Etica per la scuola: un convegno

Immagine convegno ETICA PER LA SCUOLA_Pagina_1Mercoledì 25 novembre 2015 si terrà a Locarno, al Dipartimento della Formazione e dell’Apprendimento della SUPSI, un importante Convegno di studio che il DFA organizza in collaborazione con la sede ticinese dell’Istituto universitario federale per la formazione professionale (IUFFP).

Dopo il saluto del direttore del DFA, Michele Mainardi, e l’introduzione del direttore dell’IUFFP, Fabio Merlini, il convegno entrerà nel vivo con Una testimonianza su etica e società, oggi proposta da Dick Marty. A seguire tre conferenze di notevole importanza:

  • Pour une déontologie enseignante (Eirick Prairat, docente di scienze dell’educazione all’Université de Lorraine);
  • La “pietra angolare” del codice deontologico degli insegnanti (Silvano Tagliagambe, filosofo ed epistemologo);
  • Il codice deontologico dell’insegnante tra valori interni e valori esterni della professione (Marcello Ostinelli, filosofo dell’educazione, docente al DFA della SUPSI).

Si possono trovare programma e dettagli nel sito del DFA, mentre il programma può essere scaricato (anche) qui.

Parigi e gli attacchi del 13 novembre

Devo due parole di spiegazione in entrata, sennò ci sarà chi mi biasimerà con l’accusa di occuparmi di politica, mentre la scuola non ha nulla a che fare con la politica. Dissento, ovvio. Ho sempre detto e scritto che la pedagogia è ideologica. Ritengo inoltre, benché sembri banale ribadirlo, che non solo la scuola e la famiglia educhino, anzi.

Nei giorni degli attacchi del 13 novembre a Parigi se ne sono lette e viste tante. Ripropongo qui due riflessioni che mi sono piaciute molto – e, naturalmente, non sono le uniche: chissà quante me ne sono sfuggite.

La prima è di un comico, Maurizio Crozza. La sua copertina del talk show di Giovanni Floris dello scorso 17 novembre (DiMartedì su La7) è amaramente comica. Con un francese maccheronico – ma l’importante è capirsi – l’ha intitolata Je suis un cretin totalment brancolant dans la nuit.

Ha detto, tra le altre cose, che a gennaio, dopo la strage di Charlie Hébdo, te la potevi cavare con un «Je suis Charlie». Adesso sulle magliette cosa ci scriviamo? Je suis Paris? Sì, però due giorni prima c’è stato un attentato in Libano, 44 vittime e 239 feriti. Quindi bisogna anche scriverci «Je suis Beirut». E dieci giorni prima era esploso un aereo sul Sinai, 224 morti, per cui bisogna aggiungerci anche «Airbus 321 avec les touristes russes».

Cioè: se qualcosa accade a Parigi, giustamente ci sentiamo tutti coinvolti. Se accade sul Sinai, meno, quasi nulla. Quanto deve essere vicina una barbarie perché ci colpisca come esseri umani? Cioè: piangiamo solo le città di cui abbiamo un souvenir attaccato sul frigo?

La verità è che l’unica maglietta che mi sentirei bene addosso è Je suis un cretin total, brancolant dans la nuit, un perfetto cretino che brancola nel buio. Qualcuno parla di guerra di religione. Ma a Beirut i terroristi erano mussulmani e hanno ucciso altri mussulmani. E allora? E allora io non lo so.

Alle volte invidio chi ha le idee chiare. Poi mi accorgo che chi le ha è gente come Gasparri, Belpietro e Salvini. E mi dico: ma sai che forse essere un cretin che brancola nella nuit non è mal pour moi? Il giorno dopo gli attentati, «Libero» di Belpietro titolava «Bastardi islamici»; Gasparri ha scritto: «Radiamo al suolo lo stato islamico»; e Salvini ha detto «Il terrorismo va bombardato».

Io sarò anche un cretin dans la nuit, ma loro sono dei cretin anche in pieno jour.

In effetti bombardare tutti è una soluzione: non nuovissima. Perché dopo l’11 settembre l’abbiamo fatto. E oggi in Afghanistan i talebani controllano molto più territorio di quello che avevano quindici anni fa. E il terrorismo nel mondo è più forte di prima.

Ma io sono un cretin. Brancolo.

So solo che coi nostri bombardamenti sono stati uccisi un milione di civili iracheni, 220 mila civili afghani e 80 mila civili pachistani. Più che una guerra di civiltà per ora è stata una riuscitissima guerra ai civili. E quella, secondo me, l’abbiamo già vinta. Ma sbaglio o adesso stiamo per rifare la stessa cosa?

E no, io sbaglio, je suis totalement cretin.


