianto pedagogico, da scelte didattiche all’altezza e da strumenti di valutazione non sempre (quasi mai!) molto calibrati, si trovano un po’ in tutti i gradi e settori scolastici, nonostante il richiamo regolare alla valutazione formativa. Il passaggio alla scuola media, nella quale sono confluiti, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, i Professori del ginnasio e i Maestri della scuola maggiore, ha de facto riprodotto il modello ginnasiale sul piano dell’organizzazione dell’insegnamento, al quale si sono ben presto adeguati tanti docenti provenienti dalla scuola maggiore. Ma, di per sé, è la struttura essenziale della scuola dell’obbligo che scricchiola sempre più e che offre facili occasioni per riprodurre all’infinito storici squilibri generati dall’origine socio-economica e culturale, con un’ostinazione quasi atavica a privilegiare la valutazione e la classificazione degli allievi a scapito dell’inse­gna­mento: «Attualmente lavorate 210 giorni di cui 30 sciupati negli esami e un’altra trentina nei compiti in classe. Restano 150 giorni di scuola. Metà dell’ora la sciupate a interrogare e fa 75 giorni di scuola contro 135 di processo. […] Durante i compiti in classe lei passava tra i banchi, mi vedeva in difficoltà o sbagliare e non diceva nulla. Io in quelle condizioni sono anche a casa. Nessuno cui rivolgermi per chilometri intorno. Non un libro di più. Non il telefono. Ora invece siamo a “scuola”. Sono venuto apposta, di lontano. Non c’è la mamma, che ha promesso che starà zitta e poi mi interrompe cento volte. Non c’è il bambino della mia sorella che ha bisogno d’aiuto per i compiti. C’è silenzio, una bella luce, un banco tutto per me. E lì, ritta a due passi, c’è lei [la professoressa]. Sa le cose. È pagata per aiutarmi. E invece perde il tempo a sorvegliarmi come un ladro» (Milani, 1976). Dati quantitativi a parte, potrebbe essere spassoso riscrivere il paragrafo, adattandolo alla nostra attualità: perché «lui» o «lei», troppo spesso, sarebbero ancor lì a tenerci d’occhio come furfanti.

Non da ultimo non si possono trascurare alcuni timori legati all’introduzione di HarmoS, con la ridefinizione dei programmi – ridefinizione che procede per competenze trasversali e per discipline –, l’anticipo dell’inizio dell’obbligo scolastico a quattro anni, la definizione, quindi, di nuovi programmi per la fascia 4-5 anni e il rischio che, sin dai quattro anni, si formalizzi qualche forma di valutazione/selezione. E ben altri azzardi si possono immaginare, quale, ad esempio, l’ap­pa­ri­zio­ne di nuove figure all’interno della scuola e dei suoi meccanismi selettivi. Il timore, insomma, è che non solo la scuola pubblica e obbligatoria continui a fungere da filtro per gli allievi che potranno accedere a studi universitari, con evidente connotazioni socio-economiche e culturali e già a partire dalla bella età di quattro anni; ma che questa finalità non scritta da nessuna parte – un’opinione come un’altra, più che una scelta politica condivisa da una maggioranza parlamentare – anticipi i suoi tempi di realizzazione.

Oggi si parla spesso di utilitarismo e di spendibilità di ciò che si impara a scuola. Semplificando: la scuola è utile se insegna delle cose che servono – sapere, saper essere, saper fare – o, più modernamente, delle competenze, soprattutto quando la scuola pretende di preparare alla vita. Si potrebbero portare molti esempi per illustrare l’ambiguità tra una concezione della scuola per formare cittadini o per preparare lavoratori, cioè meri soggetti economici. Ma è abbastanza evidente che, in questi primi scorsi del XXI secolo, la società tende a privilegiare una concezione utilitaristica della scuola, demandando ad altri – ma non è chiaro chi siano questi altri – il compito di Educare i futuri cittadini allo stato di diritto e alla democrazia: in altre parole, è difficile capire chi è tenuto a definire e trasmettere il complesso dei valori identitari e dell’etica. Tanto per evocare qualche “visione”, eccone una succinta collana spilluzzicata dalle cronache degli ultimi anni:

