«Devi leggere di più!»: se penso alla mia esperienza di bambino, o ai racconti di mia nonna, che la scuola elementare l’ha frequentata nei primissimi anni del secolo scorso, quel devi-leggere-di-più sembra un archetipo pedagogico trasversale alle generazioni. Naturalmente con l’avvento della TV, della Play Station e dei videogiochi in genere, il prosaico detto ha guadagnato connotazioni ben più moraliste. Forse settant’anni fa il genitore che si sentiva il predicozzo del Maestro, secondo cui il figliolo “doveva leggere di più”, andava a rimestare in quella scansia dei valori della società contadina: devi leggere di più… invece che mungere le capre, oziare, pescare di sfroso… invece che far la serva di casa.
Oggi no. «Devi leggere di più!» è un invito all’ipocrisia e all’incoerenza. Vediamo di ricapitolare. A scuola elementare è difficile che qualcuno t’imponga di leggere un libro. Tutt’al più, qua e là, c’è il libro di lettura, ma molti si affidano all’estro del momento, e propongono qualche racconto o narrazione fotocopiato alla bell’e meglio, quasi sempre fuori da un percorso logico e comprensibile. Leggere non è obbligatorio, tutt’al più un consiglio. O un avvertimento. Anche se – pare – «Leggere di più!» aiuterebbe. Cosa, non si sa. Alle medie cambia tutto. Chissà se c’è ancora l’antologia? Una volta c’era “Situazioni e testimonianze” dei compianti Giovanni Bonalumi e Vincenzo Snider: da una parte aiutava a conoscere nomi e generi ed epoche letterarie, mentre dall’altra lanciava piste appassionanti. Invece durante la scuola dell’obbligo è più facile incappare nell’onere delle tabelline a memoria o d’una traduzione, che non nell’impegno di leggere un libro dalla prima all’ultima pagina.
Più in là ci sono il liceo e le formazioni post-obbligatorie. Per chi prosegue gli studi è tutto un arrabattarsi per stare a galla: matematica, fisica, chimica, biologia, un paio o tre di lingue straniere, storia; e poi economia, diritto, musica, storia dell’arte… un fiorire di test. E chi lo trova, oggettivamente, il tempo per amare la ragazza di Bube, per trascorrere una bella estate, per divertirsi in compagnia del visconte dimezzato, per soggiornare idealmente un anno sull’altipiano o, in alternativa, per 23 giorni d’avventurosa villeggiatura nella città di Alba? Chi può permettersi il lusso di appassionarsi alle vicende di Anna Karénina o di Madame Bovary, di Ivanhoe o di Robinson Crusoe? E chi li conosce quelli?
Al massimo i più favoriti, quelli che si concedono il lusso di affrontare la scuola con le mani in saccoccia perché madre natura li ha fatti nascere con la camicia, leggeranno ciò che passa il convento multinazionale: i piccoli brividi durante l’infanzia o Harry Potter qualche anno più tardi (nulla contro la sig.ra Rowling, m’intenda il Prof. Origoni): ma, insomma!, si legge ciò che detta il mercato. Laddove leggere, in fondo, è qualcosa che va al di là del semplice arricchimento linguistico: percorrere un romanzo è un’avventura tra guerra e pace, che ti sprofonda nella storia e nella filosofia. La lettura è un contributo all’identità individuale e sociale, ti fa conoscere Eros e Thánatos.
Non possiamo però prendercela con i nostri ragazzi, che svicolano – e c’irridono un po’ – quando diciamo loro «Devi leggere (di più)!»: perché, materialmente, leggere anche solo un po’ qualcosa che non sia Topolino o AutoSprint è un atto eroico. Potremmo limitarci a un più dimesso «Sforzati di leggere (qualcosa che non sia Topolino o AutoSprint)!», ma è poco pedagogico. Però rendiamoci conto che tra il dire e il fare – tra il «Devi leggere di più!» e il leggere per davvero – c’è di mezzo il test. E allora, visto che dopodomani i nostri figli saranno in vacanza – per ben diciassette giorni filati, e noi genitori con loro –, sfoghiamoci a colpi di libri: storie d’amore e commedie assurde, racconti un po’ spregiudicati e avventure dello spirito, thriller e saggi inquieti. Affinché, almeno in vacanza, il nostro cervello possa godere delle gioie terrene. Forza: è Natale (nella speranza che il 10 gennaio non sia in programma un espe).