La seconda riflessione, pubblicata su La Regione del 18 novembre, è una lucida riflessione di Dick Marty: e non sembri irriverente l’accostamento.  Si intitola Tragico tranello. Per chi non avesse il tempo o la voglia di leggerselo interamente, eccone la  conclusione:

Il dibattito politico, come inteso oggi, appare purtroppo poco idoneo ad atteggiamenti di fredda analisi e di scelte razionali. La tentazione di capitalizzare consensi facendo leva sulle emozioni e la paura è grande. Poche ore dopo la strage di Parigi c’era già chi era all’opera in tal senso. Oltre alla repressione, necessariamente rigorosa, occorre anche agire a livello di prevenzione, ricercare e capire cioè i motivi che contribuiscono a scatenare gesti talmente disumani e indurre giovani a farsi saltare in aria per meglio uccidere altri a loro totalmente estranei. I terroristi finora identificati sono nati e cresciuti in Europa, spesso in zone gravemente trascurate dalle istituzioni e caduti nelle maglie di predicatori dell’odio, un odio e un’ideologia alimentati anche dalle ingiustizie commesse nei confronti del mondo arabo e dalla tragedia palestinese tuttora irrisolta, non senza responsabilità occidentali. Questo non giustifica niente, sia ben chiaro, ma dovrebbe almeno indurci a riflettere per definire risposte più adeguate. La stragrande maggioranza dei musulmani non si riconosce per niente in questi criminali. La reazione a questo terrorismo deve fondarsi pertanto su di un’alleanza con il mondo musulmano.

Nel generale schiamazzo politico, massmediatico, bombarolo e di pancia, converrebbe davvero lasciarsi alle spalle il proprio ticinocentrismo e provare a pensare. Già il tentativo sarebbe di per sé un bel segnale.

Giorno dopo giorno gli insegnanti accolgono nelle nostre aule schiere di bambini, ragazzi e giovani, che naturalmente han sentito parlare del 13 novembre parigino e di tutte le complessità storiche e politiche che l’accompagnano. E quasi certamente sono portatori delle interpretazioni ascoltate dai grandi, spesso senza mediazione alcuna.

Non sarebbe male riprendere in classe questi temi, magari senza bisogno di organizzare chissà quali itinerari didattici: in fondo basterebbe mettere in dubbio qualche certezza. Perché, come ha scritto una volta Umberto Eco in un suo articolo sul “Corriere della Sera”, è importante imparare a confondersi le idee fin da piccoli, per avere le idee in chiaro da grandi (citazione a memoria, purtroppo: ma anche se non l’avesse scritto è comunque un bel trattatello di pedagogia).

Anche questa sarebbe educazione civica.

Insegnamento della religione in Ticino: la storia infinita

Il meno che si possa dire è che il tema dell’insegnamento della religione sta diventando una storia infinita, come se nella scuola pubblica non esistessero problemi più importanti. Lasciando perdere talune controversie di stampo vagamente ottocentesco, la spossante contrattazione tra Stato e chiese dura ormai da molti anni, benché il tema, in una Repubblica moderna e laica, dovrebbe essere prerogativa assoluta della politica.

Tanto per ravvivare la memoria: nel marzo del 2002 il parlamentare liberalsocialista Paolo Dedini aveva chiesto di sopprimere dalle griglie settimanali l’ora facoltativa di insegnamento religioso, accordata alle due chiese riconosciute, e di sostituirla invece con l’insegnamento «della storia delle religioni, dell’etica e della filosofia nel rispetto delle finalità della scuola».

Dato che il nostro è un paese esagerato, dove i messaggi partitici vanno sempre soppesati col bilancino dello speziale, ecco in dicembre una nuova iniziativa parlamentare, stavolta sottoscritta da un gruppo di gran consiglieri del centro-sinistra, capeggiato da Laura Sadis.

Mentre Dedini richiamava il valore fondamentale e insopprimibile di una visione umanistica della società, il nuovo atto parlamentare sottolineava come «l’ignoranza dei sia pur minimi elementi di cultura cristiana negli studenti delle scuole pubbliche ticinesi è sempre più generalizzata ed evidente». E buttava sul tavolo la proposta: «In tutte le scuole è impartito un corso di cultura religiosa». Va da sé: in questi quasi tre lustri è successo poco, salvo la sperimentazione di qualche modello alternativo in alcune sedi di scuola media, corredata dall’immancabile valutazione da parte della SUPSI.

È invece di questi giorni, apparsa su questo giornale, un’articolessa del deputato PLR Giorgio Pellanda. Uno concreto, come si dice. Premette che la riflessione trae linfa anche dalla sua condizione di ex docente. Poi precisa la propria credenza confessionale cattolica e chiarisce la consapevolezza «di esprimere il pensiero di tanti ticinesi agnostici o atei che tuttavia riconoscono nelle nostre radici cristiane un auspicato nutrimento spirituale per la pace sociale». Infine cala l’originale disegno di legge, che farebbe contenti tutti: cattolici e protestanti continuano con le loro ore di catechismo dentro la scuola pubblica, mentre chi non sceglie né l’una né l’altra, va obbligatoriamente al corso di storia delle religioni – una sorta di «liberi tutti», che accontenta però solo chi dice di credere nelle religioni di stato.

