La scuola come istituzione, non come servizio

Docenti e allievi, fra piani di studio e pressioni delle famiglie

Su La Regione del 17 giugno, Giuseppe Cotti, vicesindaco di Locarno, ha pubblicato un’interessante opinione col titolo «Non esiste scuola senza rispetto». Tocca in particolare due temi d’attualità. «Gli insegnanti – scrive – si sentono confrontati, con frequenza crescente, con un clima ostile da parte delle famiglie».

Cotti coglie bene uno degli aspetti scatenanti di questo grave malessere che attraversa la scuola, assieme alla sua società di riferimento: «La scuola non è un buffet à la carte né una Landsgemeinde. Non possiamo consentire che venga trattata come un’entità negoziabile in cui selezionare solo gli aspetti che ci soddisfano personalmente».

Concordo. Quasi trent’anni fa il pedagogista francese Philippe Meirieu aveva già lanciato questo monito in un autorevole libro – L’école ou la guerre civile (pp. 64-5), titolo quant’altri mai premonitore. «La scuola – si legge – deve rinunciare alla gestione giustapposta e conflittuale di milioni di interessi privati; deve tornare a essere un affare pubblico. In altre parole, la scuola non è un servizio, è un’istituzione».

Poi chiariva: «Cos’è un servizio? È un’organizzazione che “fornisce servizi” a un gruppo di persone. La Posta è un servizio, come la rete stradale. La qualità di un servizio si misura dalla soddisfazione dei suoi utenti. Tuttavia, in una repubblica, devono esistere almeno tre organizzazioni che sfuggono alla logica del servizio: la giustizia, l’esercito e l’educazione. Queste sono istituzioni. Non si giudicano dalla soddisfazione dei loro utenti. L’educazione, durante il periodo dell’obbligo scolastico, deve obbedire a specifici valori. Non può diventare l’arena della competizione sociale. Chiedere alla scuola di soddisfare l’ambizione individuale di ognuno è condannarsi alla scuola-supermercato».

Purtroppo, è quel che è successo e continua a succedere dentro quel mondo complicato che è la scuola dell’obbligo, schiacciata tra pressioni delle famiglie, piani di studio stipati di competenze trasversali, dimensioni curricolari e una sovrabbondanza di aree e discipline, col loro corollario di traguardi di competenza illusori: un piano di studio che porta dritti al menu à la carte. Tuttavia, è proprio da questo piano di studio che, spesso, le famiglie prendono spunto per accusare maestri delle scuole comunali e professori della scuola media del fatto che i loro figli non imparano le conoscenze e le competenze così copiosamente illustrate e commentate in quelle 200 pagine di buoni propositi – si fa ovviamente per dire.

Nel citato articolo, Cotti osserva pure che «“Penuria” oggi è la parola più sentita, nella politica svizzera. L’abbiamo sentita nei dibattiti sull’energia, sulla situazione idrologica, sui farmaci essenziali e, ovviamente, sulla manodopera. A quest’ultimo proposito, molti Dipartimenti cantonali dell’educazione si sono trovati in gravi difficoltà. La scarsità di docenti ha obbligato, per esempio a Zurigo, ad assumere anche persone che non possedevano le qualifiche necessarie per gestire una classe». Oddio, nulla di scandaloso nell’assumere insegnanti senza le qualifiche richieste – fatto questo che non mette al riparo da competenze professionali carenti: perché un conto sono i diplomi, un altro ciò che i docenti sono in grado di fare.

Tra l’altro è già successo, negli anni ’70, nel Vallese francofono. Anche in Ticino, una decina di anni fa, per far fronte a una carenza di insegnanti nella scuola elementare, si era “snellito” il curricolo formativo previsto dal Dipartimento formazione e apprendimento (DFA) della SUPSI, mandando gli studenti dell’ultimo anno a “impratichirsi” a metà tempo come insegnanti contitolari nella scuola reale, come se fosse stato così difficile sapere che negli anni ’10 di questo secolo sarebbe iniziato un sostanzioso cambio generazionale, che chiamava a gran voce nuovi insegnanti, giovani e ben preparati.

Purtroppo, invece, siamo daccapo, con l’aggravante che, accanto a una riduzione del numero medio di allievi per classe, con proporzionale aumento delle classi di scuola, sono state inventate diverse figure professionali che, come formazione di base, esigono la patente di maestro: docenti d’appoggio, risorse casi difficili, operatrici per l’integrazione, docenti di lingua e integrazione…

Con tutto ciò, questa sorta di riforma della scuola, che è nata e cresciuta nel breve volgere di un decennio, ha coinciso con un importante ricambio generazionale, che ha messo sotto pressione il DFA, che è l’istituto chiamato a formare i docenti delle scuole comunali e abilitare all’insegnamento quelli del settore medio, una scuola che è più o meno coetanea di questa scuola dell’obbligo delle competenze.

Tuttavia è difficile capire se i docenti attualmente in carica sanno destreggiarsi dentro la ragnatela del piano di studio e, nel contempo, gestire le relazioni e la comunicazione con le famiglie dei loro allievi: perché organizzare la vita della classe, cioè un gruppo basato sul diritto e non sugli affetti, richiede la necessaria serenità e un congruo entusiasmo.

Scritto per Naufraghi/e

I tempi della scuola

A ridosso dei giorni di fine anno scolastico, qualche considerazione sul calendario

Esiste un tempo giusto per andare a scuola? C’è qualche dato più o meno scientifico che determini quante ore alla settimana è necessario stare a scuola? E, parallelamente, qualcuno è in grado di dire con sicurezza qual è la miglior durata dell’anno scolastico e come si devono alternare i momenti scolastici e quelli dedicati al riposo? È una questione in parte astronomica, quasi cosmologica, e in altra parte antropologico-religiosa. Forse.

