Speranza nella cultura

Lo scrittore Andrea Fazioli ha inaugurato nel 2015 un suo blog, in cui parla e scrive dei suoi libri, dei suoi racconti e dei suoi «esperimenti letterari».

Qualche giorno fa ha pubblicato un articolo inconsueto, Speranza nell’Islam, che inizia così:

Stavo viaggiando in treno. Un uomo sulla trentina si è rivolto a me, dicendomi di avere letto un paio di miei romanzi. In particolare gli è piaciuto quello più recente (Gli Svizzeri muoiono felici); in più segue la serie “Il commissario e la badante”, i cui racconti escono ogni settimana sulla rivista svizzera “Cooperazione”. Dopo i complimenti, l’uomo ha detto che doveva farmi un rimprovero. «Secondo me lei parla troppo degli islamici.»

Il quarto commento all’articolo ha un inizio lapidario: «Questo post è una vergogna!»

È lì che ho sentito il bisogno di aggiungere anche una mia breve riflessione, forse per una certa affinità di pensiero con Andrea.

Eccola.


Caro Andrea, vedo che la tua riflessione sull’Islam è andata di traverso a qualche stomaco delicato. Hai preso dello svergognato, del socialista, dell’impegnato (con le virgolette a mo’ di superlativo; o in mancanza di un lessico più specifico), del fazioso («Troppo facile citare solo gli autori che piacciono a lei»).

Ti hanno risparmiato di essere un professorone, si vede che la parola non gli è venuta.

Per mestiere e da cittadino ho imparato che cattivi, cretini, fascisti e via elencando non hanno nazionalità, religione, status sociale. Ci sono forse delle responsabilità del e nel sistema formativo – e di quelli della mia generazione, senza naturalmente fare di ogni erba un fascio.

È pure cambiato tutto il sistema di informazione. Ha scritto lo scrittore Bruno Morchio: «Nell’era di Internet è diventato impossibile censurare una notizia. Tutto quello che si può fare è evitare che essa venga recepita, facendola scomparire in una pletora di informazioni. Tecnicamente, si chiama azzerare la differenza accrescendo la ridondanza. Sopprimere e reprimere è costoso e poco remunerativo. Molto meglio allungare e diluire, come il caffè americano rispetto al [nostro] espresso.»

Mentre ti leggevo mi è venuta in mente la storia di un giovane che ho conosciuto pochi anni fa, quando aveva vent’anni. Era nato nel nostro paese, da una mamma ticinese e da un papà immigrato. Un uomo buono, laborioso, intelligente. Si chiamava Nassim e aveva abbracciato la religione islamica. Nel luglio del 2015, a Londra, ha sposato Hafsa, una giovane insegnante in un liceo della city, diplomata a Oxford: l’aveva conosciuta nella capitale britannica, dove lavorava in quegli anni.

Qualche giorno dopo l’ultimo Natale era venuto a casa nostra con Hafsa, per salutarci e per gli auguri. Un cancro terribile lo faceva visibilmente soffrire. Così, da qualche tempo, era tornato in Ticino con la sua sposa, per curarsi nei nostri ospedali e, immagino, per essere vicino ai suoi genitori.

Era stata una chiacchierata emozionante e piena di ottimismo, soprattutto da parte sua. Ci eravamo salutati con un arrivederci a presto, il tempo di mettere al tappeto il male.

Pochi giorni dopo, il 20 gennaio, se n’è andato, senza mai aver avuto il tempo o il temperamento per far del male a (o di pensare male di) qualcuno. Da allora il suo corpo giace nel cimitero islamico di Lugano.

3 commenti su “Speranza nella cultura”

  1. Caro Adolfo,
    grazie mille per questo tuo pensiero. In effetti, scrivendo il mio articolo sapevo che avrei rischiato di suscitare reazioni, diciamo, stizzite. Per fortuna c’è anche chi ha letto e ha apprezzato lo spunto di riflessione (magari non condividendo il punto di vita, ma questo è nello spirito di ogni scambio di opinioni). Ti sono grato quindi per la vicinanza e soprattutto per ciò che racconti: non ideologia, ma una vita normale, un ragazzo gentile, l’amore, la sofferenza. Anche vivere, semplicemente vivere, può essere un modo di combattere l’astrazione dell’odio.

  2. Caro Adolfo nei mesi scorsi ho seguito un corso organizzato dall’UNI3 su religioni e violenza. Da ateo mi chiedo sempre come è possibile che in nome di dio, sia esso cristiano, ebraico, islamico, ma anche buddista, taoista, ecc. si possano compiere le più efferate crudeltà; quando tutte le religioni hanno alla base l’amore? Il corso mi ha permesso di meglio capire, chiaramente cosa che già conoscevo, che dio non c’entra niente. Sono gli uomini che fanno le guerre, sono gli uomini che uccidono, sono gli uomini che odiano e non amano. Ma essendo questi uomini in fondo in fondo dei codardi, scaricano la propria coscienza nel dire: lo vuole dio. Le SS uccidevano con addosso una targhetta con scritto dio è con noi (GOTT MIT UNS), il dio cristiano. In Myanmar i soldati credenti buddisti (quale religione è così basata sull’amore come il buddismo) uccidono i rohingya musulmani. E si potrebbe andare avanti ….,

    1. Be’, c’è anche chi ha detto che «La religione è il singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito. È l’oppio dei popoli.» La religione, da qualche parte, la infilano sempre. C’è chi «In God we trust», e pure la Costituzione svizzera inizia con «In nome di Dio Onnipotente», mentre la Magna Charta Libertatum dei nostri vicini parte dal presupposto fondativo che «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Si dice che secondo l’astrofisica Margherita Hack Dio fosse un gran tappabuchi: «Il compito della scienza è cercare di capire quali siano le leggi che regolano l’universo, la nostra vita, i nostri pianeti, senza ricorrere a Dio. Ricorrendo a Dio non c’è più bisogno di scienza. È come se Dio ci desse da fare le parole crociate, tanto poi se non si fanno, spiega tutto lui. Il compito della scienza è proprio quello di fare a meno di Dio. Cercare di capire con la propria ragione.»

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