Da più di trent’anni, maîtres à penser come Edgar Morin o Marshall McLuhan hanno attirato l’attenzione sull’importanza dei mezzi di comunicazione di massa in ambito educativo. Effettivamente non ci vuole molto acume per accorgersi che, al punto in cui siamo arrivati, hanno più incidenza sugli individui uno spot televisivo ben combinato o la velina di un qualsiasi partitino, che non il corso di educazione civica o la ramanzina del maestro. Se – appunto – trenta o quarant’anni fa i valori individuali e sociali si modellavano attraverso un’incisiva e pressoché logica sinergia tra scuola e famiglia, oggi un giudice preso con le mani nel sacco – col giusto corollario di notizie e pubblici commenti – può distruggere in un batter d’occhio valori costruiti pazientemente in lunghi anni di dedizione.
Questa riflessione mi è tornata alla mente quando sono incappato in un intervento del presidente onorario dell’UDC ticinese, Alessandro von Wyttenbach, sul Corriere del 19 aprile. Partendo dall’arresto di Roger Etter – uomo di punta del suo partito – von Wyttenbach così argomenta: a) la disavventura di Etter è solo una delle tante; b) in tutte le società ci sono santi e criminali; c) non sempre il criminale ce l’ha scritto in fronte; d) i partiti non possono “ingaggiare un investigatore privato per illuminare le ombre della vita dei suoi membri prominenti” [io avrei scritto “preminenti”, ma transeat]; e) chi fa di ogni erba un fascio è nel torto; f) la nostra società è sana, perché permette agli scandali di venire alla luce; g) Etter è stato più bravo di certi politici, perché se n’è andato da solo, prima che fosse sbattuto fuori.
Detta così la vicenda etteriana sembra un raccontino morale, scritto apposta per rieducare schiere di giovani e adulti moralmente degradati e far loro capire la solidità del sistema democratico, che sarà anche un po’ incancrenito da decenni di mene sinistrorse e rivoluzionarie, ma che è ancora in grado di mettere dietro le sbarre un parlamentare della Repubblica, integerrimo sino a pochi giorni fa. Scrive l’ineffabile presidente onorario: “L’ideologia dell’educazione antiautoritaria e permissiva sempre più diffusa – soprattutto dopo il ’68 – sia in famiglia, che nella scuola, ha infatti fatto perdere alle nuove generazioni la percezione dei limiti fra i comportamenti permessi e tollerabili e quelli invece incompatibili con una convivenza civile”.
Almeno su una cosa si può essere d’accordo con von Wyttenbach: senza un insano permissivismo non crescerebbero più epigoni del nazismo, coltivati da quei partiti che sognano una Svizzera autarchica, egoista, xenofoba e manesca, in cui le leve del potere sono mosse da pochi eletti, persone probe e moralmente ineccepibili che conoscono la Verità. Come scrive Il Caffè di domenica scorsa, è sicuro che “… scavando nel personaggio Roger Etter, di materiale per una perizia psichiatrica ce n’è davvero tanto”. Ma dimenticare le prediche di Etter – fatte di atti parlamentari e di proclami nazisteggianti sul suo sito nel web – e concentrarsi solo sui suoi (per ora presunti) misfatti, è una maniera almeno disinvolta per chiamarsi fuori. Non fosse stato per il recente arresto dell’uomo “prominente” dell’UDC, a von Wyttenbach non sarebbe certo venuto in mente di distanziarsi dall’Etter fautore della “barca piena”, dello straniero prevedibile criminale e di altri rigurgiti non proprio edificanti.
Non si può certo negare che il ’68 ha conosciuto le sue derive estremiste, le sue schegge impazzite e violente. Ma al ’68 occorre riconoscere il grande merito di essersi opposto con forza proprio agli Etter e compagni (pardon: camerati) dell’epoca, esortando alla creatività, alla tolleranza, alla solidarietà con i deboli, i poveri, le donne, i diversi… Questa malcelata voglia di manganello non è invece molto edificante, né è molto educativo proclamare che non si deve rubare (o farsi beccare?), mentre è giusto e lecito criminalizzare e dileggiare chi, democraticamente, propugna una Società davvero libera.
