I nostri figli sapranno tutti l’inglese: per dirsi cosa?

Ho già scritto una volta di HarmoS, il progetto di armonizzazione della scuola obbligatoria svizzera che la CDPE (Conferenza svizzera dei Direttori cantonali della Pubblica Educazione) intenderebbe sottoscrivere al più presto. A fine ottobre terminerà la fase di consultazione cantonale. Poi toccherà al Consiglio di Stato intuire gli umori della base e confezionare il solenne documento ticinese. Non sarà così difficile, perché tutti, almeno sinora, si esprimono più o meno all’unisono: soprattutto non si venga a imporci una scuola elementare di sei anni e una media di tre. Credo che la durata dei due settori scolastici sia il minore dei problemi. In altre parole, ho la netta sensazione che quaggiù al sud delle alpi continueremo con quella ramificazione strutturale e temporale per i prossimi decenni: anche perché, in fondo, il turgoviese che trasloca da noi ha ben altri problemi che non quello di sapere se il figlio undicenne dovrà frequentare la 6ª elementare o la 1ª media. Altri e ben più importanti sono invece i problemi sul tavolo, affinché la riforma migliori la scuola invece di appiattirla. Insomma: ci sono altri aspetti del progetto di accordo sui quali converrebbe soffermarsi e magari pestare i pugni sul tavolo delle trattative.
Prendiamo il capitolo sulla durata del livelli scolastici: secondo il progetto di accordo il passaggio alle scuole post-obbligatorie si produrrà «… in generale dopo l’11° anno di scuola per il settore della formazione professionale e, di regola, dopo il 10° anno per le scuole di maturità». Tradotto in parole povere: se vuoi fare il cameriere vai a scuola per undici anni, mentre se preferisci diventare avvocato lo Stato ti offre un bonus e dopo dieci anni puoi iscriverti al liceo: che è un modo «armonizzato» per cominciare sin da subito a dividere gli allievi in bianchi e neri, belli e brutti, tonti e sagaci, tramite una visione vecchia e classista dell’istituzione scolastica, che rimanda alla preistoria della pedagogia, quando i figli delle classi popolari erano destinati alle attività più plebee, con un assenso sociale senza riserve. Star zitti di fronte a una prospettiva del genere è come arrendersi all’evidenza che è difficile insegnare. Ma se si sventola bandiera bianca, tanto vale lasciar fare alla natura, liberandoci di classi tutto sommato piccole, di servizi di sostegno pedagogico, di approcci differenziati per l’insegnamento e di ogni altra diavoleria didattica a puntello di quegli allievi coi quali il buon Dio è stato sparagnino oltremisura, mentre l’ambiente in cui è cresciuto ha riservato solo sciatteria.
C’è poi almeno un altro aspetto che fa venire i brividi. Secondo le finalità della scuola obbligatoria armonizzata sul piano nazionale, «… tutte le allieve e gli allievi acquisiscono e sviluppano le conoscenze e le competenze fondamentali, nonché l’identità culturale, che permettono loro di continuare ad imparare tutta la vita e di trovare il loro posto nella vita sociale e professionale». E come si costruisce quest’identità culturale? Attraverso le solite discipline scolastiche – ma sappiamo tutti che ve ne sono di categoria A e B. Non è certo un caso se nella graduatoria dei tragitti per raggiungere l’identità culturale, il progetto di accordo mette in prima fila le lingue. Nazionali? Neanche per sogno. Dopo la lingua madre, ne viene una seconda nazionale e poi una terza a scelta: perché non dire subito che la terza sarà l’inglese quasi ovunque, alla faccia della nostra identità e della necessità sempre più acuta di abbattere un po’ in fretta i diversi Röstigraben disseminati a destra e a manca?
Non so se sia mai esistita la svizzerità, né – in tal caso – cosa fosse esattamente. È però vero che più la comunicazione diventa facile e veloce, più noi non ci capiamo più, e nemmeno ci sforziamo di farlo. Un progetto di politica educativa a livello nazionale imporrebbe che in undici anni ogni allievo svizzero potesse acquisire e sviluppare le competenze essenziali nelle due altre lingue nazionali, non limitandosi a un raffazzonato incedere comunicativo, ma facendo la conoscenza di qualche pietra miliare delle culture originarie: non sarebbe un male se tutti incontrassimo – tanto per fare dei nomi – Ramuz, Dürrenmatt e Martini. Forse ci capiremmo meglio, senza l’imperioso bisogno di calar le brache davanti a sua maestà l’inglese. Perché senza un retroterra culturale comune, cosa avremmo mai da dirci, giunti a quel punto?

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