La scuola deve insegnare anche la gestione responsabile delle finanze personali?

Una proposta che fa riflettere su quanto sempre più si chiede agli insegnanti. Se sia davvero necessario è un altro discorso.

Molte persone hanno un’idea piuttosto distorta di come funzionino l’insegnamento e, più in generale, l’educazione. Resiste nel tempo l’immagine classica dell’insegnante che, dopo una lezione, assegna esercizi e poi organizza un esame: o lo scolaro ha capito tutto, o non ha capito nulla – mentre la maggior parte si colloca tra questi due estremi. I bravi maestri sanno bene che la realtà è ben più complessa: l’apprendimento richiede tempi adeguati e non tutti imparano alla stessa velocità. Come scriveva Don Milani, Una scuola che si cura solo dei bravi allievi è come un ospedale che cura i pazienti sani.

Spesso anche il nostro Gran consiglio, eletto dal popolo ed espressione della stessa comunità che lo elegge, sembra adottare una visione grossolana dell’insegnamento. Qualche anno fa il deputato socialista Francesco Cavalli, intervenendo in una discussione sull’introduzione di un nuovo compito per la scuola, osservava che, se si volessero seguire tutte le suggestioni espresse in quell’aula, la scuola dovrebbe occuparsi di tutto: dalla sicurezza (in casa, sulla strada, sul lavoro) all’insegnamento dell’economia già nelle medie, dai corsi di buone maniere all’informazione sul servizio civile, dalla promozione dell’incontro fra culture religiose all’introduzione di lezioni di primo soccorso, fino all’insegnamento dei dialetti ticinese e svizzero tedesco, all’apertura verso il mondo delle aziende, all’educazione al bello (mostre d’arte, concerti…), a insegnare a non indebitarsi, a occuparsi di agricoltura e a fare l’orto, a trasmettere il gioco degli scacchi, a incentivare l’uso della bicicletta, a educare all’uso parsimonioso del telefonino, a istituire giornate per recuperare i rifiuti abbandonati, a spiegare il funzionamento del sistema giudiziario e a prevedere lezioni di etica.

Da allora – parlo di quindici o vent’anni fa – la tendenza non è cambiata. Nel 2013 il Parlamento ha imposto l’insegnamento del Salmo svizzero a tutti i futuri cittadini durante la scuola dell’obbligo e, nello stesso anno, è scattata l’iniziativa «Educhiamo i giovani alla cittadinanza», che in una settimana raccolse ottomila firme, per arrivare poi a oltre diecimila. Nel 2017 la proposta è stata accolta in votazione popolare con oltre il 60% di voti favorevoli. Eppure, pur essendo circondati da guerre e autoritarismi, non sembra che la sensibilità civica sia aumentata.

Ma eccoci di nuovo a chiedere alla scuola di farsi carico di un’ulteriore esigenza. La deputata Simona Genini, a nome del gruppo Liberale radicale, ha presentato un’iniziativa parlamentare intitolata Educare la gioventù alla gestione responsabile delle finanze personali (novembre 2024). Sintetizzando al massimo, l’iniziativa mira a stimolare un dibattito sull’educazione finanziaria, con particolare attenzione a giovani e donne, proponendo di inserire il tema all’interno del programma di Civica ed educazione alla cittadinanza, senza gravare ulteriormente sulla griglia oraria della scuola media, né generare costi aggiuntivi per lo Stato.

Educare la gioventù alla gestione responsabile delle finanze personali (Immagine generata con ChatGPT)

Genini puntualizza che, per non intaccare l’autonomia degli ordini scolastici ticinesi e la libertà creativa dei docenti, si è optato per una formulazione volutamente generica, limitandosi a stabilire un principio: l’educazione alla gestione finanziaria personale deve godere della stessa dignità oggi accordata allo studio della Civica e dell’educazione alla cittadinanza.