Archivio mensile:Aprile 2003
Insegnanti, vocazione e formazione
La professione di insegnante è diventata molto più difficile rispetto al passato. Diventare maestro, diciamo di scuola comunale (dell’infanzia o elementare nulla cambia), lo è finanche di più. Se oggi avessi quindici anni e volessi imboccare la strada che mi porterebbe a uno dei più antichi mestieri del mondo, dovrei convenire con me stesso di non esservi tagliato: intanto è probabile che non conquisterei nemmeno quella fatidica media del 4.65 che mi darebbe accesso al liceo senza esami di ammissione, perché la matematica e le lingue non sono mai state le mie materie preferite, e nemmeno quelle in cui eccellevo (o arrancavo meno: dipende dai punti di vista). Pensandomi in retrospettiva, debbo ammettere che ero un ragazzo timido e un po’ imbranato – come immagino ve ne siano tanti anche oggi – e non afferravo molto il senso della maggior parte delle cose che mi rifilava il ginnasio. Però leggevo molto, avevo un’intensa vita mentale ed ero allenatore di un gruppo di bambini in ambito sportivo: così mi era sorto il desiderio di divenire maestro.
Oggi avrei lasciato correre. Il liceo mi avrebbe spiaccicato come un insetto immondo. Ne sarei uscito con le ossa frantumate a colpi di matematica e chimica e fisica, senza dimenticare quel gran paniere con le lingue moderne. Insomma, mi si sarebbe parato davanti un quadriennio di tormenti e di umiliazioni, e non so se la mia psiche, in quell’età di insicurezze e di trasformazioni, avrebbe potuto reggere l’urto. Credo che avrei scelto una strada meno rude: che so? l’educatore o qualcosa di simile, con tanto di maturità professionale nel settore socio-sanitario, conscio del fatto che il Gran Consiglio – con una pensata dell’ultimo momento – avrebbe introdotto la possibilità, per i portatori di maturità come la mia, di accedere all’Alta Scuola Pedagogica senza dover transitare dal liceo. Il resto è cronaca recente: mi sarei iscritto all’ASP sub condicione e con buona probabilità, dopo un anno, mi sarei ritrovato con un pugno di mosche.
Ora è difficile sostenere che si debba spianare la strada a chi vuol diventare insegnante, facilitandone l’accesso (e magari anche l’uscita). In fondo, da un punto di vista dottrinale, è giusto che il maestro abbia dalla sua una solida cultura di base; perciò il liceo sembra attualmente la scuola più indicata a livello propedeutico. Il problema, però, è che il liceo odierno si configura come una scuola fortemente caratterizzata dalle materie scientifiche e dalle lingue straniere, che rappresentano degli scogli fors’anche insuperabili da parte di chi – per educazione e per sua forma mentis – si ritrova con inclinazioni piuttosto umanistiche. Il difetto, quindi, non sta neanche tanto nell’ASP e nelle leggi che ne regolano il funzionamento, quanto nella difficoltà, tutta odierna, di capire qual è il profilo più adatto per diventare insegnante. Pensando alla recente avventura che hanno corso quelle decine di studenti entrati all’ASP con un sacco di sogni, ma senza la maturità giusta, corre voce che un qualcuno di loro sia stato escluso perché bocciato agli esami di recupero riservati ai portatori della maturità professionale, pur avendo passato con successo i tirocini pratici. Viceversa qualche studente regolare – con tanto di maturità liceale – è incespicato nel contatto con le classi e con gli allievi.
Non è un quadro molto confortante, quello che ne scaturisce, poiché si rischia di escludere dalla professione giovani motivati e capaci e, nel contempo, di diplomare persone più a loro agio con le circonvoluzioni del pensiero teorico che con la conduzione a lungo termine di una classe di scuola dell’infanzia o elementare. Se – come afferma qualcuno – oggi più che mai è necessario risvegliare un nuovo umanesimo, bisognerà cominciare proprio dalla formazione degli insegnanti, con un ragionamento che vada alla radice delle attitudini, delle competenze e delle conoscenze che devono far parte del bagaglio di un maestro, invece che dedicarsi surrettiziamente all’invenzione di scorciatoie per entrare all’ASP: che è e deve restare una scuola professionale.