  • 2002, dibattito sulla politica delle lingue: il presidente della commissione scolastica del Gran Consiglio, dichiara a un domenicale: «Io credo che a decidere quali lingue si devono studiare a scuola non dovrebbe essere lo Stato né il Dipartimento, bensì la società, il mercato».
  • Campagna per le elezioni cantonali del 2005: un manipolo di giovani candidati al Parlamento pubblica un’inserzione sui quotidiani, dove campeggiano le loro foto del primo giorno di scuola. Sopra, un titolone: «Per una scuola sempre più giovane!»; di fianco, «W la scuola!», poi un florilegio di punti esclamativi per arrivare al dunque: loro sette, vorrebbero … portare un PC su tutti i banchi di scuola affinché gli scolari e gli studenti ticinesi possano utilizzarlo per l’apprendimento di quasi tutte le materie scolastiche». E spiegano che, tra le altre meraviglie prodotte dal PC, i giovani saranno più competitivi sul mercato del lavoro, contribuendo al rilancio economico delle nostre regioni
  • E ancora, campagna per le elezioni cantonali del 2011: un candidato scrive su un altro domenicale: «La scuola non potrà esimersi da un riorientamento nell’ottica di quelle che sono le richieste del mercato del lavoro. È evidente che le professioni “d’ufficio” sono sature. Mancano risorse nell’arti­gia­nato, nell’edilizia, nel sociosanitario. Altra misura necessaria: si metta il numero chiuso alle formazioni “letterarie” ed “artistiche” prive di sbocchi professionali».

La scuola che fa capolino da queste tesi non è quella voluta dal Parlamento nel 1990 e non è neanche una scuola in grado di rispondere ai bisogni elevati dei cittadini di uno stato moderno. In un testo di qualche anno fa (Tomasini, 2000) avevo già affrontato la questione, partendo da altri presupposti, e annotando tra l’altro che

«In nessun altro sistema sociale la realtà è tanto frammentata e diversificata come nella scuola; le norme variano a seconda della personalità dell’insegnante, del suo umore, della sua storia, della sua visione dell’esistenza, del suo credo pedagogico. Ogni insegnante, di conseguenza, ha una sua maniera di approvare e disapprovare, di rimproverare ed elogiare, di punire e gratificare. In altre parole, ognuno ha un suo personale codice per regolare i comportamenti dei suoi allievi. La totale arbitrarietà di una tale situazione è evidente, tanto più che il “codice penale” di ognuno né viene esplicitato al di fuori dell’aula scolastica, né è oggetto di dibattiti e riflessioni. Oltre a ciò, la sanzione – il castigo… – resta una delle armi più diffuse per raggiungere l’obiettivo della tranquillità personale, pur sapendo bene che raramente la punizione costituisce un mezzo adeguato per risolvere i problemi alla radice. Come scrive Ph. Meirieu, “La sanzione convalida sempre lo scarto rispetto alla norma ammessa [la norma individuale, N. d. A.], l’infrazione alla regola del gioco imposta. In questo senso, ha una funzione integrativa per eccellenza: si minaccia la punizione per sollecitare la sottomissione; si esegue la pena sperando di far rientrare nei ranghi il recalcitrante” (Meirieu, 1991).

Mettere il bambino al cuore dell’azione pedagogica significa anche affrontare quest’ordine di problemi, che, in ogni modo, non possono essere risolti né con nuove leggi e regolamenti, né con un aumento delle modalità di controllo da parte delle autorità scolastiche, giacché il nocciolo della questione sta altrove. Una soluzione normativa sarebbe avvilente per tutta la scuola; invece, e più correttamente, conviene riflettere sulla manifesta contraddizione tra necessità di stabilire una relazione armoniosa e positiva con ogni bambino da un lato, e l’etica della scuola dall’altro. Insomma: può la scuola estraniarsi dallo Stato di diritto per fondare una miriade di oscure dittature a sfondo oligarchico, dove né i bambini, né le loro famiglie, né – infine – i colleghi medesimi possono far valere i propri diritti e le proprie opinioni?»

In questo senso le preoccupazioni delle autorità politiche sono legittime e apprezzabili. Penso ad esempio a qualche chiara enunciazione dell’Accordo intercantonale HarmoS, come quando si dichiara che Durante la scuola obbligatoria, tutte le allieve e gli allievi acquisiscono e sviluppano le conoscenze e le competenze fondamentali, nonché l’identità culturale, che permettono loro di continuare ad imparare durante tutta la vita e di trovare il loro posto nella vita sociale e professionale. Tuttavia se si vuole evitare che gli impegni deontologici dell’istituzione ricadano per lo più nell’ambito delle responsabilità dei singoli insegnanti o dei loro strumenti istituzionali o sindacali, sarà sempre più urgente la necessità imprescindibile che le norme che regolano il funzionamento della scuola limitino o annullino ogni possibilità di parzialità o di ingiustizia. Il codice deontologico al quale deve attenersi ogni singolo insegnante deve quindi nascere da una scelta etica della scuola dello Stato: sul piano delle enunciazioni fondatrici e con un’altissima considerazione anche degli aspetti pragmatici.

