C’è una nuova parola che circola nel contesto pedagogico ticinese da un paio d’anni: inclusione, erede diretta di integrazione e di accoglienza, che hanno caratterizzato gli ultimi due o tre decenni. «Scuola Ticinese», periodico della Divisione della scuola del DECS, ha dedicato un suo recente numero monografico al tema dell’inclusione. E di inclusione si parla anche nel comunicato stampa del DECS dedicato alla quinta indagine internazionale PISA. Vi si legge:
Uno dei capisaldi della scuola ticinese è l’inclusione: il sistema cerca infatti di accogliere al proprio interno il maggior numero di allievi, evitando il più possibile separazioni di tipo strutturale. Questo implica di riflesso la presenza di classi maggiormente eterogenee, come succede nei sistemi scolastici con i migliori risultati, ma di più difficile gestione se non accompagnate da adeguate misure pedagogiche. Partendo dal presupposto che la scuola ticinese intende mantenere, se non rafforzare, la sua natura inclusiva, è necessario un cambiamento che, pur preservando i principi della scuola attuale, permetta ai docenti di disporre di strumenti più efficaci attraverso i quali gestire l’eterogeneità in classe. Maggiore differenziazione, percorsi più personalizzati, incoraggiamento della collaborazione tra docenti e una griglia oraria più flessibile potrebbero essere delle risposte a queste sfide.
I «casi difficili»
In un commento al mio articolo W l’eterogeneità, W le pluriclassi!, Doriano Buffi, direttore di scuola comunale, ha toccato il tema dell’inclusione riferendosi ai cosiddetti casi difficili (si veda in calce all’articolo il suo primo commento un po’ maldestro, seguito dalla mia reazione e dalla sua precisazione). L’argomento rimanda dritti dritti al lodevole proposito dipartimentale, e fanno bene i suoi vertici politici e pedagogici a mirare al nobile obiettivo di accogliere all’interno dei normali canali scolastici il maggior numero possibile di allievi, evitando separazioni di tipo strutturale. Giustamente lo stesso Dipartimento auspica «un cambiamento che (…) permetta ai docenti di disporre di strumenti più efficaci attraverso i quali gestire l’eterogeneità in classe» attraverso «maggiore differenziazione, percorsi più personalizzati, incoraggiamento della collaborazione tra docenti e una griglia oraria più flessibile».
In tanti anni di esperienza ho avuto spesso a che fare con casi difficili, a volte già alla scuola dell’infanzia, e ben prima che si cominciasse a parlarne come di un problema. Detto per inciso: si sa che quando si comincia a parlare di qualche nuovo fenomeno è perché i casi si stanno moltiplicando e, sovente, i buoi sono almeno sull’uscio, pronti a uscire dalla stalla. Chiuso l’inciso.
Quei casi sono triplicemente difficili. Lo sono perché i bambini o i ragazzi soffrono assieme alle loro famiglie. Lo sono perché l’insegnante e gli altri allievi si vedono l’ambiente di lavoro disturbato pesantemente, un ambiente costruito in tanti mesi di impegno assiduo o magari, invece, ancor tutto da creare. E lo sono pure per le cosiddette autorità scolastiche al fronte – ispettori, direttori, capigruppo del sostegno pedagogico – che sanno molto bene come gli strumenti a loro disposizione siano fragili o inesistenti e, soprattutto, richiedano tempi lunghi per essere attivati. Si creano così situazioni drammatiche, grondanti frustrazioni a 360 gradi, senza parlare del pietoso festival delle arrampicate sui vetri, nell’estenuante tentativo di limitare i danni in attesa di escogitare una soluzione precaria.
