Ci fu un tempo durante il quale la spiegazione d’ogni avvenimento un po’ insolito risiedeva nella Società. Era un’epoca di furore sociologico, e così la manifestazione di piazza, lo spinello, il ladro di polli e l’omicida impazzito erano il segno inequivocabile della società malata: perché ingiusta, discriminante, colonizzata dalla coca-cola e via di questo passo.
Col ritorno al privato (“Penso per me, mi occupo di me…”) e la globalizzazione dei mercati e delle comunicazioni, la società come capro espiatorio è andata un po’ in disuso: per le cose vicine, si preferisce trovare nella famiglia in crisi la radice d’ogni male; per quelle lontane ci si rifugia in un più semplice e ipocritamente inquisitorio “Ma dove andremo a finire?”. Così i persistenti vandalismi notturni nelle città erompono da famiglie che non han più sotto controllo i figli adolescenti, che possono compiere nottetempo le loro dannose scorribande; mentre l’attacco alle Twin Towers appartiene alla crisi inspiegabile del pianeta.
Il settembre nero del nostro Paese – ma è finita? – ha offerto alcuni drammatici spunti che sfuggono a queste frettolose semplificazioni, ma pongono nuovi, inquietanti interrogativi. Per prima c’è stata la carneficina al Parlamento di Zugo: un ultracinquantenne pluricondannato, pedofilo, violento, attaccabrighe, conosciuto dalla polizia di diversi cantoni (e non solo) vive tranquillamente e si sposta a suo agio per il Paese, acquista armi da guerra in tutta legittimità e un bel giorno sfoga le sue frustrazioni sgravando i caricatori. Si poteva prevedere? Che ammazzasse forse no; che fosse socialmente pericoloso indubbiamente sì.
Passano alcuni giorni e la Swissair va a gambe all’aria. Uno dei simboli della Svizzera moderna, un’impresa ricca e potente, si ritrova all’istante senza neanche più gli spiccioli per acquistare il carburante. I soliti esperti di turno tuonano dai pulpiti massmediatici: imbecilli i manager di Swissair, arroganti i banchieri, inetti i politici. Insomma: non è colpa della Famiglia, né della Società… C’è da scommettere che, in questo forsennato incrociarsi di accuse, nessuno pagherà, nessuna testa cadrà.
Pochi giorni ancora, ed è il Ticino a guadagnarsi i titoli di prima pagina: finiscono al fresco il vicedirettore e il vicepresidente di un istituto bancario (un anno fa sarebbero stati ricoverati al Civico). Sembra che, nella loro personalissima corsa al profitto, abbiano provocato un buco di una ventina di milioni. Ma – s’è scritto – cosa sono venti milioni? Minuzie che non possono intaccare seriamente l’attività dell’istituto di credito: quasi quasi potevamo pure non accorgercene.
Come non percepire che dietro tutti questi avvenimenti vi sono messaggi educativi che vanno dritti dritti al cuore di ognuno? Come non rendersi conto che questi eventi hanno una valenza pedagogica, caratterizzata da un vuoto etico insopportabile? Come diceva Norberto Bobbio, la differenza tra governanti e governati è la stessa che corre tra due gocce d’acqua. Ecco allora che l’immoralità insita nel comportamento di tutti i protagonisti di queste storie non è diversa da quella dell’adolescente che imbratta la città coi suoi graffiti, né da quella del ragazzino che arraffa di soppiatto le caramelle al supermercato, né da quella del genitore che non si occupa degnamente dell’educazione dei propri figli: sono tutti comportamenti egualmente da esecrare. Ma – scappa da dire! – se l’esempio vien dall’alto…
Nel frattempo la Commissione scolastica del nostro Gran Consiglio sta discutendo i modi d’introduzione della civica nella scuola media, civica invocata a suon di firme dai giovani liberali. Da quanto s’è letto fin qui, si consolida il timore che la civica diventerà una nuova materia, con tanto di nota e di nuovi bocciati (a proposito: che importanza avrà un 3 in civica?), mentre qualche altra disciplina ne farà le spese. Ma il senso etico, il senso dello Stato, non lo si riesumerà con l’ora di civica, soprattutto se si pon mente al fatto che nel recente passato si è falcidiato il tempo dedicato alle materie umanistiche.
Come dire che invece di affrontare di petto le questioni fondamentali, ci eclissiamo dietro il tradizionale dito e slittiamo pericolosamente verso il paradigma delle 3 i teorizzato da Berlusconi: inglese, informatica e impunità.