Fortebraccio, corsivista dell’Unità di un tempo, scrisse che Mario Tanassi, il socialdemocratico italiano più volte ministro della vicina repubblica a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, aveva la fronte inutilmente spaziosa e che a causa della mancanza dell’oggetto non aveva mai avuto un mal di testa. La battutaccia mi è venuta in mente guardando su YouTube alcuni video un po’ citrulli che imperversano da qualche mese a questa parte, con la regia di qualcuno che, col motto «Goliardia imperat!», sigla delle sparate qualunquiste contro il Dipartimento della Formazione e dell’Apprendimento (DFA) della SUPSI. Questi candidati all’insegnamento, mi son detto, non possono certo soffrire di emicrania. Già lo pseudonimo che hanno scelto per curare la regia delle loro scemenze è tutto un programma: «Mongol & Battona», che la dice lunga sull’entità dei loro collegamenti cerebrali. Naturalmente si preoccupano di mettere le mani avanti, specificando che «Questo prodotto videoludico non vuole offendere nessuno, lungi da noi». Però, scemenza dopo scemenza, sparano a zero contro il DFA, contro la scelta del Cantone di pretendere due anni di abilitazione dopo il bachelor o dopo il master per insegnare nelle scuole cantonali, contro la direttrice del DFA e, in definitiva, contro la necessità di una formazione pedagogica per diventare insegnanti. Si intuisce che per loro le scienze dell’educazione sono materia facile facile per chi vuol fare il maestro dell’asilo o della scuola elementare, non certo per gente che ha frequentato nientepopodimeno che l’università. Loro “sanno le cose” e ciò è quanto basta.
L’insofferenza di taluni accademici nei confronti della formazione pedagogica è ormai una storia vecchia, anche se non può essere ricondotta al DFA. Nel 1974 il nostro Parlamento, dopo una battaglia lunga e, in parte, estenuante, votò le Legge sulla scuola media, che cancellava le scuole precedenti, vale a dire la scuola maggiore e il ginnasio. La prima era una buona scuola, nella quale i maestri insegnavano; la seconda era una scuola selettiva, il cui obiettivo dichiarato era quello di selezionare i migliori (o i figli dei notabili) per mandarli alla scuola superiore e, poi, all’università. Nella prima c’erano i Maestri, preoccupati di insegnare; nella seconda i professori, che venivano dritti dritti dall’università – fatta eccezione per gli ultimi anni del boom demografico, dove si reclutava il personale come viene viene. In quell’ormai lontano 1974 il parlamento fu costretto ad accettare un pesante compromesso affinché la rivoluzionaria legge passasse: la scuola media unificata, che sarebbe diventata una realtà qualche anno dopo, prevedeva, dopo un primo biennio identico per tutti, i famigerati livelli A e B, poi confluiti in forme di selezione meno appariscenti, quali i corsi di base o quelli attitudinali in alcune discipline. Il guaio fu che, dopo aver ingoiato il compromesso, la nuova scuola fu presidiata da una moltitudine insegnanti e direttori provenienti dal vecchio ginnasio: così che si finì per riconvertire i maestri della scuola maggiore in professori, invece che fare il contrario – e poco poté fare Franco Lepori, all’epoca capo dell’ufficio cantonale della neonata scuola, per fronteggiare i guasti dei politici, perpetrati con le loro nomine disinvolte. Sul nuovo DFA, che subentra in linea temporale alla magistrale seminariale, a quella post-liceale e all’ASP, ho le mie riserve e le mie preoccupazioni; credo che la tendenza tecnocratica sempre più dilagante non sta portando nulla di buono, anche se conviene, per il momento, attendere come saranno i nuovi diplomati. Per il bene dei futuri allievi e del paese, però, c’è da augurarsi che «Mongol & Battona» siano sonoramente bocciati, come si addice agli asini, prima che entrino nella scuola e comincino a fare danni. In caso contrario ne soffrirebbe anche la credibilità della nuova scuola magistrale: il DFA, appunto.
