La scuola può essere un luogo di emancipazione?

Anche il piccolo Canton Ticino sta facendo i conti con la pandemia. Sembrano passati mesi e mesi, eppure ancora a fine febbraio – la prima risoluzione del Governo ticinese è del 26 febbraio – sembrava che non ci riguardasse. La cronaca, aggiornata giorno dopo giorno, è nel linguaggio giustamente scarno delle pagine che la Repubblica e Cantone Ticino dedica al Nuovo coronavirus.

SARS-CoV-2 (Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus 2), il virus che sta bloccando il mondo, ha portato anche alla chiusura di tutte le scuole fino al 19 aprile (decisione del Consiglio federale del 16 marzo), che è il termine fissato dalla Confederazione per tutti i provvedimenti sin qua presi. Naturalmente stanno saltando tutti i meccanismi un poco rituali che scandiscono i tempi della scuola, tenuto conto che, in vista delle decisioni di fine anno, mancherebbe già a quel momento quasi un mese di lezioni.

Il dubbio è che il 19 aprile sia una data ottimista e provvisoria. Quanto a tutto il resto, non è questo il momento per discuterne.


Nello stesso periodo di paura e di chiusura è giunta in libreria la traduzione italiana di un bel libro di Philippe Meirieu, Una scuola per l’emancipazione. Libera dalle nostalgie dei vecchi metodi e da suggestioni alla moda (2020: Roma, Armando Editore).

La scuola può essere un luogo di emancipazione? Sì, secondo Philippe Meirieu, ma solo se si propone di formare persone capaci di resistere all’onnipotenza pulsionale, di pensare da sole e di impegnarsi nella costruzione democratica del bene comune. Quali finalità formative nella scuola? Quali conoscenze utilizzare per raggiungere le finalità? Qual è il ruolo delle neuroscienze? Come formare all’attenzione? Come costruire e praticare una valutazione esigente? Come costruire il senso del gruppo per formare alla cittadinanza? Un libro per insegnanti, genitori, educatori, amministratori pubblici e per tutti i cittadini interessati a una scuola che mantenga la sua promessa di giustizia e di solidarietà.

La versione originale era uscita nel 2018 (PHILIPPE MEIRIEU, La riposte – Écoles alternatives, neurosciences et bonnes vieilles méthodes: pour en finir avec les miroirs aux alouettes, 2018: Paris, Autremont). Alla sua apparizione in Francia, aveva sollevato un dibattito molto ampio (qui si trovano tanti riferimenti a recensioni e riflessioni). Philippe Meirieu è da diversi anni al centro di accese dispute attorno al ruolo delle pedagogia e alle finalità della scuola pubblica e obbligatoria (illuminante è l’intervista La pedagogia è l’arte del fare, sottotitolata in italiano, trasmessa da Rai Scuola). Non è sicuramente un caso se anche nel Canton Ticino il suo nome fu sventolato dai più veementi avversari del progetto di Manuele Bertoli, La scuola che verrà, di cui ho scritto più volte.

La traduzione italiana del volume è di Enrico Bottero, insegnante e pedagogista italiano che, tra tante cose, dà vita a uno spazio web che mira a offrire un contributo per far crescere l’educazione e il sapere dell’insegnare attraverso il confronto degli insegnanti tra loro e con il mondo della ricerca pedagogica.

Il libro di Meirieu si inserisce nel sensibile dibattito sulle finalità della nostra scuola, in particolare quella dell’obbligo. Scrive Enrico Bottero nella presentazione del volume:

Questo non è solo un libro sulla scuola e sulla pedagogia ma anche di politica dell’educazione. Non è un caso perché la storia personale di Philippe Meirieu è quella di un uomo impegnato nella scuola, nella ricerca e nel mondo educativo ma anche sul piano politico e istituzionale. […] Non c’è dunque da stupirsi che Meirieu abbia scritto un libro per entrare «nell’arena», come titola la seconda parte del volume, un libro scritto con vis polemica anche per denunciare l’assurda nostalgia dei metodi didattici tradizionali a cui oggi guarda con attenzione, in Francia come in Italia, parte del mondo intellettuale. La colpa della cattiva preparazione degli studenti, si dice da più parti, sarebbe della pedagogia e dei pedagogisti, come se il lavoro sulle pratiche pedagogiche e l’attenzione alle discipline fossero in contrasto tra loro! Implicitamente qualcuno vagheggia il ritorno a una presunta età dell’oro in cui tutto andava meglio, a una scuola che «educava» in nome dei «valori» e del principio di autorità. […] Se non si va a mettere in discussione quel modello, ormai superato, non si può pensare a una scuola per il XXI secolo. (Qui il testo integrale della presentazione).