Sarebbe molto più logico se il catechismo le chiese se l’organizzassero in parrocchia. E non vedo nemmeno chissà quale bisogno di inventare una nuova disciplina, la storia delle religioni.

Nell’ambito delle materie che appartengono ai piani di studio c’è già tutto quel che serve per sconfiggere «l’ignoranza dei sia pur minimi elementi di cultura cristiana» menzionata dalla proposta di Laura Sadis. Ci sono i valori dell’umanesimo e della ragione, e di radici cristiane, lì, ce n’è in abbondanza.

Basterebbe trattare in maniera appassionante e rigorosa la letteratura e la poesia, la musica e la pittura, le arti tutte e la storia del pensiero, compreso quello matematico e scientifico. Il resto è solo finzione, genuflessa ai piedi di un cerchiobottismo parlamentare che perdura da troppi anni. Siamo una terra di fervidi credenti, a condizione che l’omelia sia breve e che i dieci comandamenti siano a geometria variabile.

Le proposte del ministro su HarmoS e il Piano di studi

Parrebbe che ai piani alti del nostro dipartimento dell’educazione ci sia un po’ di nervosismo. O, almeno, il clima sembra un po’ concitato. A inizio ottobre è apparsa sul Corriere una lettera aperta a Manuele Bertoli, direttore del DECS, con qualche domanda critica relativa all’obbligo della frequenza per i bambini di quattro anni. È una delle novità dell’accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria, noto come HarmoS, che sta muovendo i primi passi proprio quest’anno scolastico.

La risposta del ministro, un po’ piccata ma rassicurante, è giunta di corsa. Passa un giorno ed ecco una fulminante opinione di Lauro Tognola, uomo di scuola ora in pensione. Siamo ancora dalle parti di HarmoS e Tognola spara ad alzo zero sul «Piano di studio della scuola dell’obbligo», di recente pubblicazione. Lo giudica linguisticamente nauseante, pesante, ripetitivo e zeppo di ovvietà. E cita qualche passaggio un poco astruso: la «rendicontazione sociale dei risultati della produttività dell’azione scolastica» o la «pietra angolare intorno a cui si sviluppa la proposta curricolare», tanto per dirne un paio.

Anche stavolta, nel giro di ventiquattr’ore, giunge la risposta di Bertoli, che parte proprio dalla lingua del documento: «Può darsi – concede il ministro – che il linguaggio possa qua e là apparire ostico, ma il piano di studio non è un bestseller, bensì uno strumento di lavoro per i docenti».

Il problema non è la qualità letteraria del Piano o lo slancio appassionato che la trama del racconto dovrebbe scatenare. Tuttavia l’intreccio ha le sue singolarità e il linguaggio, qua e là, è ostile, condito con dosi smodate d’un pedagogichese fumoso benché di moda: ciò che non contribuisce a spianare la strada all’intento dichiarato di «affrontare la formazione in modo esplicito».

La chiarezza e il divieto perentorio di equivocare, o di interpretare secondo i propri comodi, sono irrinunciabili, soprattutto se si intende dar vita a una svolta storica, che rivolti la scuola come un calzino e, con alcune mosse ben studiate, dia scacco matto a tutti i suoi problemi, a partire dalla pesante selezione che interviene già dopo la seconda media, benché sia socialmente predisposta con largo anticipo.

Questo è l’anno del passaggio concreto ad HarmoS e ai suoi comandamenti. Poi ci si immergerà nell’ormai celebre «Scuola che verrà», un progetto che sarà presentato in primavera, dopo il lancio pubblicitario di un anno fa.

Non so da dove salti fuori questa fregola della rivoluzione copernicana a tutti i costi. Per iniziare sarebbe stato più utile avere il coraggio politico di metter mano alla Legge della scuola, per chiarire se la scuola dev’essere al servizio del Paese, dell’economia e della finanza, o di chi altro. In altre parole, bisognerebbe dichiarare a chiare lettere se la scolarizzazione obbligatoria a quattro anni deve mirare con determinazione alla formazione di base elevata di ogni futuro cittadino, oppure se sia più conveniente intervenire precocemente sulla selezione degli individui in base a criteri tutti da definire (si potrebbe chiedere ad Avenir Suisse, a costo zero).

Chi segue questa rubrica sa da che parte sto. I programmi della scuola dell’obbligo chiamano a gran voce essenzialità e chiarezza. Qualcuno, frattanto, dovrà spiegarci quando, come e con quali mezzi si procederà all’informazione dei docenti sul nuovo Piano di studi, come supplemento alla normale formazione continua.