In attesa delle elezioni nel paese della civica

Sulle vicende di vent’anni di dibattito sulla formazione alla cittadinanza nelle scuole e di quanto si stia palesando fra i candidati e gli elettori

La mia educazione alla cittadinanza si è avviata quando ho cominciato ad ascoltare gli adulti. Poi ho continuato con la formazione continua, che è pressoché quotidiana, come dovrebbe essere sempre. Quand’ero un ragazzino c’erano il notiziario di Radio Monteceneri, una sfilza di quotidiani e le discussioni dei grandi. Non ricordo d’aver mai incontrato l’educazione civica negli anni della mia scolarità, anche perché si tratta di un complesso di competenze che va al di là delle nozioni specifiche.

D’accordo, oggi i tempi sono cambiati, il mondo è magari più complesso, le nostre società sono sempre più multietniche, variegate, secolarizzate, consumiste; e stare al passo degli eventi è un’impresa ciclopica. Cosicché diventa sempre più difficile imparare a pensare con la propria testa, e ancora più difficile insegnarlo a chi, crescendo, si sta formando.

Una trentina di anni fa si è ricominciato a parlare di educazione alla cittadinanza, forse di fronte alla costante diminuzione della percentuale di votanti, alla trasformazione dei partiti – che un tempo si descrivevano come «cinghia di trasmissione della democrazia» –, alla svalorizzazione delle discipline umanistiche nella scuola. I Giovani liberali lanciarono un’iniziativa per l’introduzione dell’ora di civica a scuola e nel 2001 il Parlamento risolse di fare spazio a un nuovo articolo nella Legge della scuola, il 23a, che inaugurava l’insegnamento della civica e dell’educazione alla cittadinanza nelle scuole medie, medie superiori e professionali, per fortuna senza diventare materia autonoma.

Nel 2012 uno studio della SUPSI (Cittadini a scuola per esserlo nella società) mise in luce pregi e difetti della riforma. Ci fu subito chi se ne fece un baffo dei pregi e puntò sui difetti, mettendo sul tavolo una nuova iniziativa, «Educhiamo i giovani alla cittadinanza», che promuoveva in sostanza la civica a nuova disciplina, con relativa nota sul libretto. Promotore della nuova iniziativa popolare fu l’imprenditore Siccardi, forse preoccupato della nostra salute politica. La nuova raccolta di firme riuscì in tempi brevi e il Gran Consiglio accolse la proposta, ma si tornò lo stesso alle urne, verso un esito scontato [fu accolta, ndr].

Tra la prima e la seconda didattica della civica sono ormai passati una ventina di anni. Tenuto conto che si comincia nella scuola media, molti allievi di quegli anni sono oggi cittadini attivi: alcuni che, tra qualche giorno, voteranno per la prima volta, altri ormai degli habitué. In questi giorni la RSI ha pubblicato il suo consueto sondaggio preelettorale, con alcune proiezioni in vista delle elezioni ticinesi del 2 aprile. Sta bene, si tratta solo di ipotesi, ma sappiamo quanto, negli anni, gli strumenti per effettuare questo tipo di sondaggi si siano affinati. Così i numeri di cui disponiamo ci raccontano diverse cose interessanti.

Per cominciare, anche se lo sapevamo già, che per l’elezione di 90 parlamentari sono state presentate ben 14 liste, tra partiti, movimenti e gruppi ad hoc, per un totale di 916 candidati, per lo più sconosciuti: alla faccia di quella “cinghia di trasmissione” di cui parlavo. Si dice che c’è un candidato per ogni 250 potenziali elettori. Ma si ipotizza anche che la percentuale di chi non voterà un partito o un simil-partito aumenterà nuovamente, raggiungendo quasi un quarto dei votanti, in un contesto in cui oltre il 40% degli elettori potrebbe disertare le urne, e che circa un quinto andrà probabilmente a votare, ma senza che sappia ancora bene per chi.

Nelle ultime settimane i media hanno rimarcato come la campagna elettorale sia piuttosto piatta. Non ho seguito troppo attentamente le mosse dei candidati, ma ho notato, distrattamente, alcune peculiarità, che di politico non hanno molto. Si prevede un governo fotocopia – toh!? –, con la sostituzione del Consigliere di Stato socialista. Analogamente si racconta dell’UDC che vuol defenestrare il secondo leghista in governo per metterne uno dei suoi. Poi, a vanvera: quanti deputati eleggeranno i Liberali, quanti ne perderà la Lega, quanti partitini riusciranno a eleggere un deputato e quanti, invece, spegneranno la luce definitivamente. Si mangia polenta o risotto, ci sono i palloncini e tanti volti sconosciuti che si affacciano dai giornali, dagli striscioni, dai cartelloni e dai santini, con slogan e sintetiche intenzioni politiche assai simili tra loro.