È utile evidenziare che la condivisione di un codice deontologico degli insegnanti non può esimersi dall’affrontare la questione già a partire dalla formazione di base dei docenti. «La question de l’identité professionnelle, des valeurs, de l’éthique, du rapport à l’État était au centre du débat sur la formation des enseignants du temps des écoles normales et des institutions équivalentes pour l’enseignement secondaire. Si ces questions ont été éclipsées au cours des dernières décennies par le débat sur les compétences et les référentiels, peut-être n’est-ce pas sans lien avec le transfert de la formation des professeurs vers l’enseignement supérieur, les universités dans certains pays, les hautes écoles dans d’autres. En effet, dans l’enseignement supérieur, on est à l’aise avec les connaissances, les méthodes et globalement avec tous les apprentissages qui ne touchent pas à la personnalité, aux attitudes, aux valeurs et au rapport au monde des étudiants. L’université est censée s’adresser à des étudiants dont les préférences politiques, les idéologies, les manières de vivre sont très diverses. Les hautes écoles, dans la mesure où elles tendent à se rapprocher des universités ou à en devenir, manifestent la même prudence ou, si l’on préfère, le même respect des différences. Cette “neutralité axiologique” trouve ses limites lorsque les universités et les hautes écoles prétendent former des professionnels. On imagine parfois régler le problème en exigeant (ou en postulant…) l’adhésion des étudiants à quelques valeurs jugées universelles, donc incontestables : la raison, la rigueur, le souci de l’objectivité et de la vérité scientifique, la prise en compte de l’état des savoirs les plus légitimes, l’ouverture au débat argumenté. Mais de telles valeurs ne suffisent pas à guider toutes les décisions d’un ingénieur, d’un architecte, d’un médecin, et moins encore d’un avocat, d’un psychologue, d’un journaliste ou d’un enseignant. L’éthique de la science ne peut à elle seule orienter le rapport aux personnes, aux institutions, aux normes, au pouvoir, au bien public qui sont au coeur de ces métiers» (Perrenoud, 2014).

 

Riferimenti bibliografici

Norberto Bottani (1997). «Funzionamento, riforme ed efficacia dei sistemi di formazione». In Francesco Vanetta (a cura di), A proposito di qualità nella scuola – Atti del Seminario tenuto al Monte Verità, Ascona il 5 e 6 dicembre 1996,Bellinzona: Ufficio studi e ricerche, p. 21-22

Arnould Clausse (1964). Teoria dello studio di ambiente – Riflessioni critiche sulla pedagogia contemporanea. Firenze: La Nuova Italia

François Dubet (2002). Perché cambiare la scuola?. Firenze: Libri Liberi

Philippe Meirieu (1991). Le choix d’éduquer. Paris: ESF

Philippe Meirieu & Marc Guiraud (1997). L’école ou la guerre civile. Paris: Plon Éditeur

Philippe Meirieu (2012). «Code de déontologie du métier de formateur et de formatrice – Texte élaboré par les étudiantes et étudiants dans le cadre des cours de Philippe Meirieu au sein du Master 2 “Métiers de la Formation” de l’Université LUMIÈRE-Lyon 2, en novembre 2012».  In Eirick Prairat (2013), La morale du professeur, Paris: PUF

Don Lorenzo Milani (1976). Lettera a una professoressa. Firenze: Libreria Editrice Fiorentina

Philippe Perrenoud (2011). Quand l’école prétend préparer à la vie – Développer des compétences ou enseigner d’autres savoirs?. Paris : ESF Éditeur

Philippe Perrenoud (2014). «Compétences et référentiels : trois questions vives». In Maurice Tardif et Jean-François Desbiens (sous la direction de), La vogue des compétences dans la formation des enseignants, Laval : Presse de l’Université Laval, p. 7-34

Adolfo Tomasini (2000). «Scuola dell’obbligo tra etica individuale e collettiva». In Michele Mainardi e Adolfo Tomasini (a cura di), Con la scuola per la dignità – Incontro con Philippe Meirieu e Jean-Pierre Pourtois, Bellinzona: Centro didattico cantonale, Collana Atti, p. 11-21

Piazzaparola, la letteratura per l’infanzia e uno spazio su «la Regione»

Doveva essere la tarda primavera del 2013, quando mi telefonò Raffaella Castagnola, all’epoca presidente della Società Dante Alighieri di Lugano e responsabile delle pagine culturali del Corriere del Ticino, sulle quali curavo la rubrica Fuori dall’aula, firmata per la prima volta nel 2001 e poi continuata fino al 2020.

