Quando bionda aurora il mattin c’indora… Trittst im Morgenrot daher… Sur nos monts, quand le soleil… Prendendo spunto dalla recente decisione del senato italiano che rende obbligatorio l’insegnamento dell’Inno di Mameli nelle scuole, Renato Martinoni si chiede ironicamente qual è il senso di simile provvedimento, per chiosare che «l’amor patrio non è una formalità che si possa liquidare con un inno canticchiato o con la bandiera esposta sul terrazzo di casa» (Il Caffè del 18 novembre). A suo tempo avevo imparato, un po’ a casa e un po’ a scuola, quell’altro inno nazionale: Ci chiami, o Patria, uniti impavidi snudiam l’acciar!, dal significato altrettanto enigmatico; così che quando, a otto anni, ascoltai per la prima volta il nuovo inno, eseguito in Piazza Grande dalla musica cittadina, mi sentii ingannato.
In quei primi anni ’60 è comprensibile che le cose andassero in altro modo rispetto a oggi. La conoscenza dell’inno nazionale era solo uno dei tanti tasselli che componevano l’educazione alla cittadinanza, che si costruiva mattone dopo mattone a scuola, a casa, nei mass media e nel Paese. La seconda guerra mondiale era forse ancor troppo vicina al ricordo di tanti adulti, in un Ticino che aveva respirato il fascismo, che aveva accolto i profughi, che aveva vissuto qualche scaramuccia bellica ai confini con l’Italia, che aveva udito il sorvolo verso Milano dei bombardieri alleati e che aveva conosciuto il razionamento e l’oscuramento.
A tanti anni di distanza è divenuto certamente più difficile il solo pensare di predisporre delle linee educative univoche e condivise da una maggioranza di cittadini, tanto più che anche seguendo solo distrattamente le vicende politiche di questo Cantone, come sta succedendo in questi giorni coi preventivi dello Stato, si capisce facilmente che già tra chi ha le mani in pasta le idee sono poche ma confuse, per riprendere una folgorante espressione di Flaiano. L’educazione alla cittadinanza, dunque, diventa ancor più urgente, sempre che non sia già troppo tardi. Ha scritto ancora Martinoni: «Viene alla mente l’importanza dell’educazione alla cittadinanza nella scuola. Che vuol dire insegnare delle regole e dei valori che devono durare per la vita». Passi per le regole, ma coi valori è più facile a dirsi che a farsi. Si pensi che il Parlamento ticinese nel 2001 aveva deciso che era necessario insegnare la civica a partire dalle scuole medie. A dieci anni da quella piccola riforma il raccolto è scarso. Una ricerca della SUPSI, pubblicata nel febbraio di quest’anno, presenta dati tanto impietosi da indurre il parlamentare Franco Celio, insegnante e relatore sul tema nel 2001, a non nascondere la «netta delusione per i risultati, invero alquanto mediocri (…) a dieci anni dalla loro introduzione ufficiale».
Non credo che la scuola sia in grado di fare di più. Se educare alla cittadinanza significa «insegnare delle regole e dei valori che devono durare per la vita» è dapprima necessario sapere di quali valori parliamo. Certo i miei valori non sono quelli del consumo frenetico, dell’apparire, della furberia, dell’edonismo, dell’evasione fiscale, della grettezza e del rinchiudersi a riccio tra Airolo e Chiasso. Insomma: un conto è dire «Educazione» e indicare chi se ne deve occupare. Un altro conto è tradurre l’educazione in qualcosa di più concreto e comprensibile, colmandola di senso. Eppoi: non è forse vero che la scuola è specchio della società?