Ragionando sugli eucarioti…

Eucarioti! No, cari lettori, non vi sto ingiuriando, ma scommetto con un’altissima probabilità di vittoria che ’sta parola non l’avete mai udita. Riconosco che mi sto pavoneggiando tramite l’erudizione di mio figlio, che frequenta la scuola media. Ho scoperto di essere anch’io un eucariota (non garantisco la correttezza del singolare) da quando, svogliatamente e del tutto involontariamente, ho origliato mia moglie che lo aiutava a ripassare i suoi appunti, in vista del test di scienze.
Confesso che sono diventato adulto senza sapere di esserlo – un eucariota, voglio dire. Anzi, non sapevo nemmeno che esistesse questo vocabolo e, ciò malgrado, nella vita ho già fatto un po’ di tutto. A dire il vero, quando ho finito la scuola dell’obbligo – ormai tanti anni fa – non ero molto in chiaro neanche sui teoremi di Euclide. La scoperta dell’esistenza degli eucarioti, quindi, mi ha mostrato che, semmai, i meccanismi della selezione scolastica sono vieppiù peggiorati negli anni, malgrado il ’68, l’enorme espansione delle scienze dell’educazione e a dispetto della diffusa conoscenza accumulata al riguardo anche dai profani.
Tanto è vero che, mettendo ordine tra le mie carte, mi è capitato tra le mani un documento che una ventina di assemblee dei genitori delle scuole medie hanno consegnato al DIC (ora DECS) nel maggio scorso. Si tratta di una lunga serie di richieste e proposte per migliorare questo importante settore della scuola dell’obbligo; si legge tra le altre cose: “Costatiamo […] inspiegabili differenze per uno stesso allievo nei risultati e nelle note da docenti diversi nella stessa materia”. Verità scontata, che collima perfettamente con questo discorso sugli eucarioti, perché l’ignoranza di questo termine, appartenente al gergo della biologia, rischia di penalizzare la valutazione dell’allievo, mentre non è detto che due insegnanti di scienze diano la stessa importanza all’eucariota stesso. O no?
Tengo a precisare che non ce l’ho con gli eucarioti. Però, così come si può fare a meno degli eucarioti, si può anche vivere senza Leopardi e senza Mozart, si può visitare l’Australia senza sapere nulla del capitano Cook, si può andare a teatro senza aver mai sentito parlare di Shakespeare ed è persino possibile diventare gran consigliere della Repubblica senza aver mai sentito parlare del Sonderbund. Leopardi, Mozart, Shakespeare, il Sonderbund (e gli eucarioti) sono tutti elementi di conoscenza; nessuno, però, è essenziale nella formazione scolastica di base, tanto che la bella nota in italiano la si può rimediare anche senza aver mai letto una riga di Pascoli o Gadda: tutto dipende invece dagli interessi specifici del singolo insegnante, che privilegerà la chiacchiera alla lettura, l’analisi logica alla poesia, il giornale scolastico al cinema. Stesso discorso per la storia e la geografia; persino per la matematica – che ha programmi più puntuali – vi è chi dedica le maggiori attenzioni a chi meno ne ha bisogno, imprimendo all’insegnamento ritmi da Formula 1, nel risoluto intento di liberarsi in fretta degli allievi-catorcio: creandosi nel contempo un alibi di ferro.
Disgraziatamente si parla troppo poco di questo scempio dei cervelli perpetrato anno dopo anno dalla scuola dell’obbligo, dando per scontato che la selezione scolastica – le note e le relative conseguenze – avviene su basi scientifiche. Tanto che – narrano le cronache – il neo-presidente dei Giovani Liberali Ticinesi si serve addirittura dei meccanismi selettivi della scuola per spiegare la sua idea di liberalismo: “Lo Stato deve garantire al cittadino pari opportunità, ma poi è l’individuo che deve fare della propria vita ciò che sarà. Tutti hanno il diritto di andare a scuola, non tutti hanno il diritto di riuscire bene (a 12/13 anni, aggiungo). Sarà lo scolaro bravo, determinato, con la voglia di fare, che otterrà i migliori risultati”. Come se non fosse evidente che la nota scaturisce da un complesso di variabili che poco o nulla hanno a che fare con la buona volontà di un qualsiasi dodicenne tanto o poco dissennato. Invece – come ha scritto qualche anno fa il sociologo Philippe Perrenoud – la scuola, prima di erogare valutazioni a destra e a manca, dovrebbe insegnare.

Scuola pedagogica: ma chi sono i genitori?