All’inizio di tutto il discorso, dato che l’andare a votare per eleggere governanti e deputati è strettamente correlato con l’essere un buon cittadino, c’è la definizione stessa di cittadinanza – e in mancanza di una definizione diventa difficile inventare una materia scolastica: perché il mondo della scuola è separato dal mondo reale. Lo studio del 2012 della SUPSI ci aveva provato, riassumendone alcune peculiarità in un questionario. Dicendo, ad esempio, che un buon cittadino rispetta le leggi, conosce la storia del suo paese, segue temi politici nei giornali, alla radio o alla tv, partecipa a attività a beneficio della comunità, e numerose altre: tutti atteggiamenti complessi, che raramente si manifestano in questa campagna elettorale – e sarebbe interessante conoscere quanti parlamentari in pectore fanno tutte queste cose, oltre a mettere in pratica una decina di altre capacità del seppur breve, e contestabile!, elenco.

Forse andrà aggiornato il concetto di cittadinanza, o il programma dei corsi di civica. O entrambi.

 

Scritto per Naufraghi/e

Menti bilingui da offrire al mercato del lavoro

Scontro ai voti, in Gran Consiglio, sul tedesco in Prima Media: ha prevalso, una volta di più, un’idea “strumentale” di formazione scolastica, tutta orientata verso gli sbocchi professionali

Da almeno un paio di decenni la scuola pubblica sta subendo una strisciante trasformazione di senso, senza che qualcuno si alzi e dica cip. Da Istituzione dello Stato che intende promuovere lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà sta diventando sempre più un servizio genuflesso in favore dell’economia e del mondo del lavoro. Scriveva un gruppo di parlamentari in una mozione intitolata Anticipiamo l’insegnamento del tedesco (2017): Anticipare lo studio del tedesco permette ai ragazzi di crescere con una “mente bilingue”. Ciò presenta numerosi vantaggi e in primis sul mercato del lavoro.

In primis, come dicono loro, conviene precisare che la regola della “mente bilingue” è il bilinguismo precoce, vale a dire l’esposizione a due (o più) lingue in tenerissima età, di regola entro i tre anni, e non certo in un ambiente così formale e giudicante come la scuola.

Invece il rimando al mondo del lavoro ha radici più lontane. Tanto per citarne uno che mi ero segnato, nel 2002 il presidente (PLR) della commissione scolastica del Gran Consiglio aveva dichiarato a un domenicale che, secondo lui, a decidere quali lingue si devono studiare a scuola non dovrebbe essere lo Stato né il Dipartimento, bensì la società, il mercato. In quel medesimo ordine di idee si espresse pure il leghista Lorenzo Quadri durante la campagna per le elezioni cantonali del 2011: La scuola non potrà esimersi da un riorientamento nell’ottica di quelle che sono le richieste del mercato del lavoro. È evidente che le professioni “d’ufficio” sono sature. Mancano risorse nell’artigianato, nell’edilizia, nel sociosanitario. Altra misura necessaria: si metta il numero chiuso alle formazioni “letterarie” ed “artistiche” prive di sbocchi professionali.

È successo nuovamente il 13 marzo scorso, quando il Parlamento ha approvato, con 46 voti favorevoli (PLR, Lega e UDC) e 41 contrari, l’anticipo dell’insegnamento del tedesco in prima media entro l’anno scolastico 2025/2026.

Era già successo nei primi anni di questo secolo, quando il francese, fin lì lingua seconda – a decretare la selezione tra livelli A e B assieme alla matematica – fu svalutato e retrocesso per far posto all’inglese, mentre il tedesco fu promosso a partner della matematica, come nota da livelli A e B. Il francese, da par suo, fu potenziato nella scuola elementare e cessò di essere materia obbligatoria a partire dalla III media.