Nei giorni scorsi la stessa deputata, prima firmataria della proposta, ha pubblicato un articolo su laRegione intitolato Educazione finanziaria (Simona Genini su LaRegione 21-02-2025), ampliando il discorso nel campo dell’ignoranza. Racconta che la sua esperienza pluri-professionale – come funzionaria, insegnante, avvocato ed esperta fiscale – le ha permesso di constatare come molte persone, anche se istruite e ben integrate nella società, abbiano conoscenze limitate sui principi fondamentali della gestione finanziaria, sia in ambito personale (pagamenti, imposte, investimenti, previdenza) sia per quanto riguarda i meccanismi basilari della finanza pubblica. Oltre a ciò, accusa il Parlamento. Tutt’a un colpo – secondo la deputata – abbiamo smesso di considerare le risorse economiche disponibili come un vincolo reale per lo Stato, accettando l’idea che la spesa pubblica non abbia limiti. Di fronte a nuove proposte politiche, ci comportiamo come ragazzi che ricevono il primo stipendio e firmano un contratto di leasing insostenibile, senza nemmeno leggere il costo finale.

La conclusione del pezzo giustifica la necessità di far conoscere, fin dalla tenera età, i principi di una gestione responsabile delle finanze personali. Testualmente, la deputata avverte: Se la politica non torna a fare di conto e alle nuove generazioni non si insegna un responsabile approccio alle finanze personali, il rischio sono decisioni politiche miopi e insostenibili. Se non sappiamo distinguere tra bisogni e diritti, possibilità e illusioni, necessario e augurabile, ci ritroveremo a firmare cambiali che qualcun altro dovrà pagare al posto nostro.

A questo punto si deve convenire che la scuola e i giovani non c’entrano nulla. Resta da vedere se la nuova Educazione alla cittadinanza, introdotta a furor di popolo nientemeno che nella Legge della scuola, riuscirà a formare una nuova generazione di Granconsiglieri più preparati e, quindi, più affidabili.

Scritto per Naufraghi/e

Censura australiana? No, educazione ai media

La legge che vorrebbe proibire l’uso di telefonini e social ai minori di 16 anni, prassi vecchia e bacchettona; che trova riflessi censori anche alle nostre latitudini

Bisogna pur dirlo. In Europa e in tutto il mondo occidentale è guerra aperta contro telefonini e dintorni in mano a ragazzini e adolescenti, con l’età del primo rapporto tecnologico che, pare, s’abbassa sempre più. A volte ci si mettono pure governi e parlamenti. L’Australia – riporta Naufraghi/e citando La Repubblica ha deciso di vietare i social ai minori di 16 anni. Il testo, che ha ricevuto il via libera della Camera e del Senato, ma che deve tornare per l’approvazione finale alla Camera bassa, obbliga le piattaforme — si parla di Facebook, X, Instagram, TikTok ma non di WhatsApp e YouTube — a adottare “misure ragionevoli” per impedire a bambini e adolescenti di avere account sui social network. È una prassi vecchia e bacchettona, che nasconde una certa indolenza, suggerita spesso da quei medesimi social dei quali i politici di mezzo mondo si servono per portare innanzi i cavoli loro: dalla propaganda alle fake news, su un letto di narcisismo mica da poco.

Papa Paolo IV creò nel 1559 l’indice dei libri proibiti, poi regolarmente aggiornato fino alla sua soppressione il 4 febbraio 1966 da parte della Congregazione per la dottrina della fede (Olio su tela di Iacopino del Conte, ca. 1560). Naturalmente non è il censore più famoso, basti pensare, in tempi recenti, al nazi-fascismo, all’Unione sovietica, alla rivoluzione culturale cinese, all’Inghilterra vittoriana, al maccartismo o al contemporaneo Kim Jong-un.

Sembra proprio il vecchio bigottismo dei cristiani d’Occidente, di cui è luminoso esempio il Librorum prohibitorum index, ex mandato Regiae catholicae eccetera, la lista dei libri proibiti, insomma, perché davano fastidio alla morale cattolica. Però anche in questa società che vorrebbe essere campione della democrazia, della partecipazione e della trasparenza c’è sempre qualcuno che vuole proteggere qualcun altro a suon di divieti e di una buona dose di paternalismo, ciò che ha poco a che fare con la democrazia e col diritto.