Stavo chiudendo il mio ultimo anno scolastico come direttore delle scuole comunali di Locarno; in agosto sarei diventato un pensionato. Due anni prima la Dante luganese aveva inaugurato una nuova proposta letteraria, Piazzaparola, il cui occhiello precisava: L’arte di raccontareUn classico e voci contemporanee. Le prime due edizioni erano state dedicate a Dante e a Omero, con uno spazio riservato agli allievi delle scuole luganesi (se non sbaglio, in particolare quelli della zona Centro).

Mi chiese, senza sapere che stavo andando in pensione, di organizzare per il Locarnese le prossime edizioni di Piazzaparola per gli allievi delle scuole elementari. Diedi la mia disponibilità, chiesi la collaborazione del DFA, anche per avere un tetto istituzionale (quell’anno il direttore era Michele Mainardi), conobbi una giovane Silvia Demartini, che coinvolsi da subito – sarebbe poi diventata, negli anni a seguire, l’autrice principale dei testi di tutte le edizioni locarnesi di Piazzaparola.

Neanche tre mesi dopo quella telefonata, andò in scena al Castello Visconteo la nostra prima edizione di Piazzaparola jr, dedicata a Giovanni Boccaccio e destinata alle classi di 4ª e 5ª elementare di Locarno e Minusio: Intendo di raccontare cento novelle nel pistelenzioso tempo, con le narratrici Tatiana Winteler e Sara Giulivi, le illustrazioni di Dario Bianchi, l’accompagnamento musicale del gruppo «Greensleeves» di Paolo Tomamichel e i «Giullari dei Visconti», gruppo di studenti della Scuola Teatro Dimitri di Verscio, preparati da Oliviero Giovannoni: trattandosi dello spettacolo inaugurale merita il ricordo dei protagonisti.

Intendo di raccontare cento novelle nel pistelenzioso tempo (Giovanni Boccaccio, 2013)

Seguirono due edizioni che si svolsero per davvero nelle piazze, con gruppi di allievi che passavano da una postazione all’altra: Leonardo da Vinci nel 2014 e Publio Ovidio Nasone del 2015. Nei due anni successivi capitò di voler restare nuovamente nelle piazze, ma la meteo ci costrinse a rifugiarci dentro il Teatro di Locarno: nel 2016 Sulle tracce dell’ingegnoso nobiluomo don Chisciotte della Mancia, l’anno dopo Inseguendo l’ombra di Don Giovanni. Per ovviare al tempo che fa, da qualche anno ci siamo installati nelle piccole sale del Palacinema: Echi dal Diario di Anne Frank (2018), La vera storia del dottor Victor Frankenstein (2019), Canto di Natale (2022). Nel mezzo, a causa della pandemia, niente Piazzaparola nel 2020 e un’edizione ridotta nel 2021, con La storia di Robinson Crusoe nella corte interna del Castello; per poi tornare al Palacinema in questo dicembre 2023, con Dimezzato, inesistente, rampante: tre magnifici antenati, nel centenario della nascita di Italo Calvino.

Il barone rampante (Italo Calvino, 2023) – © Foto Marco Beltrametti

Dall’anno prossimo si vedrà, sarebbe bello poter tornare nelle piazze, ma costa un po’ di più, mentre da qualche anno parrebbe che non ci siano più soldi, neanche per Piazzaparola.

* * *

A margine di questa edizione dedicata a Italo Calvino, il quotidiano laRegione, nellasua edizione del 18 dicembre 2023, ha dedicato un’intera pagina al tema della letteratura per i più giovani.

Far parlare la letteratura alle giovani generazioni

di Silvia Demartini, Professoressa in Educazione linguistica e linguaggi disciplinari dell’italiano presso il Centro competenze didattica dell’italiano lingua di scolarizzazione (DILS), DFA/ASP-SUPSI, e Adolfo Tomasini, pedagogista.

Nel mondo digitale la parola scritta rischia di attirare sempre meno giovani. Ma i piccoli lettori possono trovare ricchezza nei grandi classici.

