Era ormai da diversi anni che non si parlava più di scuola durante le campagne elettorali per le elezioni cantonali: a occhio e croce è dai tempi dell’entrata in governo di Ugo Sadis (quand’è stato? trent’anni fa?). Invece quest’anno la scuola e l’educazione sono tornate a far capolino dalle bocche dei candidati e dei partiti. Sarà l’onda lunga del 18 febbraio, sarà per qualche altra oscura ragione, fatto sta che in molti han ricominciato a dire la loro – e, in qualche caso, a spararle grosse. Rispetto a certe campagne elettorali a cavallo del ’68, qui le idee sembrano un po’ più confuse. Si direbbe addirittura che ognuno pensi a un suo ideale di scuola, che non necessariamente ha a che fare con le più alte aspirazioni della scuola pubblica, laica e democratica.
Ecco allora che sette giovani candidati al Gran Consiglio hanno pubblicato nei giorni scorsi un’inserzione a pagamento, dove campeggiano le loro foto del primo giorno di scuola (“di qualche anno fà”, scrivono: sperando che l’accento assassino sia un refuso…). Sopra, un titolone: “Per una scuola sempre più giovane!”; di fianco, “W la scuola!”: un florilegio di punti esclamativi per arrivare al dunque: loro sette, sostenuti da quasi 12 mila cittadini, hanno riportato la civica sui banchi di scuola e ora vorrebbero “portare un PC affinché gli scolari e gli studenti ticinesi possano utilizzarlo per l’apprendimento di quasi tutte le materie scolastiche”. E spiegano – uno spot con l’approfondimento – che, tra le altre meraviglie prodotte dal PC, i giovani saranno più competitivi sul mercato del lavoro, contribuendo al rilancio economico delle nostre regioni.
Proprio lo stesso giorno dell’inserzione, oltre un migliaio di studenti manifestavano a Bellinzona “Uniti contro la scuola dei padroni”. Devo dire che, al di là delle modalità organizzative e delle possibili manipolazioni esterne (in ciò sono d’accordo con il Consigliere di Stato Gabriele Gendotti, che ha reagito con la giusta fermezza), alcune rivendicazioni degli studenti mi sono sembrate sacrosante, certo molto più di una spolverata di educazione civica e della nuova campagna per i PC. Ad esempio, i manifestanti hanno criticato “il perseverare di una selezione scolastica, che inizia nelle scuole medie e che genera l’esclusione dalla cultura di una parte della popolazione e un clima insano di competizione fra gli studenti”; oppure lo “scarso peso delle scienze umane a favore delle materie scientifiche, che comporta una formazione funzionale esclusivamente al mercato”. Il linguaggio – come sempre in simili occasioni – è di stampo anarco-sindacalista, ma il succo è proprio quello.
Il liceo, ormai, è giustamente assurto al ruolo di filtro formativo verso una gran parte di professioni, tanto che per entrare all’Alta Scuola Pedagogica e diventare maestro di scuola elementare, bisogna passare da lì. A parte il fatto che la scuola media è sempre più propedeutica al liceo, ci si dovrebbe anche chiedere se l’intensa gragnola di scienze esatte e di lingue moderne sia il profilo più vantaggioso sul quale fondare la cultura dei maestri (e dei cittadini in genere) di domani: i maturati degli ultimi anni sono senz’altro bravissimi con la matematica e la fisica, la chimica e la biologia, ma rischiano (eufemismo) di essere in seria difficoltà a “leggere” il contesto culturale europeo (e ticinese) con gli occhiali dello storico, del letterato, del filosofo. Eppure sono proprio le scienze umane che ci potrebbero aiutare a costruire la scuola vagheggiata da Gendotti: “Formare i cittadini di domani: consapevoli, responsabili, ricchi di spirito critico, sereni nel dialogo con gli altri”. A cominciare dalla scuola elementare, l’esigenza di una più solida cultura umanistica si fa sempre più imperiosa; nel contempo non vi è certezza che per fare onestamente il maestro sia necessario il livello di competenze, poniamo matematiche, richieste dal liceo. Mentre conoscere Leopardi e l’Atto di mediazione sì.
