Menti bilingui da offrire al mercato del lavoro

Scontro ai voti, in Gran Consiglio, sul tedesco in Prima Media: ha prevalso, una volta di più, un’idea “strumentale” di formazione scolastica, tutta orientata verso gli sbocchi professionali

Da almeno un paio di decenni la scuola pubblica sta subendo una strisciante trasformazione di senso, senza che qualcuno si alzi e dica cip. Da Istituzione dello Stato che intende promuovere lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà sta diventando sempre più un servizio genuflesso in favore dell’economia e del mondo del lavoro. Scriveva un gruppo di parlamentari in una mozione intitolata Anticipiamo l’insegnamento del tedesco (2017): Anticipare lo studio del tedesco permette ai ragazzi di crescere con una “mente bilingue”. Ciò presenta numerosi vantaggi e in primis sul mercato del lavoro.

In primis, come dicono loro, conviene precisare che la regola della “mente bilingue” è il bilinguismo precoce, vale a dire l’esposizione a due (o più) lingue in tenerissima età, di regola entro i tre anni, e non certo in un ambiente così formale e giudicante come la scuola.

Invece il rimando al mondo del lavoro ha radici più lontane. Tanto per citarne uno che mi ero segnato, nel 2002 il presidente (PLR) della commissione scolastica del Gran Consiglio aveva dichiarato a un domenicale che, secondo lui, a decidere quali lingue si devono studiare a scuola non dovrebbe essere lo Stato né il Dipartimento, bensì la società, il mercato. In quel medesimo ordine di idee si espresse pure il leghista Lorenzo Quadri durante la campagna per le elezioni cantonali del 2011: La scuola non potrà esimersi da un riorientamento nell’ottica di quelle che sono le richieste del mercato del lavoro. È evidente che le professioni “d’ufficio” sono sature. Mancano risorse nell’artigianato, nell’edilizia, nel sociosanitario. Altra misura necessaria: si metta il numero chiuso alle formazioni “letterarie” ed “artistiche” prive di sbocchi professionali.

È successo nuovamente il 13 marzo scorso, quando il Parlamento ha approvato, con 46 voti favorevoli (PLR, Lega e UDC) e 41 contrari, l’anticipo dell’insegnamento del tedesco in prima media entro l’anno scolastico 2025/2026.

Era già successo nei primi anni di questo secolo, quando il francese, fin lì lingua seconda – a decretare la selezione tra livelli A e B assieme alla matematica – fu svalutato e retrocesso per far posto all’inglese, mentre il tedesco fu promosso a partner della matematica, come nota da livelli A e B. Il francese, da par suo, fu potenziato nella scuola elementare e cessò di essere materia obbligatoria a partire dalla III media.

Va da sé che tra le varie dichiarazioni a sostegno di una scelta di questo genere non può mancare il tema della coesione nazionale, che imporrebbe prioritariamente di conoscere la Svizzera al di là del conoscerne la lingua. Ma ciò obbligherebbe a ripristinare il giusto spazio allo studio della storia e della geografia, la conoscenza essenziale delle letterature e delle culture di riferimento. Così la scuola potrebbe pure farsi carico, lungo i quattro anni della scuola media, di predisporre delle impagabili occasioni di incontro, di studio e di scambio con studenti di regioni e cantoni ai quattro angoli del Paese.

Quindi, più che anticipare l’insegnamento delle lingue nazionali e aumentarne le ore – le lingue seconde, quando sono caricate a test e note scolastiche, sono assai spesso armi letali… – converrebbe aumentare sostanzialmente (quantità e qualità) i soggiorni linguistici sin dall’età più tenera. Senza poi scordare che prima del tedesco i confederati imparano e parlano lo Schwyzerdütsch. E continuano anche dopo.

Infine sarà interessante vedere come questo anticipo dell’insegnamento del tedesco, che in realtà è anche un concreto aumento di ore, sarà organizzato dentro una griglia oraria settimanale già molto affollata e stancante. Qualche disciplina ci lascerà le penne, e sappiamo bene come le lobby di materia difendano coi denti la loro dotazione oraria.

Naturalmente la questione delle lingue della scuola non è terminata nella tarda serata del 13 marzo. La “trattanda” comprendeva pure un modifica della Legge della scuola a favore delle scuole private (ma non solo). In buona sostanza si proponeva di permettere lo svolgimento delle lezioni in un’altra lingua nazionale svizzera o in inglese, al posto dell’obbligo previsto attualmente: «Agli allievi in età d’obbligo scolastico l’insegnamento dev’essere impartito in lingua italiana». L’iniziativa parlamentare è stata ritirata «alla luce delle resistenze delle ultime settimane», ha motivato il primo firmatario della proposta.

Tra le “resistenze dell’ultima settimana” se n’erano manifestate due piuttosto pesanti il giorno stesso: una da parte di Diego Erba, coordinatore del Forum per l’italiano in Svizzera (Il veleno sta nella coda, su La Regione); l’altra firmata da Manuele Bertoli, direttore del DECS (La svendita della propria identità, sul Corriere del Ticino). «Da presidente del Forum per l’italiano – ha sottolineato il ministro – in Svizzera ho difeso, con altri, l’italianità in tutto il Paese, ma non credevo di dover arrivare al punto di doverla difendere anche in Ticino. Oltretutto in nome di una commercializzazione della scuola, perché non si vedono all’orizzonte soggetti senza scopo di lucro interessati particolarmente ad offrire questi curricoli».