La letteratura è un magico spazio in cui ritrovarsi, (ri)conoscersi, ma anche scoprire, conoscere e vivere altre vite oltre alla propria. L’ha sintetizzato a chiare lettere Umberto Eco oltre trent’anni fa: “Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5’000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’Infinito… Perché la lettura è un’immortalità all’indietro” (dall’articolo “Perché i libri allungano la vita”, rubrica La bustina di Minerva, L’Espresso, 2 giugno 1991). Proprio quest’ampiezza di vedute è uno degli aspetti principali (non il solo) per cui vale la pena di avvicinare bambine e bambini alla letteratura.

Il bisogno di letteratura nella formazione delle giovani generazioni

Dell’immortalità all’indietro evocata da Eco, oggi, c’è quanto mai bisogno, anche e forse soprattutto per i più giovani. Catturati sin da molto presto nella rete e nel digitale, infatti, bambine e bambini hanno meno occasioni di accostarsi alla letteratura come ambito di esplorazione, come spazio di divertimento e di approfondimento, come palestra linguistica, come luogo in cui semplicemente passare il tempo. E anche come elemento di complessità. Una complessità, certo, che va calibrata sulla base dell’età e della maturità di lettrici e lettori, per cui l’incontro con la letteratura deve essere sfidante, ma non impossibile, onde evitare banalizzazioni grottesche o riduzioni scimmiottanti. Se affrontata nel modo giusto, proprio la sana complessità del testo letterario e dei personaggi che lo popolano continua ad avere un grande potenziale formativo, a più livelli. Basti pensare alle profonde discussioni che possono scaturire dalla lettura di un’opera non banale o alla modalità di lettura estensiva (piacevole, ma anche prolungata e non “a salti”) che richiede un bel romanzo. Per non parlare del ricco patrimonio linguistico al quale la letteratura espone, proponendolo senza “insegnarlo”.

Navigare nel “mare” della letteratura

Domanda per niente semplice, perché le risposte possono essere molte e non unanimi. Ai fini del nostro discorso va però almeno precisato che “letteratura” è tante cose; è tanti generi (dall’epica ai romanzi agli albi illustrati, per intenderci), è tanti stili, è tanti destinatari, è tante epoche, è tanti formati (in prosa e in versi): per non perdersi servono consapevolezza, preparazione e cura, soprattutto se si tratta di avvicinare certe opere a giovani ragazze e ragazzi. Perché c’è una letteratura che, a seconda delle età, va affrontata in autonomia (magari confrontandosi su di essa in gruppo, a scuola), e c’è una letteratura alla quale da “piccoli” è bene accostarsi in modo mediato, scoprendo scrittrici, scrittori e opere grazie al tramite di qualcuno che ne cura l’accessibilità. Ciò non significa forzare l’incontro con la letteratura “adulta”, ma promuovere la curiosità: con una metafora, significa offrire una scala per incentivare a fare capolino e a curiosare in un giardino bellissimo, che, più in là, ragazze e ragazzi andare a visitare completamente. E non solo: significa accostare al bello, alla ricchezza di contenuti e di parole, alla grandezza di certi personaggi; accettando anche di saper rinunciare a certe sfide, posticipandole.

Fra scuola e divulgazione: il senso dei “classici”

Che la letteratura non sia in senso stretto una “materia scolastica” è cosa nota, o dovrebbe esserlo, come dovrebbe essere altrettanto noto, però, il suo potenziale in chiave educativa e didattica. Da questo presupposto è nata l’idea (ormai dieci anni fa, nel 2013) di realizzare una proposta per le scuole elementari del locarnese nell’ambito di un evento letterario concepito per il pubblico adulto (PiazzaParola), cogliendo anno dopo anno la sfida di proporre un grande classico, o un autore/un’autrice, all’attenzione di ragazze e ragazzi di IV e V elementare. Fino al 2019 PiazzaParola si è svolto in settembre, per fornire un momento iniziale intenso, quasi rituale, che avrebbe potuto fare da detonatore di un progetto pedagogico da sviluppare durante l’anno scolastico. In tal senso già in primavera si informavano gli istituti scolastici di ciò che avremmo presentato a fine estate, fornendo anche una documentazione che poteva servire per la preparazione di allieve e allievi, e per sviluppare percorsi di approfondimento.