Va da sé che tra le varie dichiarazioni a sostegno di una scelta di questo genere non può mancare il tema della coesione nazionale, che imporrebbe prioritariamente di conoscere la Svizzera al di là del conoscerne la lingua. Ma ciò obbligherebbe a ripristinare il giusto spazio allo studio della storia e della geografia, la conoscenza essenziale delle letterature e delle culture di riferimento. Così la scuola potrebbe pure farsi carico, lungo i quattro anni della scuola media, di predisporre delle impagabili occasioni di incontro, di studio e di scambio con studenti di regioni e cantoni ai quattro angoli del Paese.

Quindi, più che anticipare l’insegnamento delle lingue nazionali e aumentarne le ore – le lingue seconde, quando sono caricate a test e note scolastiche, sono assai spesso armi letali… – converrebbe aumentare sostanzialmente (quantità e qualità) i soggiorni linguistici sin dall’età più tenera. Senza poi scordare che prima del tedesco i confederati imparano e parlano lo Schwyzerdütsch. E continuano anche dopo.

Infine sarà interessante vedere come questo anticipo dell’insegnamento del tedesco, che in realtà è anche un concreto aumento di ore, sarà organizzato dentro una griglia oraria settimanale già molto affollata e stancante. Qualche disciplina ci lascerà le penne, e sappiamo bene come le lobby di materia difendano coi denti la loro dotazione oraria.

Naturalmente la questione delle lingue della scuola non è terminata nella tarda serata del 13 marzo. La “trattanda” comprendeva pure un modifica della Legge della scuola a favore delle scuole private (ma non solo). In buona sostanza si proponeva di permettere lo svolgimento delle lezioni in un’altra lingua nazionale svizzera o in inglese, al posto dell’obbligo previsto attualmente: «Agli allievi in età d’obbligo scolastico l’insegnamento dev’essere impartito in lingua italiana». L’iniziativa parlamentare è stata ritirata «alla luce delle resistenze delle ultime settimane», ha motivato il primo firmatario della proposta.

Tra le “resistenze dell’ultima settimana” se n’erano manifestate due piuttosto pesanti il giorno stesso: una da parte di Diego Erba, coordinatore del Forum per l’italiano in Svizzera (Il veleno sta nella coda, su La Regione); l’altra firmata da Manuele Bertoli, direttore del DECS (La svendita della propria identità, sul Corriere del Ticino). «Da presidente del Forum per l’italiano – ha sottolineato il ministro – in Svizzera ho difeso, con altri, l’italianità in tutto il Paese, ma non credevo di dover arrivare al punto di doverla difendere anche in Ticino. Oltretutto in nome di una commercializzazione della scuola, perché non si vedono all’orizzonte soggetti senza scopo di lucro interessati particolarmente ad offrire questi curricoli».

Pamini ha assicurato: «Nella prossima legislatura faremo una nuova proposta, riservandoci la via dell’iniziativa popolare, perché siamo stufi di questo approccio statalista e monoculturale». O tempora, o mores.

 

Scritto per Naufraghi/e

Qui si trovano le informazioni e i documenti relativi alla “Trattanda n° 11” dell’ordine del giorno della seduta del Gran consiglio di lunedì 13 marzo 2023.

Lezioni sulla scuola dentro spazi pubblicitari

Attraverso tesi stravaganti l’imprenditore Alberto Siccardi ammonisce, a pagamento, sui mali della scuola pubblica e le virtù di quella privata

Da qualche anno gli unici due quotidiani ticinesi rimasti pubblicano con regolarità un’intera pagina gestita dalla società anonima Spazio libero SA, su – si legge nello statuto societario – «temi di attualità all’attenzione dei cittadini e delle cittadine del Cantone Ticino». È una propaganda politica che stride soprattutto con la linea editoriale del bellinzonese “LaRegione”, anche se, in fondo, è un problema suo: quando servono soldi non ci si scandalizza per così poco – e i lettori non sono obbligati a soffermarsi sulle inserzioni pubblicitarie.

Sono un frequentatore casuale e distratto di quelle pagine. Ma qualche giorno fa (vedi “LaRegione” e “Corriere del Ticino” del 2.3.23) un paio di parole in un titolo hanno attirato la mia attenzione: «La scuola, i figli, l’educazione che vogliamo». Confesso che mi è scappata la parolaccia.

L’articolo (chiamiamolo così benché sia, appunto, un’inserzione pubblicitaria) se la prende in entrata col ’68 e i sessantottini, accusati di aver commesso una montagna di danni culturali e morali, di aver preso possesso della scuola e non essersi più schiodati da lì. Oddio, ricordo abbastanza bene quegli anni. Quando il ’68 esplose in Ticino (occupazione dell’aula 20 della scuola magistrale) avevo quindici anni e frequentavo il ginnasio.