Archivio mensile:Marzo 2003
Giovani, buone maniere e impegno dei genitori
“I giovani di oggi non hanno rispetto di nulla e di nessuno!”: lo si sente spesso ripetere, soprattutto da chi era ragazzo durante l’ultima guerra. Loro lo dicono e molti altri lo pensano. E aggiungono: tutta colpa della scuola, che non insegna più le buone maniere e – quindi – anche il rispetto per le persone e per le cose. Leggendo La Regione di sabato scorso si direbbe che abbiano ragione. Il quotidiano bellinzonese descrive le eroiche gesta di una banda di cialtroni che, a quanto pare, imperversa da un po’ di tempo alla stazione Ffs di Locarno: i teppistelli insultano, ti sputano in faccia, occupano convogli, rubano, insudiciano, graffiano carrozzerie, si ubriacano, minacciano. Scrive il cronista: “Tutti i giorni il gruppo gioca al gatto e al topo con la Polizia e con i ferrovieri, in un continuo rincorrersi per la stazione. Lo scopo degli uni è danneggiare convogli, disturbare il normale lavoro degli impiegati Ffs, salire sui treni in sosta per occuparli e renderne di fatto impossibile l’utilizzazione da parte dei passeggeri; l’obiettivo degli altri è cercare di limitare i danni, di ‘far presenza’ per circoscrivere lo strapotere della banda”.
Beh, a leggere notizie come questa verrebbe voglia di dar ragione a chi se la prende con la scuola e con la gioventù, anche se è grande il pericolo di buttar via il pupo con l’acqua sporca. D’altra parte in chi è adulto, ma non ancora in odore di pensionamento, cresce l’impressione che a fronte di genitori assolutamente incapaci di educare i loro figli, vi sia uno Stato vieppiù rinunciatario. Sul CdT di venerdì scorso Romano Piazzini, comandante della Polizia cantonale, ha scritto che “Non sono rari i casi in cui pattuglie di polizia, accompagnando a casa giovani minorenni sorpresi in giro a notte fonda spesso in preda ad alcol e droghe, vengono aspramente biasimate dai genitori. ‘Non avete di meglio da fare? Correte dietro ai ladri invece di infastidire i nostri figli’, sono frasi ricorrenti (e fra le più gentili).”
È ovvio che se il comandante della polizia si limitasse a prendere atto di una simile tendenza senza nulla aggiungere, dovremmo concludere che è uno sprovveduto e che la nostra sicurezza è in pessime mani. Ma Piazzini, partendo dal rilievo dei suoi agenti, lancia un poderoso macigno nell’acqua cheta dello stagno, riferendo di un ampio dibattito che ha attualmente corso in Francia. Le autorità politiche e giudiziarie transalpine sembrano infatti decise a richiamare i genitori dei minorenni alle loro precise responsabilità, tanto che – riferisce Piazzini – “Nel 1998 il ministro di giustizia rammentava ai procuratori pubblici l’esistenza dell’art. 227-17 del Codice penale francese in virtù del quale è possibile condannare un genitore a due anni di detenzione qualora abbia compromesso la salute, la sicurezza, la moralità o l’educazione di un figlio minorenne”.
Insomma: in Francia il dibattito è aperto e sarebbe utile che s’aprisse anche da noi. Perché un conto è incolpare la scuola di non educare e la polizia di non occuparsi dei ladri (ma i ragazzi della stazione locarnese che fanno? un garbato minuetto?), e un altro tentare seriamente di risolvere un problema che di sicuro si acuirà, se tutti insieme non saremo in grado di analizzare lucidamente la situazione che si è creata: urge un contributo che non sia solo, e ipocritamente, “politically correct”, ma che abbia il pregio di chiamar le cose col loro nome. In buona sostanza, non si tratta di legittimare il manrovescio e il manganello gratuito, ma di costringere i genitori ai loro obblighi parentali: crescere e educare un figlio è troppo importante, per poterlo delegare alla scuola e, più in generale, allo Stato.
Per una volta, dunque, scuola e polizia hanno qualcosa in comune: l’impotenza di fronte a comportamenti che solo la malafede può addossare alla società. Frattanto lo Stato banalizza l’alcol, riducendo l’età in cui lo si può assaporare indisturbati al bar o – più prosaicamente – al pub.