Questa scelta intendeva facilitare e stimolare la ricerca di quell’immortalità all’indietro offerta dai “classici”, tema che nel 2012 era stato ampliato e approfondito durante un convegno dedicato alla letteratura per l’infanzia (poi sfociato nel volume Il gatto ha ancora gli stivali? Perché leggere i classici a scuola, oggi e domani, curato a D. Corno, S. Fornara e A. Tomasini, Armando Dadò Editore, 2013).

Quella era stata l’occasione di chiedersi, per dirla con Italo Calvino, se è ancora vero che i classici continuano a parlare anche alle nuove generazioni, perché non hanno finito di dire ciò che hanno da dire. Suggestione sempre attuale, che, in questo 2023 (nel centenario della nascita di Calvino), rilanciamo proponendo una rilettura della trilogia calviniana I nostri antenati. Ormai un “classico” recente, il cui insieme di fantasia, originalità, divergenza rispetto alla normalità del mondo che ci circonda è certamente in grado di intercettare l’ “orecchio acerbo” di rodariana memoria dei più giovani.

Alcune chiose di congedo dall’anno passato

Archiviato – si fa per dire – il Coronavirus, almeno nella sua fase pandemica, ecco subito un nuovo, grave evento, l’invasione dell’Ucraina per mano delle forze armate della Federazione Russa il 24 febbraio 2022.

Dopo le statistiche giornaliere su Covid 19 – nuovi contagi, ricoverati, morti, guariti – ecco le nuove tabelle riguardanti l’arrivo dei profughi ucraini in Ticino e in Svizzera: dove, presso chi, sotto l’egida di. E quali le scuole frequentate.

Sono stati entrambi eventi pieni di bontà: si pensi agli applausi agli infermieri prima, agli abbracci ai profughi poi, in arrivo nelle scuole del Cantone.

Ho conservato un articolo di Moreno Bernasconi apparso a pagina 4 del Corriere del Ticino del 31 maggio scorso: «Due profughe, due misure», che così inizia:


«Abbiamo capito che noi, qui, siamo profughi di serie B». Questo amaro commento circola insistentemente da un paio di mesi fra i rifugiati riparati in Svizzera da Paesi africani o dall’Afghanistan o da altri Paesi devastati dalla guerra durante anni o addirittura decenni. Circola da due o tre mesi, ovvero da quando la guerra scatenata dall’invasione russa ha spinto milioni di civili ucraini a fuggire dalla barbarie. La maggioranza ha cercato rifugio nei Paesi limitrofi dell’UE, ma non pochi anche nel nostro Paese, che si sta dimostrando coralmente generoso verso i profughi ucraini in fuga. Dal punto di vista giuridico, questa accoglienza generosa ha un nome: il permesso S, ovvero quello «per persone bisognose di protezione» (Schutz, in tedesco).

(Qui si può leggere l’articolo integralmente).

Osservo che, di solito, questa tipologia di immigrati, se autorizzata a risiedere in Svizzera, riceve il Permesso N «per richiedenti l’asilo», che da qualche parte saranno ritenuti meno bisognosi. Nei primi anni del mio periodo come direttore delle scuole comunali di Locarno, dal 1987, ho attraversato tanti drammatici arrivi massicci di profughi, per lo più famiglie che scappavano dalla guerra. La fase più acuta fu attorno al 1992/93, quando accogliemmo nelle nostre classi un centinaio di bambini e bambine, circa il 10% del totale degli allievi di scuola elementare.

Non fu facile, anche perché si trattava di un fenomeno del tutto nuovo, che toccava poche sedi scolastiche del Ticino. Le caratteristiche di questi alunni erano inoltre molto diverse: per età e sesso, per religione, lingua e cultura. Eravamo inoltre circondati da un diffuso sentimento di rifiuto – non oso parlare di razzismo o di xenofobia. Però, forse, chissà.

Meglio quindi quel che è successo nella primavera del 2022, confidando che anche in futuro queste persone godano della medesima benevolenza (e soprattutto del Permesso S), a condizione che non si parli di guerre vere e guerre finte, così da decidere solo a «Spalancare le porte ai profughi veri»: come afferma il senatore italiano Matteo Salvini.

***

In questo 2022 si è tornato a parlare dei livelli della scuola media, che tutti dicono di voler abolire. Se ne parla ormai quasi da mezzo secolo, cioè da prima che nascesse la scuola media, tra slanci ideali, mugugni e ipocrisie poliedriche.