Ho in mente, nei primi anni ’70, taluni eccessi, sia alla scuola magistrale che nelle aule ticinesi, ma bisogna stare attenti a non buttar via il bambino con l’acqua sporca. Non si può scrivere, come fa il nostro “opinionista”, ovvero l’imprenditore Alberto Siccardi, che «I nostri ragazzi oggi si dividono sostanzialmente in due gruppi, a seconda della famiglia da cui provengono: i conservatori e i partigiani dei cambiamenti. Frequentano le stesse scuole ma in aula prevale la tendenza al cambiamento, che è invece avversato dai ragazzi conservatori e dai loro genitori. Molti insegnanti sono rimasti al ’68 e hanno preso la leadership nella scuola».

A parte che gli insegnanti che hanno vissuto il ’68 sono tutti in pensione, qualcuno riesce a immaginarsi alti funzionari dell’allora DPE – penso ad Armando Giaccardi, Sergio Caratti o Diego Erba, per fare qualche nome di quegli anni – coimputati del «variegato terremoto culturale» che ha annientato anche «la triade famiglia-scuola-Chiesa [che] non insegna più gli stessi valori» di una volta? Mi piace ricordare i consiglieri di Stato, tutti liberali radicali, che hanno guidato la nostra scuola dagli anni ’70: Bixio Celio, Ugo Sadis, Carlo Speziali, Giuseppe Buffi e Gabriele Gendotti, non certo pericolosi comunisti al soldo di Mosca, senza che nessuno se ne accorgesse per quasi mezzo secolo.

In realtà la scuola ticinese è una buona scuola, coi suoi pregi e i suoi difetti. Come tante scuole in giro per l’Europa è piuttosto conservatrice, quantunque vada di moda dire che la scuola sia un “cantiere sempre aperto”. A partire dagli anni ’70 molte cose sono cambiate, sono nate nuove leggi, nuove prospettive, nuove materie di studio. La democratizzazione degli studi ha diffuso i licei nel cantone, consentendo a tanti giovani di frequentare ancor oggi i politecnici e le università elvetiche, nonché ottimi centri di formazione e specializzazione professionale. Tra i tanti, i principali punti nodali della formazione sono la difficoltà, assai diffusa tra i docenti, di rinnovare il proprio modo di insegnare e di comunicare con le nuove generazioni, e l’isolamento in cui si è cacciata la Svizzera nei confronti dell’Europa: altro che sessantottini al potere e rivoluzionarismo senza data di scadenza.

Naturalmente il prototipo di scuola che vagheggia Siccardi in “Spazio libero SA” porta negli USA, il cui sistema scolastico è esaltato in poche righe: in sostanza, quel che interessa è la possibilità di accedere alla scuola privata. Si dà per scontato che il ’68 ha fatto macelli anche lì, con la divisione culturale tra le famiglie conservatrici e quelle più aperte ai cambiamenti. Viene in mente la polemica di qualche anno fa, tutta americana, tra evoluzionisti e creazionisti, per decidere cosa si dovesse insegnare nelle scuole della nazione, Adamo ed Eva o Darwin – tanto per ricordare che, anche nella patria di grandi educatori come John Dewey e Jerome Bruner, eccellenze scientifiche e umaniste possono scontrarsi col peggiore bigottismo.

Ma ecco la soluzione. Scrive “Spazio libero SA” che la voragine culturale provocata dal ’68 «Ha portato in molti degli Stati americani alla istituzione di voucher per gli studenti che rifiutano la scuola statale “progressista” e vogliono frequentare quella privata, appositamente creata allo scopo di dare democraticamente ad ognuno la possibilità di scegliere l’educazione che preferisce. Si parla di assegni di 7’000 dollari all’anno! Così facendo si creano due mondi politico-sociali».

C’è una data che il Ticino non può scordare: 18 febbraio 2001. Quel giorno si votò sull’iniziativa popolare denominata «Per un’effettiva libertà di scelta della scuola». Lanciata nel 1997 da ambienti di destra, chiedeva un contributo per le famiglie i cui figli frequentavano una scuola privata. Al voto popolare la proposta fu respinta dal 74.1% degli elettori ticinesi.

 

Scritto per Naufraghi/e