In questi casi non è lecito intervenire nell’ambito dell’inclusione a priori. Si deve capire che questi casi difficili non possono essere affrontati all’interno della classe, nemmeno con la presenza in aula di personale supplementare, peraltro mai a tempo pieno e quasi mai disponibile dall’oggi al domani. Per contro occorrerebbero strutture in grado di proteggere questi allievi e le loro famiglie e, nel contempo, di intervenire sulle cause che provocano i comportamenti devianti, con l’obiettivo di raggiungere l’inclusione nel tempo più breve: per taluni potrebbero essere poche settimane, per altri anni interi. La presenza di un bambino difficile in una sezione di scuola dell’infanzia o elementare ha effetti devastanti, con ricadute incontrollabili su tutta la scuola. Sono casi che annichiliscono la necessaria serenità che serve per mettere in atto il già difficile compito di educare all’interno di un gruppo attraverso il lavoro dell’imparare.
Tenere in classe questi seppur pochi casi difficili sarà anche politicamente corretto, ma alla fine è logorante e, nel contempo, non fa il bene della scuola né, ovviamente, di quegli stessi allievi. Siamo insomma confrontati con casi psichiatrici. Dalle maestre e dai maestri delle scuole dell’infanzia ed elementari, che sono dei generalisti, non possiamo continuare a pretendere che, oltre a tutti i compiti che son stati loro assegnati negli ultimi quarant’anni, siano pure in grado di affrontare situazioni che neanche gli specialisti saprebbero gestire in situazioni analoghe.
I diversi «non difficili»
Diversa è la vicenda, invece, di alcuni allievi che non sono di per sé casi difficili, ma finiscono assai spesso in quel benemerito settore scolastico che si chiama scuola speciale. Penso, in particolare, a quei bambini o ragazzi dalle capacità intellettive lievemente ridotte, leggeri ritardi che rendono particolarmente difficile la loro inclusione nelle classi «normali», essenzialmente a causa del fatto che nelle classi «normali» – le virgolette sono naturalmente una scelta consapevole – vige il primato della prestazione prettamente scolastica, appesantito da un accanimento valutativo e sommativo che non giova a nessuno. Questa indifferenza alle differenze, che si traduce, ad esempio, nella certificazione annuale, cozza in maniera apertamente contraddittoria contro quella differenziazione dell’insegnamento e quei percorsi personalizzati di cui parla il Dipartimento.
Vi sono allievi che finiscono a scuola speciale perché non raggiungono determinati obiettivi dei programmi nei tempi prestabiliti, tempi che sono fissati dalle statistiche della psicologia cognitiva e da quelle, più empiriche, dell’esperienza. Ho visto ragazzi finire a scuola speciale perché, ad esempio, dopo aver rinviato l’inizio della scuola obbligatoria e aver ripetuto poi una classe, rischiavano di ritrovarsi con delle competenze scolastiche inadeguate per l’età, mentre il corpo era già quello di un preadolescente. Per questi ragazzi l’alternativa alla scuola speciale poteva essere il disimpegno della scuola: li si aiutava a cavarsela in qualche modo per tirare a campare fino al termine della scuola elementare, assegnando delle sufficienze che nascondevano gravi lacune e che si aggravavano col trascorrere degli anni. Qualcuno sarebbe riuscito a barcamenarsi fino ai quindici anni, qualche altro sarebbe diventato un caso difficile.
Ancora una volta, quindi, W la massima eterogeneità. Per una volta mi sento di sognare anch’io coi vertici del Dipartimento dell’Educazione: la scuola indicata, quella dell’inclusione, è l’unica che può Educare per davvero. Ma occorre azzerare le contraddizioni interne, la più vistosa delle quali resta la selezione dei «migliori», o quantomeno la loro classificazione, attraverso programmi scolastici ingiustificabili, che sono soggettivamente valutati a scadenze ravvicinate e regolari – con tanto di promozioni e bocciature – senza tener conto delle differenze individuali. Le pari opportunità sono state una conquista; oggi, tuttavia, non devono impedire di mirare alla parità dei risultati a livello elevato, vale a dire al raggiungimento del risultato massimo a cui ognuno può spingersi.