Eppure anche stavolta il dibattito si è subito acceso, coi diversi schieramenti politici a precisare, correggere, rimandare: perché in aprile ci sarà il rinnovo dei poteri cantonali, ognuno vuole solleticare la pancia dell’elettorato e non vuole scottarsi.

Credo che i livelli – o la sostanza del loro effetto pedagogico e socio-culturale – continueranno a caratterizzare la scuola media fino a che non sarà chiaro a tutti che non tocca alla scuola dell’obbligo decidere chi può e chi non può frequentare una scuola medio-superiore.
Qualche anno fa andava di moda citare il sistema scolastico finlandese – una scuola da Oscar della pedagogia, avevo scritto nel 2008 (Qual è il segreto della scuola finlandese?, Corriere del Ticino del 27.02.2008). La si citava ma non la si studiava. Se lo si fosse fatto si sarebbero scoperti alcuni suoi aspetti accattivanti: ad esempio, come predisporre una scuola altamente performante e inclusiva, senza stress e senza livelli.

Scrivevo in quel testo:

Si ritiene, nei fatti, che le basi essenziali per acquisire dei saperi e favorire una crescita armoniosa degli individui risieda in un ambiente scolastico rassicurante, in docenti premurosi e preoccupati di creare dei legami affettuosi e cordiali coi loro allievi, in modo che questi possano sviluppare una benefica autostima. Si reputa altresì che l’esigenza di un forte richiamo ai valori morali e umanistici non debba ridursi a mera enunciazione legislativa, da sacrificare giorno dopo giorno sull’altare della trasmissione di conoscenze e di competenze mirate all’inserimento nel mondo del lavoro. Conseguentemente «imparare senza stress», nel rispetto totale di ogni allievo, si traduce in una scuola che rispetta i ritmi di apprendimento di ognuno: le note fanno la loro prima apparizione dopo i nove o dieci anni della scuola dell’obbligo (Educazione fondamentale); la ripetizione di classe non esiste; accanto ad alcune discipline obbligatorie, ogni allievo ha un discreto margine di manovra per scegliere altre materie che completano il suo curricolo.

***

Il 16 dicembre scorso il Palacinema di Locarno ha accolto oltre 500 allievi di IV/V elementare per un nuovo appuntamento con la manifestazione Piazzaparola, che è così giunta all’edizione numero nove. Dal 2013 a oggi sono stati presentati diversi adattamenti di opere quanto mai diverse fra loro per epoca, stile, contenuto e molto altro. Ideatori, autori e coordinatori di ogni spettacolo sono stati Silvia Demartini, professore SUPSI, ed io.

© Simone Fornara

Quest’anno la scelta è caduta su una rilettura del Canto di Natale di Charles Dickens, che abbiamo voluto sottotitolare come Una fantasmagorica storia natalizia. In scena gli attori Sara Giulivi e Alessandro Otupacca e i musicisti Deolinda Giovanettina (violino), Marco Cuzzovaglia (batteria) a André Sampaio (basso).

© Simone Fornara

Mi piace riportare qui un breve passaggio della rilettura scritta da Silvia Demartini, una battuta di Ebenezer Scrooge, il “cattivo” (redento) della storia.

Io però non capisco, non capisco… nemmeno oggi, qui, nel vostro mondo [rivolto al pubblico]. Ho fatto un giro, eh? Ma che cosa significa essere felici a Natale, stare bene, mangiare bene, avere molti giochi, quando tante, tante persone non possono esserlo e non possono avere nulla? E non solo a Natale, ma in nessun giorno dell’anno?

© SUPSI/DFA Luca Ramelli

La banalizzazione del merito

In un’epoca durante la quale ci si appella sempre più frequentemente al merito e alla meritocrazia, il nuovo governo italiano, insediato il 23 ottobre, ha istituito il Ministero dell’istruzione e del merito.

Ha detto Luciana Littizzetto durante la trasmissione televisiva Che tempo che fa del 30 ottobre 2022:

Vi accanite col merito nella scuola, ma vogliamo parlare della politica? Se c’è un campo dove non ci si arriva tutti per merito è proprio la politica… Non è che aprendo le porte del parlamento pensi: “Ehi, sono finito al CERN, per caso!?” Il merito vale per tutti, tranne che per i politici?

[…] Abbiamo avuto ministri dell’istruzione che volevano far passare i neutrini dentro tunnel che non c’erano, Ministri dei trasporti che parlavano del trasporto su gomma nel tunnel del Brennero, che non è stato ancora realizzato… Ministri degli esteri che l’unica lingua che conoscevano era quella di vitello quando la ordinavano al ristorante… Quindi se proprio vogliamo partire con il merito in questo paese, inizierei sì dalle scuole, ma durante le elezioni e non durante le lezioni”.