Pamini ha assicurato: «Nella prossima legislatura faremo una nuova proposta, riservandoci la via dell’iniziativa popolare, perché siamo stufi di questo approccio statalista e monoculturale». O tempora, o mores.

 

Scritto per Naufraghi/e

Qui si trovano le informazioni e i documenti relativi alla “Trattanda n° 11” dell’ordine del giorno della seduta del Gran consiglio di lunedì 13 marzo 2023.

6 commenti su “Menti bilingui da offrire al mercato del lavoro”

  1. Caro Adolfo, condivido tutto quello che scrivi. Non mi faccio mai vivo ma leggo sempre con interesse le tue “Cose di squola” (poi dicono che l’italiano non serve). Dici bene, non è solo questione di scelta delle lingue ma anche di metodi d’insegnamento. Se vai in un istituto linguistico, il Goethe Institut ad esempio, e segui lo stesso numero di ore in gruppo, come avviene nella scuola, la lingua la impari! Non ti danno il voto ma una valutazione riferita al Quadro europeo delle lingue. Avrai un A1 significa che sai leggere, comprendere, parlare e scrivere fino a un certo livello indicato con una descrizione dettagliata. Da noi ti danno un 4, un 5, un 6. Che significato ha tutto ciò.
    Imparare una lingua significa aprire la mente a una cultura diversa, rafforzare la propria lingua 1. Il problema è come impari una lingua, non quale lingua. Ho sostenuto l’insegnamento del francese nelle scuole elementari per molte ragioni. Non da ultima quella che per insegnare un’altra lingua avremmo dovuto inserire un altro docente speciale nella SE.
    Personalmente penso che alla fine della scuola dell’obbligo ogni allievo dovrebbe conoscere bene una seconda lingua uguale per tutti. Potrebbe essere anche l’inglese, utile per che volesse poi proseguire gli studi. Utile per poter comunicare tutti tra loro all’interno del paese e verso l’estero. A mia nipotina che fa la terza media ho suggerito il latino. È felice non tanto per il latino ma perché ha una docente severa, colta, adulta che stima perché “… sa farsi rispettare per quello che dice e riesce a far scuola senza dover alzar la voce…”.
    Purtroppo la nostra scuola è in mano a politici che sono apprendisti stregone. È un problema di analfabetismo diffuso e al potere. Mi chiedo anch’io perché docenti deputati non reagiscano in modo forte e chiaro…
    Mi fermo qui perché la farei troppo lunga.
    Un caro saluto e grazie per il tuo contributo.

    1. Caro Gianpiero,
      grazie per il tuo contributo. Non so perché, ma anche tu, come Alfonso, hai letto cose che non ho scritto – anche se, in parte, le penso. Provo ad andare in ordine.
      A suo tempo, da maestro, mi ero rifiutato di insegnare il francese. Ti risparmio i dettagli: eri già ispettore, il capo dell’Ufficio dell’insegnamento primario era Mario Delucchi, forse hai qualche ricordo delle mie intemperanze (ma il mio direttore, quasi sempre – quasi! – mi sosteneva).
      Continuo a credere che sarebbe più utile, e costerebbe meno, se i nostri ragazzi potessero imparare le lingue seconde frequentando per un periodo adeguato (diciamo un semestre?) una scuola dove si parla quella lingua – poniamo in Francia o Germania, in Svizzera romanda o tedesca – magari risiedendo in una famiglia autoctona (lo so, sarebbe complicato: trovare le famiglie, voglio dire).
      All’epoca si diceva anche che dovevamo preservare e difendere le lingue originarie dei nostri migranti: italiani a parte, mi vengono in mente turchi, balcanici e iberici.
      Sulla lingua «franca» ho pensato anch’io, a un certo momento, che l’inglese avrebbe potuto essere una buona scelta. Oggi sono un po’ più tentennante. Perché l’importanza di conoscere una lingua risiede anche nel conoscerne la cultura di riferimento, se c’è. Già l’inglese ci pone diverse alternative. Forse hai ragione tu: il latino?

  2. Bravo Adolfo, tra tutte le tue riflessioni che condivido pienamente si trova l’incredibile incoerenza di introdurre una nuova normativa senza prima ascoltare i docenti e i genitori. Ma non era la bandiera dei contrari alla sperimentazione nella scuola Media: “Guai a non ascoltare i docenti!”…. Povera scuola e poveri politici.

    1. Caro Alfonso, grazie per la condivisione (e grazie anche a Raffele, che ha condiviso già ieri).
      Ti devo una precisazione: non ho parlato io della necessità di consultare docenti e genitori. Si tratta invece di un’osservazione di Anna Biscossa, che durante il dibattito in aula ha detto: «Un recente sondaggio dimostra che i docenti sono contrari a questa proposta. E fa un po’ specie che il parere dei docenti sia fondamentale per certi temi (come il superamento dei livelli) e poi diventi trascurabile per altri temi, come questo» (Corriere del Ticino del 14.03.2023).
      Una volta erano più furbi. Le risoluzioni (et similia…) iniziavano spesso con la frase Sentito il parere di…, il Dipartimento ha risolto … naturalmente “Sentito il parere” non significava ancora che il parere degli interpellati fosse in linea con l’interpellante.

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