Succede così che dopo le Direttive sui comportamenti inadeguati in ambito scolastico (v. L’etica in classe), ecco la versione per le scuole comunali di pochi giorni fa. Siamo ormai al divietismo, variante raffazzonata del proibizionismo, che almeno ci riservò opere indimenticabili, dalla letteratura al jazz, da Francis Scott Fitzgerald a Duke Ellington. Qui siamo di fronte a una variante più timida, che fin qua ci ha dato solo irritazione, stemperata da una sorta di pigrizia intellettuale – ma stiamo parlando del Dipartimento che si occupa di Educazione e di Cultura, in uno slancio di contraddizione e di ossimori, perché l’Educazione coi divieti ci riporta dritti ai tempi della scuola del Cuore di deamicisiana memoria, senza le sue pagine di commozione, tormenti e atti eroici.

Non è naturalmente una questione inaspettata. Già nel 2007 Giorgio Pellanda, prof della scuola media, nonché deputato al Gran Consiglio, chiese al Consiglio di Stato se fosse «finalmente intenzionato a proibire totalmente l’uso del telefonino in tutte le scuole obbligatorie del Cantone». Ne avevo scritto in un articolo – Telefonini a scuola: problema d’educazione o di repressione? –, che avevo chiuso con una postilla: non è chiaro se il divieto di introdurre il telefonino nel perimetro dell’istituto scolastico toccherebbe solo gli allievi o anche gli insegnanti, ai quali, come del resto agli allievi, è garantita la possibilità di telefonare tramite la segreteria.

Per fortuna non tutto il mondo si difende coi divieti, i giudizi di valore, le arrampicate sui vetri. C’è anche chi vuole affrontare il tema di petto, per il futuro dei suoi cittadini e del suo stesso presente. È interessante, ad esempio, il caso della Finlandia (ma guarda!?), che promuove l’educazione ai media come costitutiva dell’educazione civica, così come l’Estonia, che sin dalla scuola elementare prevede, nel contempo, lo sviluppo di competenze digitali, mirando alla comprensione critica della tecnologia e dei social media, senza scordare di chinarsi su privacy, cyberbullismo e dipendenze tecnologiche; ciò che, coerentemente, passa anche dalla regolazione dell’uso degli smartphone durante le ore di scuola, a partire dal divieto dell’utilizzo durante le lezioni, per favorire l’attenzione e le interazioni sociali dirette.

Si consideri che, Con poche eccezioni, i giovani hanno tutti uno smartphone personale (v. il rapporto Giovani | attività | media – rilevamento Svizzera). Se analizziamo la vita mediale quotidiana dei giovani – si legge nel rapporto – emerge che la maggior parte di loro non si è semplicemente “persa nel mondo virtuale”, ma adotta generalmente un approccio riflessivo nei confronti dei media e ama ancora incontrarsi con gli amici, fare attività insieme e coltivare una varietà di interessi da condividere. (…) I genitori e i responsabili dell’educazione, le scuole, i giovani stessi, le autorità di regolamentazione e i media devono assumersi la responsabilità di sostenere un uso dei media sicuro e adeguato allo sviluppo. Ma l’idea che non usare gli smartphone e i social network sia la migliore forma di educazione ai media non è adeguata ai tempi attuali.

Riprendiamo dunque il discorso partendo dall’Estonia o dalla Finlandia e dai loro sistemi formativi, spesso citati, più raramente imitati. Al posto dei divieti converrebbe tornare a battere i sentieri dell’educazione, difficili eppur potenti. Si tenga conto che tra i quattro e i quindici anni, un allievo che non ripete neanche una classe trascorre a scuola ben più di diecimila ore. Come ha scritto il sociologo Philippe Perrenoud, se la medicina, per obbligo statale, potesse occuparsi della popolazione anche solo per una porzione infinitesimale di questo tempo, non le si perdonerebbe neanche un raffreddore.

