Si sente spesso dire che la scuola è un cantiere sempre aperto, che poi, ogni tanto, crea il capolavoro, la riforma epocale. Tutto è storico, tutto è rivoluzionario – o, almeno, profondamente riformistico. Per restare a questo Cantone e lasciando perdere le iperboli della globalizzazione, credo che l’ultima riforma epocale della scuola ticinese sia l’istituzione della scuola media nel 1974. Insomma, tanti anni fa.
Se lasciamo perdere i tanti compromessi che si sono succeduti fino a oggi – i sistemi si assestano, per difendere le posizioni acquisite e far sì che i cambiamenti non siano troppo innovativi – bisogna ammettere che la storica decisione innescò innumerevoli altre trasformazioni: oltre alla soppressione della scuola maggiore e del ginnasio, la fondamentale riforma determinò la diffusione dei licei, l’ideazione di una nuova legge della scuola, la riforma degli studi magistrali, i nuovi programmi della scuola elementare.
Non da ultimo, la scuola dell’obbligo diventò più lunga di un anno, cancellando quei segmenti scolastici inventati per colmare il buco tra la licenza di scuola maggiore e il traguardo delle quindici candeline sulla torta: in pratica le scuole di avviamento professionale e di economia domestica.
Con gli occhi di oggi si potrebbe arguire che, in definitiva, non è successo nulla di importante, anche perché il mondo circostante è cambiato di più e più in fretta, mentre la cinica selezione scolastica è ancora lì a determinare gran parte della politica scolastica, spesso come atteggiamento reazionario nei confronti di una scuola media che, sino a oggi, non è comunque riuscita a mantenere tutte le promesse di quegli anni lontani, così ardenti e traboccanti di sogni.
Per chiarezza, sono dell’opinione che il progetto «La scuola che verrà» ha poco di storicamente rilevante, tanto che è ancora da capire se, nei confronti delle più alte finalità della scuola pubblica e obbligatoria, cambierà concretamente qualcosa. Per ora la selezione scolastica percorre ancora strade darwiniste, il calendario scolastico si rifà a quello della nascita della scuola popolare (oltre due secoli fa), l’organizzazione di base è impantanata nella sacra triade dell’insegnante che lavora nella Sua aula e coi Suoi allievi. Siamo fermi all’Ottocento.
Mi ha colpito una recente decisione del governo ginevrino, che ha allungato l’obbligatorietà della frequenza scolastica fino a 18 anni, quindi tre in più rispetto alla tradizione che prevede il «liberi tutti» a 15 anni. I motivi della decisione – che, di per sé, non ha niente di epocale, considerata la percentuale altissima di ragazzi che continua la sua formazione dopo il termine anagrafico – sono molto pragmatici: «Circa 1000 giovani, di cui la metà minorenni – ha scritto la Tribune de Genève – interrompono annualmente la loro formazione alla scadenza dei 15 anni. Secondo il Dipartimento dell’istruzione pubblica il rischio che si ritrovino disoccupati è quattro volte più alto di ogni giovane diplomato». Pensiamoci. Il limite dei 15 anni prima di andare a lavorare è stato fissato quando il mondo era un altro. Quella sì, potrebbe trasformarsi in una riforma epocale, perché permetterebbe di riorganizzare da cima fondo una scuola nuova – sempre che al Paese importi qualcosa di formare cittadini critici, cólti, competenti e – perché no? – pure felici, pronti ad affrontare nuove sfide ogni giorno che passa e a contribuire al benessere di ognuno.