La nascita è sempre un avvenimento di grande portata emotiva, in primo luogo per i genitori, i possibili fratelli maggiori e il parentado più prossimo. Quando i genitori, poi, sono persone importanti, il momento della venuta al mondo assume i contorni dell’Evento pubblico – oltre che lieto – con tanto di presentazione al Tempio e, ai giorni nostri, inevitabile intervento compatto dei massmedia.
Così è stato anche per l’Alta Scuola Pedagogica, nata più o meno in sordina il 19 febbraio di quest’anno, ma presentata al grande pubblico lunedì scorso, attraverso una gessatissima cerimonia di inaugurazione, che ha richiamato sulle scomode poltrone del Teatro di Locarno una lunga trafila di VIP del mondo pedagogico e politico ticinese, attorniata da zii e prozii, cugini di primo e di secondo grado, nonni, abiatici, suoceri e cognate.
Chi si aspettava una festa – un tripudio di idee e di fervori – ha però lasciato Locarno con le pive nel sacco. Diremo subito che le note più giovani e festose sono venute dall’ensemble di chitarristi della Scuola Popolare di Musica di Locarno, che ha ingentilito la liturgia, portando in platea una ventata di giovinezza e di futuro, che certo non stonava con quello che avrebbe dovuto essere uno sguardo sull’avvenire. Non che ci aspettassimo chissà quali circonvoluzioni retoriche da parte del Dipartimento e della Direzione della nuova scuola. Il Consigliere di Stato Gabriele Gendotti ha tracciato a grandi linee la genealogia recente dell’ASP e ha giustamente sottolineato l’importanza sempre più crescente della formazione dei formatori, affinché la scuola frequentata dai nostri bambini e dai nostri giovani possa crescere in sintonia con il resto della Società, dotandosi dei mezzi necessari per farli diventare cittadini consapevoli e critici.
Non così il Direttore della neonata Alta Scuola Pedagogica, che ha esordito con un breve richiamo alle radici lontane della Scuola Magistrale – voluta dal Franscini nella seconda metà dell’800 – per poi smarrirsi nei meandri tecnico-statistici dell’inauguranda scuola, in un crescendo di ingegneria proto-istituzionale e di ineluttabile invito allo sbadiglio. È poi toccato a Piero Bertolini, insigne professore dell’università di Bologna, tentare una prolusione degna di tale definizione: compito che Bertolini ha svolto in modo plausibile, mettendo in luce il lato più propriamente politico e ideologico della pedagogia e richiamando l’assoluta necessità, per una scuola democratica, di escogitare l’indispensabile coesione tra concetto di formazione e prassi educative. Insomma: i formatori di domani (ma già quelli di oggi!) dovranno sempre più fronteggiare l’ingrato compito di capire il mondo circostante per contribuire alla crescita culturale e civile del Paese, superando alcuni sciocchi ideologismi di un passato che sembra lontanissimo – quello dell’antiautoritarismo a oltranza –, ma evitando nel contempo di cadere negli autoritarismi tanto in voga di questi tempi.
Per carità, nulla di originale: son cose che Bertolini scrive da almeno vent’anni, tanto che qualcuno – al di là di ogni provincialismo – s’è chiesto se la lezione inaugurale non doveva essere assunta da Janner in persona. Ma qualcuno doveva pur dirle, certe cose, perché il lungo e tormentato travaglio dell’Alta Scuola Pedagogica e l’eccessiva (involontaria?) sobrietà del suo battesimo potevano suscitare una sorta di umiltà posticcia, quasi che i genitori si vergognassero della loro nuova creatura, di cui nessuno – sembrerebbe – vuole assumersi la paternità: e in tal senso, lunedì non sono mancati accenni plurimi alla Confederazione e al Gran Consiglio, considerati come scellerati e un po’ tetri ispiratori dell’Alta Scuola Pedagogica: come dicono i bambini, “Non sono stato io!”.
Da parte nostra auguriamo all’Alta Scuola Pedagogica di saper crescere forte e sana, a dispetto di chi ha voluto un battesimo in tono minore. Sappiamo che i problemi sono tanti e importanti, ma all’interno dell’ASP non mancano le personalità in grado di lasciare un’impronta qualificante, mirando ad una scuola autenticamente democratica e attenta alle aspirazioni delle nuove generazioni e alle speranze del Paese. C’è solo da augurarsi che al momento della Confermazione la festa sia finalmente tale e che a nessuno venga nuovamente in mente di metterne in dubbio la paternità: in fondo anche l’ASP è figlia di questo paese e merita tutti i nostri sforzi e tutto il rispetto dovuto.
A cominciare dai suoi padri.