Vivere la cittadinanza, un requisito per poterla imparare

Brutta bestia, l’educazione alla cittadinanza. Più che la matematica e le tante discipline scolastiche, essa esige condizioni di apprendimento che travalicano le quattro mura dell’aula. Per dire che non è sufficiente mandare a memoria le definizioni dei tre poteri dello Stato per esser diventato un cittadino consapevole, uno che contribuisce concretamente alla vita, possibilmente serena e pacifica, del Paese. Il cittadino consapevole lo si riconosce quando compila la dichiarazione delle imposte, quando legge o non legge i quotidiani, e quali legge e cosa legge; lo si capisce quando espone le sue idee sui tanti blog e social network, magari mettendoci la firma; lo si valuta per come rispetta o disprezza le istituzioni.

Se n’è accorta la Francia, all’indomani dei tragici avvenimenti d’inizio gennaio. La République è sicuramente il paese europeo che investe di più in materia di educazione civica. Come ha sottolineato Le Monde, «è il solo paese in cui i corsi di educazione civica figurano nella griglia oraria, dalla scuola elementare al liceo, ed è l’unico ad avere un modello pedagogico tanto completo da unire lezioni, partecipazione degli allievi alla vita del loro istituto e progetti educativi sulla cittadinanza. I programmi spaziano dalle istituzioni della Repubblica e dei suoi valori alle regole della civile convivenza, passando attraverso l’educazione allo sviluppo sostenibile, ai mass media, alla salute, e via di seguito». Questo, almeno, in teoria e sulla carta, come spesso accade. Eppure il primo ministro Manuel Valls ha sentito il dovere di affermare che «la cittadinanza – non parliamo di integrazione, dimentichiamo le parole che non significano nulla – ha bisogno di essere rifatta, rinforzata, legittimata». E, riferendosi alle banlieue, ha aggiunto che in Francia esiste «un’apartheid territoriale, sociale, etnica».

Ma che significa? Cosa c’entra l’apartheid con la scuola e l’educazione alla cittadinanza? Non servono chissà quali sforzi di immaginazione per figurarsi una scuola dell’obbligo di un sobborgo parigino nel quale nessuno è intervenuto per evitare forme estreme di ghettizzazione economica e socioculturale. È anche in quelle scuole che lo Stato repubblicano si gioca la credibilità. Quale educazione civica potrà mai svilupparsi in un quartiere popolare, se la sede scolastica accoglie per lo più ragazzi e adolescenti il cui futuro è bollato dall’emarginazione sin dalla culla? Dove sono l’uguaglianza, la solidarietà e la fratellanza, i grandi valori repubblicani che dovrebbero sostenere il progetto di educazione alla cittadinanza? Per imparare a conoscere i valori della società è necessario crescere in quella società e incontrare giorno dopo giorno i propri concittadini, in un contesto sociale e scolastico immune da ogni forma di segregazione. Anche nel nostro piccolo cantone ci sono istituti scolastici in cui l’esperienza civica quotidiana si fa vieppiù difficile. Certo, la Svizzera e il Ticino non sono la Francia. Ma le vie dell’esclusione e dell’emarginazione sono subdole e solo apparentemente enigmatiche. Forse è giunto il momento, soprattutto a livello di scuola media, di ripensare seriamente almeno due principi costitutivi: quello della massima mescolanza socioculturale e quello delle dimensioni. Perché, guarda te il caso!, più le scuole sono affollate, più la scala sociale s’abbassa. Quando oltre un terzo degli allievi è in difficoltà scolastica e sociale, educare, e non solo alla cittadinanza, diventa un problema.

2 commenti su “Vivere la cittadinanza, un requisito per poterla imparare”

  1. Personalmente ho un’altra chiave di lettura del fenomeno, anche se le ipotesi dell’amico Adolfo sulla mescolanza sociale e sulle dimensioni ci stanno perfettamente.
    Vivere la cittadinanza significa, ahimè!, vivere prima di tutto il proprio ruolo di consumatore: niente di più! La scuola, nel suo inconscio collettivo, educa essenzialmente al consumo. Senza rendersene conto, prepara i cittadini di domani ad essere dei buoni consumatori dei più svariati prodotti. Tra questi vi è il sapere! Quest’ultimo non serve più ad emancipare l’uomo dalla sua condizione naturale, ma è un prodotto che bisogna consumare; e più se ne consuma, meglio è! La scuola moderna è un’industria che produce del sapere. Questo sapere va consumato nei tempi e nei luoghi prestabiliti, affinché vi sia ancor più legittimità per l’industria che la produce. Non so se avete mai osservato la quantità di piccole e medie aziende che operano nel settore del sostegno e dello sviluppo psico-educativo: un business milionario! E questo serve a tutte le categorie sociali. Chi sta ai vertici della scala sociale consuma tanto quanto chi sta in basso, certo con una capitalizzazione diversa, ma con un’intensità identica! Ben vengano allora i resistenti, quelli che non vogliono o possono consumare come l’industria vorrebbe. Sono queste persone che ci ricordano che il mercato può anche fallire!

  2. Un caro amico, che segue Cose di scuola dalla prima ora, mi ha segnalato un contributo molto interessante di Tullio De Mauro, pubblicato dal settimanale Internazionale del 6 febbraio: «Il caos e le stie». Mi piace, tuttavia, aggiungere un importante documento pubblicato dal Ministère de l’Éducation nationale, de l’Enseignement supérieur et de la Recherche all’indomani dei gravi fatti di Parigi, nell’ambito della Grande mobilisation de l’École pour les valeurs de la République. Il tema della mescolanza sociale, da favorire negli istituti scolastici, è del tutto sconosciuto nel nostro cantone (e in Italia). Il grande sogno di un’educazione alla cittadinanza che miri a obiettivi fondatori, e non solo alle solite menate della politique politicienne, passa anche da lì.
    Per chi volesse approfondire la problematica in generale o la reazione francese in particolare raccomando due interventi di Philippe Meirieu pubblicati sul sito «Le café pédagogique»: Pour que nos émotions soient vraiment démocratiques !, del 16 gennaio, e Des rituels, oui… mais lesquels ?, del 30 gennaio.

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