Ha scritto recentemente un giornalista d’oltre Gottardo su un quotidiano cantonale: “Lunedì si sono aperte le scuole, dopo undici settimane di vacanza. Tanti genitori tirano un sospiro di sollievo, perché dopo quasi tre mesi di ferie non sapevano più cosa fare con i propri figli e finalmente possono riprendere un ritmo regolare”. E prosegue, tra lo scandalizzato e il naïf: “Visto che già le ultime due settimane scolastiche prima delle vacanze estive passano fra lido, giochi e feste finali, il periodo effettivo dell’interruzione dell’insegnamento è di tre mesi”. Patapumfete!
Mi piace il riferimento forse autobiografico a quei genitori che, spossati dalla quotidiana sopportazione della numerosa prole, sospirano sollevati, perché potranno finalmente riconsegnare i loro fardelli allo Stato, dopo troppe settimane superflue e sconclusionate. Quanto a me, rimpiango i tempi in cui la scuola riapriva a metà settembre, tanto che le vacanze estive, pur senza lido ma coi giochi e le feste finali, duravano ben più di tre mesi. Ma così va il mondo elvetico: dopo anni di discussioni animose, i cantoni sono riusciti a sincronizzare l’inizio dell’anno scolastico, ma resta quel pizzico di stizza per noi cugini del sud, che facciamo le cicale per tutta l’estate e, per sovrapprezzo, abbiamo anche il calendario scolastico più mingherlino dell’intero Paese.
Molto schiettamente non ho mai capito questa sottile commiserazione dei confederati nei confronti delle nostre vacanze estive; quando parli con loro, pare sempre che le sventure del nostro Cantone siano la logica e prevedibile conseguenza di queste sconfinate ferie, che ci disabituano sin dalla più tenera età allo sforzo e alla concentrazione, facendo di noi un popolo di macchiette inaffidabili. Eppure di cose più serie da raccontare sulla scansione dei nostri tempi scolastici ce ne sarebbero parecchie. Ad esempio, l’anno scolastico va da settembre a giugno ed è inframmezzato da quattro pause che scandiscono il tempo secondo il calendario liturgico: Ognissanti, Natale, Le Ceneri e Pasqua, con volata finale zeppa di feste infrasettimanali. Eppure si potrebbe far meglio, per esempio contando i giorni di scuola e dividendoli in quattro porzioni equivalenti: siamo o non siamo uno stato laico?
Ovviamente il ragionamento del nostro giornalista alemanno non è tutto da buttare: “il problema – scrive ancora – è particolarmente sentito da genitori monoparentali e da genitori entrambi attivi professionalmente, le cui vacanze si limitano alle classiche quattro o cinque settimane annuali”. Ma la soluzione, a questo punto, non può essere quella di abbreviare le vacanze estive (diciamolo: allungando le altre), perché molti sono i casi in cui le classiche quattro o cinque settimane di vacanza capitino dappertutto men che d’estate. Ragionando in questi termini si potrebbe arrivare a vagheggiare una scuola aperta ventiquattr’ore su ventiquattro per 365 giorni l’anno, così da collimare con le esigenze di chi lavora di notte e sfacchina anche durante le feste comandate.
Ma è lecito chiedersi se il compito primario della scuola debba configurarsi nella sorveglianza dei bambini e dei ragazzi allo scopo di permettere un ben oliato funzionamento del mondo produttivo, garantendo a ogni genitore di recarsi al lavoro senza curarsi personalmente dei propri figli. Potrebbe anche darsi che il futuro sia da quelle parti e che la scuola debba riformarsi nei suoi tempi prima che nelle sue finalità. Credo però che le soluzioni migliori siano da ricercare nella politica di sostegno alle famiglie: sennò, per l’ennesima volta, a farne le spese saranno la Società civile e i suoi anelli più deboli, cioè quelli che devono lavorare in due per accostarsi a un solo salario di quelli che possono.