Archivio mensile:Febbraio 2011
Insegnare la conoscenza a scuola non è un optional
Giusto dieci anni fa il Ticino era in piena campagna in vista della votazione sul sussidio alle scuole private, proposta poi respinta a furor di popolo. Anche adesso siamo in campagna, in vista di un’altra votazione. La chiamata alle urne di dieci anni fa era stata l’occasione per tornare a parlare di scuola, come non era più successo dai tempi del ’68, dopo oltre vent’anni di dibattiti attorno ad altri temi. Per tanto tempo il mondo in rapida trasformazione non aveva preoccupato più di tanto la scuola pubblica, almeno all’apparenza. Poi, di fronte all’attacco portato per una sorta di liberalizzazione del mercato dell’educazione e dell’istruzione, il paese ha ripreso a dibattere e a infervorarsi, per compattarsi e rimandare al mittente certe velleità di quel che all’epoca si chiamava «il nuovo che avanza». Oddio, la discussione era ruotata in gran parte attorno a temi parascolastici – mense, doposcuola, asili a orario prolungato – ma non era andata al nucleo di ciò che deve contraddistinguere il progetto dello Stato per l’educazione dei futuri cittadini, nel solco degli insegnamenti di Stefano Franscini. Tant’è che, dal 2001, il tema ha continuato a scadenze piuttosto regolari a far capolino tra le discussioni politiche; in vista, poi, del rinnovo del Consiglio di Stato del prossimo aprile, con la partenza del ministro della scuola Gabriele Gendotti, il richiamo ai valori espressi dieci anni fa in votazione popolare sembra rappresentare una giusta preoccupazione per diversi candidati.
Un interessante contributo è giunto ad esempio da Giacomo Garzoli, aspirante del PLRT al Consiglio di Stato, che ha scritto di recente (La Regione del 21.12.10): «L’educazione, da sempre, è il primo pilastro di una società sana, formata da cittadini-individui da cui, in ultima analisi, emana lo Stato. Lo Stato siamo noi, e noi siamo l’educazione che abbiamo ricevuto. Ecco perché la scuola pubblica è importante, perché deve trasmettere ad ognuno il valore della libertà e del rispetto verso uno Stato, il nostro, che grazie ai valori che riassume e rappresenta, ancora ci permette una qualità di vita invidiata in tutto il mondo». Tre giorni dopo, elogiando, gli ha fatto eco il parlamentare Franco Celio, peraltro uomo di scuola, precisando: «È in fondo il compito che le è stato affidato fin dai tempi del Franscini. L’istituzione della scuola pubblica non fu decisa solo per insegnare a tutti a leggere, scrivere e far di conto»: quell’avverbio – solo – preoccupa e fa riflettere, perché in realtà il rischio è che, di questi tempi, a quell’avverbio se ne sia sostituito un altro: neanche. Come dire: è giusto riaffermare con costanza l’importanza di una scuola pubblica forte e sana. Ma non tutto può essere ridotto in continuazione a nebulose dichiarazioni sulla democrazia e la libertà. Per essere cittadini educati, democratici e consapevoli l’istruzione è irrinunciabile. La perfetta conoscenza dell’italiano e della sua cultura – e poi, ma solo poi!, delle altre lingue – le necessarie competenze matematiche, alcune indispensabili conoscenze della storia, della geografia, delle arti, delle scienze naturali e sperimentali sono il piedistallo sul quale costruire l’educazione di cittadini responsabili, che siano davvero in grado di dimostrare coi fatti la solidarietà, la tolleranza, il rispetto, la partecipazione: insomma, per realizzare l’esercizio della democrazia. Invece si parla molto poco di questi aspetti fondamentali della scuola. Anche quando qualche analisi segnala problemi in quest’ambito – si vedano i diversi rapporti PISA – perdura la tendenza a gettare acqua sul fuoco, a minimizzare, a moltiplicare i distinguo.
C’è chi dice che Berlusconi, prima di darsi alla politica attiva, abbia istupidito il popolo italiano coi suoi canali televisivi insipienti, frivoli e volgari. Per fortuna noi non abbiamo nessun Berlusconi all’orizzonte, almeno per ora: ma i suoi canali TV hanno un grande indice d’ascolto anche da noi.