Nel frattempo il Gran consiglio ticinese, nella sua seduta del 17.10.2022, ha approvato l’iniziativa parlamentare generica «Rinnoviamo la scuola dell’obbligo ticinese», che era stata presentata nel 2018 dall’Unione Democratica di Centro – che di centro ha solo il nome: 43 sì, 21 no e 19 astenuti. Stando alle cronache, la maggioranza favorevole è stata favorita dalla concordanza dei deputati liberali e della lega dei ticinesi.

Va da sé che, tra i 61 punti irrinunciabili ma negoziabili che costituiscono il proposito rinnovatore della destra ticinese, non poteva mancare l’imperativo di promuovere e offrire dei percorsi selettivi e meritori sia per gli allievi che per i docenti. Gli altri 60 punti, in sostanza, portano lì.

Continuo a credere che le finalità della scuola dell’obbligo siano altre. Proprio oggi si è conclusa a Bruxelles la 3ème Biennale internationale de l’Education Nouvelle (Convergenza per la nuova educazione), promossa da numerose associazioni internazionali, che aveva al centro dei suoi lavori anche l’aggiornamento del Manifesto per l’Educazione Nuova: il mondo che vogliamo, i valori che difendiamo.

E nel medesimo ordine di idee, mi piace segnalare l’interessante contributo di Marco Viscardi, docente all’Università degli studi di Napoli, pubblicato su DOPPIOZERO all’indomani dell’istituzione del Ministero dell’istruzione e del merito: Il merito è una fantasia. L’articolo può anche essere scaricato qui in formato PDF.

Un concorso letterario per raccontare la matematica

La comprensione del linguaggio della matematica è considerata dalla ricerca in didattica uno dei maggiori ostacoli per l’apprendimento della disciplina, a tutti i livelli scolastici. È a partire da questo apparentemente semplice ragionamento – perché è proprio dalla difficoltà di capire il linguaggio della matematica che si dipanano tanti insuccessi scolastici – che, da alcuni anni, ben tre centri di competenze del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI si occupano dell’italmatica: Italmatica. Comprendere la matematica a scuola, tra lingua comune e linguaggio specialistico.

Il progetto – che è finanziato dal Fondo Nazionale Svizzero per la Ricerca Scientifica (FNS) – si propone di affrontare la questione attraverso indagini interdisciplinari multilivello su una significativa massa di dati. Più nello specifico, il progetto è dedicato all’analisi, dal punto di vista linguistico e matematico, di un corpus di libri di testo scolastici di matematica in lingua italiana della scuola elementare e media, al fine di delinearne le caratteristiche e i possibili ostacoli per la comprensione da parte di allieve e allievi.

È in questo contesto che è nato quest’anno, per la prima volta, un concorso letterario – Matematica a parole – che si indirizza ad allieve e allievi dai 3 ai 18 anni, nonché all’intera cittadinanza. Il concorso letterario «Matematica a parole» – si legge nel documento che lo lancia, lo descrive e ne fissa i paletti – ha come obiettivo quello di stimolare il dialogo fra matematica e lingua italiana: la letteratura si configura, infatti, come un mezzo per parlare di matematica e per “far parlare” la matematica con parole che sappiano trasmetterla in modo originale, ma anche rispettoso della disciplina, senza ovviamente rinunciare alla qualità del testo.

Si possono scoprire tutti i dettagli del concorso sfogliando le pagine di Matematicando del Centro competenze didattica della matematica oppure scaricando qui il dépliant di presentazione.

***

In quest’ordine di idee – che sono le idee della divulgazione, mai banale – mi piace aggiungere un altro progetto proposto dal medesimo centro di competenza: i matematici a fumetti, una serie di ritratti che illustrano la storia della matematica dalla bella Didone (IX sec. a.C.) a Maryam Mirzakhani (XXI sec.), passando da tanti filosofi e matematici che, per colpa della scuola, hanno selezionato, bastonando!, tante generazioni di allievi e studenti (non potevano mancare Pitagora ed Euclide, citando da bastonato).

Alain Turing, che, per mia fortuna, non ho conosciuto a scuola, ma tramite un bel romanzo che ho letto l’estate scorsa (La caduta di un uomo – Indagine sulla morte di Alan Turing, di David Lagercrantz, 2021, Marsilio).