In principio fu il dottor Spock. Il pediatra statunitense divenne famoso in Europa verso la fine degli anni ’60 come il teorico del permissivismo nell’educazione dei bambini sin dalla nascita. Il sessantotto contribuì in modo importante alla diffusione delle sue teorie in materia di educazione, se solo si pensa al ruolo che ebbe la scuola in quegli anni che chiedevano a gran voce ampie riforme; ed è certo che la voglia di «immaginazione al potere» ha accelerato la diffusione delle sue idee libertarie in tema educativo. Ho frequentato la Magistrale a quell’epoca e non posso sicuramente scordare quali fossero i chiodi fissi della formazione professionale, con accostamenti spesso sufficientemente confusi. In ogni modo è in quegli anni che nasce la disputa, invero un po’ strumentale e ambigua, tra autorità e autorevolezza, tra autoritarismo e permissivismo. La natura del dibattito mi è tornata in mente leggendo un articolo del prof. Filippo Ciceri, insegnante di scuola media, apparso sul Corriere del 10 dicembre. Argomentando attorno alla contrapposizione tra autorevolezza e autoritarismo dell’insegnante, che secondo l’autore è poco più di uno slogan, una forzatura o una fregatura, Ciceri scrive che «Ogni insegnante, in quanto tale, non solo merita ma necessita che gli sia riconosciuta, di base, la giusta autorità». Il problema di oggi – e in ciò come non dare ragione al prof. Ciceri? – è che su tali concetti si fonda, spesso in maniera del tutto confusa, la formazione pedagogica dei futuri insegnanti.
L’autorevolezza del docente, in effetti, poggia le basi su due elementi distinti ma altrettanto fondamentali. Il primo è rappresentato dalla padronanza delle conoscenze e delle competenze che si insegnano. Per banale che sia, non si può, poniamo, insegnare la storia senza conoscerla a menadito. Il secondo elemento, non meno importante del primo, è dato dalla professionalità specifica dell’insegnante, che non può limitarsi a essere «uno che sa le cose». Insegnare è sempre stato un mestiere difficile, costantemente in bilico, come diceva Piaget, tra arte e scienza. Sicuramente è necessaria una certa dose di predisposizione (una volta la si chiamava vocazione), che da sola, tuttavia, non basta. Il riconoscimento sociale e politico della «giusta autorità» dell’insegnante non si ottiene per grazia divina o per decreto legislativo. È però ora e tempo che il nostro Stato si liberi di una legge della scuola incartapecorita (di cui ho scritto il 10 ottobre dell’anno scorso) e che si doti di una Magna Charta al passo coi tempi, rispettosa delle necessità odierne e che chiarisca diritti e doveri di ogni componente della scuola. Ma è altrettanto urgente che l’istituto che abilita gli insegnanti contribuisca concretamente a formare docenti con una professionalità ai limiti dell’eccellenza, basata – nell’ordine – su aspetti istituzionali, etici, deontologici, pedagogici e didattici. Più in là sarà pure necessario che lo Stato si doti degli strumenti adeguati per verificare che l’eccellenza dei suoi docenti si rifletta sul paese. Essere insegnante, soprattutto nella scuola dell’obbligo, significa in primo luogo conoscere e condividere il progetto politico dello Stato, che, mica per caso, obbliga tutti i bambini e i ragazzi a frequentare la scuola tra i 4 e i 15 anni di età. Come ha scritto oltre vent’anni fa il sociologo Philippe Perrenoud, c’è una chiara differenza tra un organismo di selezione e una scuola: «A scuola, prima di valutare, certificare, selezionare, si suppone che si debba insegnare». Purtroppo sappiamo che il docente fragile, che non sa insegnare, diventa facilmente autoritario e usa le note e i test come armi improprie. La vera rivendicazione, invece, è quella di poter annoverare un numero vieppiù consistente di insegnanti autorevoli, affinché sia ristabilita la «giusta autorità» della Scuola, e che lo Stato esiga e garantisca la loro formazione continua e il pieno rispetto delle regole. Sennò si genera solo un autoritarismo torvo, di cui nessuno sa che farsene, soprattutto in un mondo in cui il killeraggio è sempre più di moda.