Va da sé che, in questo momento, le librerie sono chiuse e impossibilitate a ordinare nuovi titoli. In attesa di giorni più sereni, segnalo questa riflessione a caldo dello stesso Bottero sull’Educazione al tempo del coronavirus.

7 commenti su “La scuola può essere un luogo di emancipazione?”

  1. Ha Ha caro Adolfo,
    Ma che emancipazione d’Egitto? Chissà poi perche si tira in ballo l’Egitto???
    Hai visto in pochi giorni cos’è successo? Tutti lì a inventarsi una scuola a distanza inviando alle famiglie una serie di esercizi osceni che non fanno altro che amplificare tutti gli aspetti più fragili delle pratiche in classe. Sì, perché i docenti non fanno che scimmiottare il già ben fragile livello praticato in classe delegando alle famiglie tutto il menù della scuola.
    La storiella del giorno concerne la mia scuola, dov’era previsto, a spese del contribuente evidentemente, un formazione interna sui danni dell’iperconnettività e degli schermi sugli alunni. È bastato il “corona” per mettere tutti d’accordo e per dire che bisognava “inondare” le famiglie e gli allievi di attività intelligenti affiché la funzione del docente mantenesse il suo ruolo essenziale nella società. Ma i docenti non sono gli unici: il professore di violino con le lezioni via FaceTime, la scuola di danza con la lista di esercizi su come mettere il piede, il professore di solfeggio e anche la maestra di nuoto che ha fatto dei video con degli esercizi a secco.
    Per non esser da meno in questa follia generale, ho proposto ai miei piccoli alunni e alle loro famiglie di scrivermi per via postale garantendo a tutti una risposta scritta à ogni invio. Sì, perché credo che come una psicanalisi, tutto questo deve costare qualcosa. Ebbene sai quante lettere ho ricevuto? ZERO!!!!
    Dunque l’emancipazione mi sta bene e sono pronto a difendere il principio. Ma per il momento il concetto di alienazione mi pare più illuminante per capire il funzionamento della nostra istituzione.

    Ciao caro cugino!

    LUCA

  2. Caro Aldolfo,
    in tempo di crisi le idee normalmente considerate impossibili di colpo diventano possibili. Secondo te questo periodo cosa cambierà ad esempio nell’ambito dell’insegnamento (parzialmente) a distanza grazie ai nuovi strumenti digitali? Un’ipotesi di cui si parla da tempo nell’ambito delle politiche di sostegno alle valli, ma sempre un po’ snobbata.
    E, seconda domanda, come garantire una certa equità in questa fase speciale, dove l’attenzione e la presenza (anche intellettuale) dei genitori entra con ancora più forza nell’insegnamento?
    Un caro saluto

    1. Caro Nicola, poni delle domande interessanti. Quando scrivo, rispondendo a Mainardi, che A bocce ferme dovremo parlare della scuola ai tempi del coronavirus è proprio perché vorrò chinarmi anche se queste domande, che stanno tra l’altro alla base della domanda superiore: Quale scuola vogliamo? Perché non parlarne ora? Perché il livello di auto-censura potrebbe essere alto, anche per evitare strumentalizzazioni o accuse di «sciacallaggio».
      In questo momento mi preoccupa molto l’isolamento anche fisico e l’esistenza del gruppo. Come ha scritto Enrico Bottero nel testo che cito in chiusura (L’educazione al tempo del coronavirus), «… la scuola è nata per fare in modo che la sfida dell’apprendimento non sia individuale, per promuovere l’apprendimento di tutti attraverso l’“apprendere insieme”. Si tratta di una sfida non da poco: la scuola deve essere il luogo in cui si costruisce lo spazio pubblico e con esso il senso della collettività, qualcosa che oggi, in tempi di pandemia, scopriamo essere così prezioso».
      Per dire: la possibilità, in taluni settori economici, di far capo al tele-lavoro esiste da oltre trent’anni? Come mai, improvvisamente, è diventato possibile, auspicabile, addirittura smart?

  3. La scuola, come l’educazione, non può che essere un luogo di emancipazione. Ma da chi e da cosa? Come già discusso a più riprese con te, con Philippe Meirieu e Jean Pierre Pourtois, questo rimanda alle finalità stesse dell’istituzione scolastica e alle questioni fondatrici delle società: “La scuola è uno strumento di cui la società si è dotata per…” mantenere vivo un patto educativo che l’attualità ci ricorda in tutta la sua importanza: « Il faut tout un village pour éduquer un enfant »

    1. A bocce ferme dovremo parlare della scuola ai tempi del coronavirus. È vero quel che scrivi, ma è altrettanto vero che se fosse tutto così tangibile, libri come La riposte/Una scuola per l’emancipazione sarebbero del tutto inutili, così come le nostre tante discussioni altro non sarebbero che pedanti questioni di lana caprina. Purtroppo sappiamo bene che è sempre meno così.

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