Mentre i buoi uscivano dalla stalla, Gioventù liberale aveva lanciato un’iniziativa denominata «Riscopriamo la civica nelle scuole», poi accolta nel 2001 dal Parlamento, che aveva aggiunto un articolo alla Legge della scuola, statuendo che «nelle scuole medie, medie superiori e professionali devono essere assicurati l’insegnamento della civica e l’educazione alla cittadinanza». Un rapporto della SUPSI del febbraio scorso mostra con grande chiarezza che il bilancio, dieci anni dopo, non è propriamente quello atteso. A dirla tutta i buoi, dopo essere usciti comodamente, non si sa dove siano finiti. Ora la “politique politicienne” è tornata alla carica, malgrado la scuola – stando al rapporto citato – non sembri particolarmente interessata all’educazione alla cittadinanza. Franco Celio, parlamentare e insegnante, ha inoltrato un’interrogazione al Governo partendo proprio dal rapporto della SUPSI. Preso atto che «Dall’articolata analisi dei ricercatori emerge un quadro a tinte perlomeno chiaroscure», Celio chiede se il Consiglio di Stato «Condivide l’idea di taluni, secondo cui l’indicazione sul libretto scolastico di un voto specifico (“nota”) potrebbe migliorare la situazione». In altre parole suggerisce, neanche tanto velatamente, di trasformare l’educazione civica in disciplina a sé stante.
Il problema è sacrosanto. La proposta, però, fa venire la pelle d’oca, visto che la soluzione prospettata aggiungerebbe una nuova disciplina a curricoli già carichi, senza riuscire a scovare il bandolo della matassa. Ha scritto Fabio Merlini (La Regione del 17 dicembre): «Se di crisi di civiltà si tratta, allora la scuola è ovviamente coinvolta in prima persona. È giunto il momento di raccogliere tutte quelle voci giustamente critiche, che oggi chiedono risposte diverse, per rispondere a questa semplice domanda: ‘Formare a che cosa?’. Dopo anni di attentati a un pensiero che non sia solo tatticamente tecnico, dentro e fuori le istituzioni, dobbiamo forse meravigliarci della povertà degli strumenti a disposizione oggi per affrontare ciò che richiederebbe ben altre risorse intellettuali?»
Una quindicina di anni fa Philippe Meirieu ha scritto che «Il mondo ha bisogno di individui capaci di capire la complessità, di immaginare soluzioni nuove, di sottomettere i progressi tecnologici a dei principi sociali, etici, morali, giuridici, legali. Il mondo ha un bisogno vitale di individui che s’iscrivano in un’umanità di cui conoscono il passato, che padroneggino le competenze necessarie per partecipare oggi alla vita collettiva e che sappiano inventare e controllare il futuro». La scelta di formare (a cosa? e attraverso cosa?) presuppone però decisioni curricolari ben precise. Ad esempio, citando Giovanni Orelli (Il caffè del 23 dicembre), bisogna tener conto che «il passato non è cenere, ma semmai brace con dentro un immenso fuoco nascosto. Basta soffiarci su». Ma far proprio lo Stato di Diritto come base per una sana educazione alla cittadinanza sottintende anche la conoscenza del diritto come esperienza personale e quotidiana. Lo diceva già Aristotele: «le cose che bisogna avere appreso prima di farle, noi le apprendiamo facendole. Ne è conferma ciò che accade nelle città: i legislatori rendono buoni i cittadini creando in loro determinate abitudini, e questo è il disegno di ogni legislatore, e coloro che non lo effettuano adeguatamente sono dei falliti». Serve dunque lo sforzo coerente di tutti: dalla politica alla scuola, alla famiglia e ai massmedia.