È sotto gli occhi di tutti che anche al centro dell’organizzazione dell’anno scolastico ci sia il Sole. Quando la terra avrà compiuto quattro rivoluzioni intorno al Sole, il bimbo nato poco dopo il solstizio d’estate dovrà andare a scuola. Ma l’economia preme, così che molti cuccioli di homo sapiens vanno già a scuola dopo tre giri, mentre altri sono affidati ai nidi per l’infanzia anche prima di concludere il primo giro: sennò non si sopravvive.

Questo circuito planetario scandisce tutto il resto. Dopo quei primi due giri obbligatori si entrerà nella scuola elementare, dove si permarrà per cinque giri. Poi nuovo cambio, per altri quattro giri. Da lì in avanti ognuno potrà continuare a inventarsi qualcosa al termine di ogni giro. Se lo desidera e glielo concedono.

Correttezza vuole che non si taccia sulle penitenze: come un grande gioco dell’oca, capita che qualche poveretto sia costretto a fare dei giri di penalità, oggi chiamati “rallentamenti” (una volta si chiamavano “bocciature”, ma la sostanza è la stessa): perché durante il giro bisogna superare tante prove, così da poter accedere direttamente al giro successivo.

C’è poi un secondo aspetto, antropologico-religioso, che determina i tempi. Come è noto, nel Canton Ticino l’anno scolastico apre i battenti a inizio settembre e chiude a metà giugno, dopo aver totalizzato 36 settimane e mezza (sic) di frequenza effettiva. Tra la partenza e l’arrivo si prevedono – ci mancherebbe – alcune soste per prendere fiato. Una pausa ogni tot settimane, come imporrebbe la logica? Neanche per sogno.

C’è una decina di giorni di vacanza attorno a Pasqua. Ma chi determina la data della Pasqua? Le necessità di riposo di docenti e allievi? No! La Pasqua è il deus ex machina delle feste mobili (e del calendario scolastico). La Pasqua cade nella domenica seguente il primo plenilunio che viene dopo l’equinozio di primavera. Chiaro? No? Amen.

Va da sé che la Pasqua, nel suo alone luminoso, genera innumerevoli altre pause. È il Cielo che prescrive le vacanze di Carnevale, così come il seguito di feste ammucchiate entro metà giugno (Ascensione, Pentecoste e, a volte, Corpus Domini). E le altre vacanze? Ci sono le vacanze autunnali, più note come «vacanze dei morti», che cascano in corrispondenza con Ognissanti. Seguono le mitiche vacanze di Natale. Restano le date d’inizio e fine dell’anno scolastico, nonché gli orari settimanali, che variano – e aumentano – in base all’età e alla tradizione. In Ticino le vacanze estive durano quasi due mesi e mezzo. In molti altri cantoni, soprattutto della svizzera tedesca, non è così, ma non è il caso di farne un dramma.

Nell’ultimo mezzo secolo sono cambiate tante cose. Sta cambiando il clima, e molti edifici scolastici sono stati ideati per riscaldare d’inverno, ma non per rinfrescare già in marzo. E tra i cambiamenti ai quali la scuola dovrebbe essere sensibile c’è tutto il mondo del lavoro, la qualità e l’entità dei salari, gli orari e la pianificazione delle vacanze.

La scuola ticinese sospesa in una bolla temporale (l’Aula storica Franscini di Lugano in una fotografia di Marco Beltrametti).

Così il cosiddetto doposcuola è diventato per molti una necessità sociale ed economica, e le ore del doposcuola possono essere più di quelle della scuola, anche se non si è capito come mai tocchi alla scuola, almeno quella obbligatoria, occuparsi anche dei suoi tempi morti – la refezione, il doposcuola, le colonie estive. Eppure, era cominciato col doposcuola ricreativo e artistico-sportivo, quello dei corsi di ceramica, pittura, teatro…

Poi arrivò il cosiddetto doposcuola sociale, per custodire i figli di tanti immigrati, di mamme sole che il sole non lo vedono mai, di poveri cristi che spesso non conoscono la lingua italiana, di famiglie che non hanno parenti nel territorio in cui vivono, lavorano e mandano i figli a scuola. Così sono nati gli asili-nido, le mense, le colonie diurne e quelle stanziali. Eravamo nella seconda metà degli anni ’70 del secolo passato.

Che ci siano i tempi della scuola e quelli della custodia e della sorveglianza è ormai un dato oggettivo, con percentuali di diffusione che variano naturalmente da un posto all’altro. Tuttavia, una maggiore articolazione tra i due potrebbe generare risultati vantaggiosi non solo, come ora, per l’economia privata, ma anche per gli allievi. Non si scordi che bambini, ragazzi e adolescenti che devono far capo ai servizi di custodia nei tempi morti della scuola portano sul groppone un carico supplementare di vita “sociale” – un po’ come fare gli straordinari: magari, al rientro, con qualche compito a casa, tanto per rallegrare quel breve tempo in famiglia, quando tutti sono stanchi morti.

 

Scritto per Naufraghi/e

La prima parte di questo articolo è stata tratta, con alcune modifiche, da un altro post presente in Cose di scuola: La scuola, la tradizione cattolica e il culto del sole (18.06.2014).

La foto di Marco Beltrametti (l’Aula storica Franscini di Lugano) è tratta dal progetto fotografico Aule.