La dottoressa Nicole Rege Colet, direttrice defenestrata consensualmente dal DFA della SUPSI, ha rilasciato una lunga intervista al Giornale del Popolo (29.11.11) in cui spiega i retroscena, dal suo punto di vista, della separazione dall’ex scuola magistrale. Lo slogan di base, che dà il titolo all’intervista, recita: «Mentre preparavo il futuro volevano restare al passato». C’è da sperare che la voglia di futuro fosse il mandato assegnatole dalla SUPSI e non un suo pallino personale. Racconta visioni di un certo interesse, l’ex direttrice, e per certi versi raggiunge Gianni Ghisla, che aveva pubblicato un’articolessa piuttosto intrigante sulla Regione del 18 novembre. Che l’accanimento – evidente – contro di lei affondasse le radici nel suo essere donna è una panzana bella e buona; che molti l’avversassero, dal PS alla Lega saltando tanti di quelli in mezzo, perché veniva da fuori, è probabilmente una realtà, benché per ragioni diverse da uno schieramento all’altro. Rege Colet, tuttavia, piazza anche un paio di argomenti che non possono essere ingoiati come il solito rospo del detto comune. Afferma ad esempio: «… resto convinta che in Ticino si debba fare un salto tremendo in fatto di formazione dei docenti». E aggiunge, poco più in là: «Io vengo da Ginevra, da un mondo accademico di lunga data». Che Ginevra sia un’università con una storia durevole non lo si può mettere in dubbio. Che la facoltà di psicologia e scienze dell’educazione abbia un blasone ragguardevole è altrettanto evidente. Ma i tempi stanno cambiando e i docenti ginevrini, certo non unici in Svizzera, non hanno proprio nessun motivo per metterla giù dura: nei diversi rapporti PISA, Ginevra sgambetta assieme al Ticino sugli ultimi vagoni delle graduatorie nazionali. Questo per dire che anche la gloriosa scuola ginevrina, quella di Édouard Claparède, Adolphe Ferrière e Jean Piaget, sta conoscendo le sue decadenze, forse a causa del tragico modello di Bologna, che ha omologato tutte le scuole terziarie d’Europa, o forse per altre ragioni più imperscrutabili.
Scrive ancora l’ex direttrice: «Certo è che dopo il 10 aprile il vento è cambiato, anche se io inizialmente non ci ho badato molto perché, ripeto, in Svizzera romanda fra Dipartimento dell’educazione e istituzioni universitarie non c’è un legame così stretto». E come no? Per tornare a Ginevra, a metà degli anni ’90 era stata varata un’originale riforma della scuola primaria per la realizzazione di grandi ideali della pedagogia moderna. A parte il fatto che quella riforma è stata spazzata via con un colpo di spugna in tempi assai lesti, è risaputo che sul piano politico essa era decollata grazie a un rapporto privilegiato tra l’allora direttrice del dipartimento dell’educazione, la liberale Martine Brunschwig Graf, e alcuni baroni della facoltà, in un miscuglio di ideali e potere: altro che indipendenza dall’apparato politico! Nel caso del Ticino, inoltre, non si può dimenticare che la SUPSI non è un’università, ma una Scuola Universitaria Professionale, dove l’aggettivo rimanda alla formazione degli insegnanti. E dove insegnerà mai la maggior parte dei diplomati, se non nella Scuola della Repubblica, che attraverso la politica ne regge le sorti e ne traccia le direttive? Proprio per questa ragione il rapporto tra la politica e l’istituto di formazione dei suoi insegnanti dev’essere corretto e basato sul dialogo. Sarebbe una catastrofe se l’ex Magistrale, come ha fatto spesso in passato, sfruttando abilmente un certo disinteresse del DECS, si mettesse a fare e disfare le linee guida della nostra scuola. La terziarizzazione, parola magica e misteriosa già in voga quando si diede (breve) vita all’ASP, potrà anche essere un obiettivo sublime, ma ancor tutto da chiarire. Il «salto tremendo» non risiede, in sé, nel fatto di ottenere il bachelor o il master, al posto delle vecchie patenti e abilitazioni. Invece è fondamentale che i diplomati della SUPSI diano vita a una scuola di qualità. In altre parole: che sappiano insegnare.