Archivio mensile:Dicembre 2004
Ma quanta fretta di dire che siamo bravi…
Non è chiaro il motivo per cui già il 4 dicembre, cioè tre giorni prima della prevista conferenza stampa, alcuni giornali svizzero-tedeschi abbiano sentito il bisogno di diffondere in anteprima i risultati emersi dall’indagine internazionale che va sotto il nome di PISA 2003. Come forse qualcuno ricorderà, PISA è un programma di valutazione internazionale degli studenti, che a scadenza triennale mette a confronto alcune competenze dei quindicenni di molti paesi. Dopo la pubblicazione del primo rapporto (PISA 2000), un certo scalpore l’aveva destato il magro risultato degli adolescenti svizzeri nell’ambito della lettura: solo il 9% si era piazzato nella fascia più alta delle competenze, contro il 15% del paese migliore (la Finlandia). Nel contempo circa un quinto dei nostri quindicenni era finito nella fascia più bassa della classifica (il 13% dalle parti dell’analfabetismo, mentre il 7% neanche quello), contro un naturale 5+2% finlandese nelle medesime fascia d’incapacità.
Il comunicato stampa ufficiale, diffuso il 7 dicembre dall’Ufficio Federale di Statistica (UFS) anche a nome dalla Conferenza svizzera dei direttori cantonali della pubblica educazione, stempera in effetti i toni roboanti delle notizie fatte circolare ad arte nei giorni precedenti, quando pressoché tutti i quotidiani hanno riportato un dispaccio dell’ATS che enfatizzava il miglioramento della classifica, al di là dei risultati reali. Chi ha letto distrattamente i giornali del 6 dicembre è certamente giunto alla conclusione che il sistema scolastico svizzero non deve destare soverchie preoccupazioni. Anzi, secondo certi fantomatici addetti ai lavori, genericamente citati dall’ATS, «…questa positiva evoluzione è frutto delle riforme nell’istruzione pubblica e del cambiamento di mentalità tra i docenti». Quali siano le riforme citate non è dato sapere, così come non risultano studi recenti sulla mentalità dei docenti. E poi: da quando in qua sarebbe possibile rimettere in sesto un bastimento smisurato e complesso come la scuola nel giro di due o tre anni? E ancora: se la memoria non m’inganna, le riforme più importanti del passato prossimo hanno riguardato le lingue straniere, con particolare riferimento all’inglese, che sta diventando concretamente la lingua franca di tutta la Svizzera; mentre altre riforme di un certo peso risalgono agli anni ’90 – e non si può dire che tutto fili via liscio come l’olio, anche grazie alla mentalità di certi docenti e dei loro sindacati.
Di fatto, i primi dati presentati in margine a PISA 2003 dicono sì che la Svizzera ha migliorato la sua classifica; ma dicono anche che, ad esempio nella lettura, le variazioni delle capacità non siano granché cambiate. Nella fascia dell’analfabetismo e giù di lì ha preso casa il 16% dei quindicenni, mentre in quella alta è finito un 1% in più rispetto a tre anni fa. Un rendimento stabile, quindi, tanto che il comunicato stampa dell’UFS ammette onestamente che «la dispersione tra deboli e forti rimane relativamente ampia» e che «gli eventuali cambiamenti introdotti nell’insegnamento della lettura potranno essere osservati soltanto a lungo termine»: resta da stabilire qual è la risposta precisa a quell’incauto «eventuali» anteposto ai «cambiamenti».
Il comunicato dell’UFS, infine, butta lì con una frasetta una constatazione su cui tutti dovrebbero riflettere con serietà e rigore: «Dalle analisi emerge che i modelli scolastici “cooperativi”, caratterizzati dal raggruppamento degli allievi di livelli diversi all’interno di una stessa classe di grado secondario I, riescono a compensare meglio le disparità sociali rispetto ai modelli “selettivi”»: l’eterogeneità, dunque, è pagante, molto più delle apartheid pedagogiche, che tendono a separare i buoni dai cattivi, senza rendersi conto che gli ultimi peggiorano e i primi non migliorano. Alla faccia dei livelli della nostrana scuola media, che hanno superato indenni anche la troppo strombazzata Riforma 3.