La scuola, la cultura e i nipoti di Paperino

Tra i tanti luoghi comuni che circolano sui ragazzini di oggi, uno asserirebbe che conoscano molte più cose di quante ne conoscessimo noi alla loro età, una quarantina d’anni fa. L’assunto prende le mosse dal fatto che i frugoletti del duemila hanno l’immensa fortuna di poter disporre, con facilità e profusione, delle moderne tecnologie – come la televisione o internet, senza scordare i computer, con la loro vasta gamma di enciclopedie multimediali e di programmi educativi – così da renderli precocemente individui assai eruditi. Confesso che anch’io ho dato credito a questa baggianata fino a qualche anno fa, per poi dimenticarmene. La cosa m’è venuta in mente qualche sera fa, inciampando casualmente in un giochino televisivo trasmesso da nostra signora di Comano.
Si trattava di uno di quei quiz che si vedono un po’ su tutti i canali, per grandi e piccini: “format”, li chiamano. C’era un ragazzino di otto o nove anni, che doveva rispondere a domande difficilissime per vincere l’agognato premio. Gli è stato chiesto come si chiama, nella fiaba di Biancaneve, il nano perennemente insonnolito: «Nannolo!”, ha risposto il nostro Pico della Mirandola. Poi il bravo presentatore voleva sapere cosa occorre per passare la dogana: «La patente!», ha buttato lì, invero con una punta d’incertezza. Insomma, un gioco pedagogico, dove addirittura bisognava conoscere un numero in francese, dire quale città ticinese dà il nome al Verbano (dopo aver precisato che il Ceresio è quello di Lugano e che a Bellinzona…) e sapere a memoria il nome di tutt’e tre i nipoti di Paperino. Il medesimo gioco esiste anche per i grandi: a un mio coetaneo avrebbero chiesto cos’è l’oritteropo oppure di chi era re Carlo Magno: delle lire, dei dollari o dei franchi?
La TV ci sta prendendo tutti per cretini e rema follemente in quella direzione; dai e dai, credo che ci arriveremo. Sia chiaro che non ce l’ho col povero ragazzino, finito inconsapevolmente davanti alle telecamere e diventato famoso nel giro dei parenti e dei compagni di scuola, almeno per qualche giorno. Perché il bello del comparire in tivù sta nell’apparizione in sé: m’è già capitato di dover sottostare, per mestiere, al rito dell’intervista. Quel che resta, nei giorni successivi, non è ciò che hai raccontato, ma il tuo volto: sbuco dallo schermo, quindi esisto.
Forse c’è stato un tempo in cui il luogo comune di cui ho detto all’inizio abbia potuto avere qualche fondamento di verità. È possibile che negli anni ’60 la televisione contribuisse in qualche modo a far sì che i piccoli e saltuari spettatori della «TV dei ragazzi» e di qualche affascinante documentario aumentassero il bagaglio delle loro conoscenze. C’era sicuramente chi, con l’aiuto di un’enciclopedia e seguendo Angelo Lombardi alla tivù italiana (“Amici dei miei amici, buonasera!”), riusciva a distinguere un leopardo da un giaguaro e da un ghepardo. Senza voler banalizzare, quelli erano anni in cui il controllo sulle televisioni era ancora molto elevato; ci si rendeva conto delle forze pedagogiche del mezzo televisivo e si faceva in modo da un lato di non eccedere, dall’altro di proporre contenuti giudicati positivi: perché svolgere la professione di studioso o di insegnante era ancora un valore dabbene, di cui poter andar fieri.
Il capovolgimento, per quanto ci riguarda, è probabilmente giunto nei primi anni ’80, con l’avvento svelto e ingombrante delle televisioni commerciali. È in quel momento che gli interessi mercantili hanno sorpassato in un battere d’occhio le tensioni pedagogiche ed è da quell’epoca che la vita dei nostri pargoli si è trasformata in una festa senza fine. Nulla più è importante, se non l’effimero. Forse anche in questi fenomeni c’è qualche brandello d’indizio per capire la crisi odierna della scuola, che troppo in fretta si è ritrovata a fare i conti con un mondo esterno troppo mutevole, senza punti di riferimento, senza grandi progetti collettivi per cui valga la pena di battersi. Prima dell’inevitabile redde rationem converrà tornare in fretta ai principi fondatori della nostra scuola: che non contemplano i nipoti di Paperino.

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