La scuola, l’integrazione culturale e la vita

È facile che nei processi penali compaiano esperti balistici, criminologi, psichiatri e tecnici dell’alta finanza per meglio inquadrare le vicende sulle quali la corte è chiamata a esprimersi. Non avevo mai letto, almeno nel contesto dei tribunali ticinesi, che l’antropologo e il sociologo rivestissero il delicato ruolo del perito. È capitato nel corso del dibattimento che doveva giudicare il giovane pakistano Ajmal Aziz, che un anno e mezzo fa uccise a martellate Khudeja Butt, la mogliettina sposata pochi mesi prima.
Nella sua drammaticità e nel suo essere estrema, la storia è esemplare per chinarsi più in generale sul problema dell’integrazione culturale, argomento quanto mai attuale in tempi come questi. Ajmal è nato e cresciuto in qualche sperduto villaggio sulle pianure del Punjab. Anche Khudeja è originaria dello stesso paese, ma è nata a Bellinzona, dove ha frequentato le scuole fino a ottenere, due anni prima della tragica morte, il diploma di impiegata di vendita: un percorso di crescita in tutto simile a quello di tante coetanee ticinesi o straniere. Poi, nel 2005, le due famiglie combinano il matrimonio, accettato dalla giovane coppia: Aziz lascia quindi il Punjab, raggiunge Bellinzona e, novello principe azzurro, impalma la dolce Khudeja.
Ma questa è la realtà, non una fiaba. Lui – sono parole del suo avvocato – ha una mentalità da medioevo, ma è un medioevo definito con occhi occidentali. Lei, invece, è già stata contaminata dalle sirene della modernità, eppure un po’ medioevale lo è ancora: accetta il matrimonio combinato dai genitori, così come, più tardi, si rassegna a ingurgitare la pozione magica che dovrebbe riportare il matrimonio sui binari della normalità. Ora un tribunale ticinese ha giudicato l’uxoricida, e lo ha fatto secondo le nostre regole culturali, nonostante il tentativo dell’avvocato difensore di capire, nel limite del possibile e di ciò che è socialmente passabile, quali pensieri hanno attanagliato il giovane pakistano fino a spingerlo a uccidere la propria sposa. Ecco quindi la necessità di interrogare l’antropologia e la sociologia nel tentativo di definire almeno a grandissime linee il contesto sociale e culturale in cui il dramma è maturato e si è consumato.
Al di là degli aspetti del tutto straordinari e smisurati di questa storia, siamo ancora una volta costretti a confrontarci con una percezione della vita e della morte che non fanno (più) parte del nostro insieme di valori. Eppure anche nelle nostre aule penali transitano spesso omicidi, assassini e altri delitti contro la persona. A volte si parla di efferatezze, altre di scemata responsabilità, di onore e disonore e passione. Ma solitamente leggiamo i fatti come una «normale» deviazione dalle regole che ci siamo dati. Non sono un esperto del diritto, ma credo che il «peso specifico» di un reato muti nel tempo e si aggiusti a seconda del valore etico e sociale di ogni comportamento all’interno di una data comunità.
Nel caso di Aziz e Khudeja, invece, fatichiamo a trovare il bandolo etico della matassa, rischiando – noi comuni cittadini, non il tribunale… – di emettere una condanna esemplare, mischiando tra loro i soliti pregiudizi che hanno a che fare con la religione e con l’immigrazione: «moglie e buoi dei paesi tuoi», si diceva neanche tanto tempo fa. Eppure davanti alla tragedia di Khudeja e della sua famiglia dovremmo chiederci come sia stato possibile che una ragazza di vent’anni, che è nata a Bellinzona (Ticino, Svizzera, Europa) e che lì ha frequentato le scuole, «una ragazza gentile, sensibile, riservata e ben integrata nella nostra cultura, tant’è che aveva pure ottenuto la cittadinanza svizzera» (dalle cronache del processo) abbia potuto ammettere dapprima un matrimonio combinato e, poi, un magico intruglio per risolvere i gravi problemi che l’attanagliavano.
Nell’integrazione di Khudeja, in ogni caso, qualcosa non è funzionato a dovere. Se crediamo per davvero alla potenza liberatoria e integratrice dell’istruzione e dell’educazione, non possiamo accettare che una ragazza nata qui e che qui ha frequentato tutte le scuole diventi adulta rassegnandosi a conservare una concezione dell’esistenza in bilico tra il retaggio familiare e un futuro all’occidentale. Forse dovremmo chiederci se sono sufficienti tre nozioni di aritmetica e una competenza linguistica rudimentale per affrontare la vita nel nostro paese. Credo che non sia bastevole, se si vuole evitare di risolvere ogni avversità col mazzuolo o, più di frequente, con il coltello.

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