Scritto per Naufraghi/e

Pensa te le coincidenze! A pagina 9 dell’edizione odierna, il Corriere del Ticino riporta questa notiziola: Vietare a scuola gli smartphone? L’82% è favorevole. «Quattro svizzeri su cinque (82%) sono favorevoli a vietare il telefonino a scuola. Inoltre, più di due terzi non vede di buon occhio il social cinese TikTok. Lo rivela un sondaggio dell’istituto Sotomo, nel quale anche il 64% dei giovani fra i 18 e i 25 anni è per le restrizioni a scuola. Secondo gli autori del rilevamento, il largo sostegno al divieto si spiega con una crescente consapevolezza dei rischi: dipendenza, problemi di concentrazione e perturbamento delle relazioni sociali».

Se la scuola non fosse inclusiva, in che società vivremmo?

Laddove eventualmente pone problemi l’inclusione va gestita meglio, non abolita in base alle lusinghe del darwinismo sociale che affascina sempre più le destre.

«La scuola inclusiva finisce sotto esame», così il Corriere del Ticino ha aperto la sua edizione del 19 ottobre. UDC e PLR, che si contendono il tema a livello federale, propongono classi speciali per i bambini che parlano lingue straniere o con difficoltà di apprendimento. Secondo i due partiti borghesi, la scuola inclusiva ha mostrato i suoi limiti. L’inclusione, se non gestita con equilibrio, può essere dannosa sia per gli allievi con difficoltà, sia per quelli senza problemi. Quindi? Meglio escludere. Meglio ancora, respingere, mettere all’angolo.

Non era una prassi nazionale, quella di tentare anche solo l’integrazione degli allievi alloglotti nelle nostre classi. Un collega argoviese, qualche anno fa, mi aveva raccontato come funzionava in quel cantone. Gli alloglotti erano raggruppati in classi in cui imparavano il tedesco, cioè l’Hochdeutsch, almeno quel poco per sopravvivere. L’anno dopo si “integravano” nelle classi usuali, dove si parlava lo Schwiizertütsch.

Non la si chiamava ancora inclusione, neanche da noi. Però, al di là della lingua, in altri Cantoni, il Ticino tra questi, si tentava anche una strada di integrazione culturale, processo tremendamente complicato, che, detto così, può far sorridere. Ho conosciuto tanti confederati che non sono mai riusciti a perdere il loro inconfondibile accento, accanto a campani o molisani che s’avventuravano nel nostro dialetto, senza accorgersi di farsi fatalmente riconoscere al volo. Personalmente cerco sempre di non imitare gli accenti altrui, tanto mi beccano sempre, da Varese a Siracusa.

Cosa sia l’inclusione, e cosa la distingue dall’esclusione, dalla separazione e dall’integrazione, lo spiegano bene Elisa Geronimi e Michele Mainardi nell’approfondito In-formazione@Inclusione, che cita quattro atteggiamenti diversi verso i diversi: esclusione, separazione, integrazione, inclusione. Diciamo allora che la visione delle destre elvetiche – ticinesi comprese – spinge verso la separazione. Di qua i normali, di là gli altri, al di là di una definizione e dei soliti preconcetti.

Tratto da in-formazione@inclusione, a cura di Elisa Geronimi e Michele Mainardi (SUPSI-DFA)

La smania di voler in qualche modo catalogare, omologare, facilitare è vecchia come la scuola. Oggi siamo per lo più alle classi per età: a quattro anni si entra nella lunga fase dell’obbligatorietà scolastica e dai sei anni cominciano le tappe tradizionali: la 1ª, la 2ª, la 3ª elementare, fino alla licenza di scuola media. Se tutto fila liscio, in men che non si dica finisce il privilegio (o la sventura…) di dover andare a scuola.

Quand’ero bambino, nella cittadina in cui sono cresciuto vigeva ancora la separazione tra maschi e femmine, designazione un po’ zootecnica per indicare bambini e bambine. Era un segno distintivo delle città. Conobbi le classi miste in III ginnasio. Detta così parrebbe una scelta un po’ bacchettona di quegli anni. Eppure ancora nel 2009 alcuni parlamentari della Lega (sempre i soliti, insomma), primo firmatario Bignasca il Giovane, chiesero, tramite un atto parlamentare, di studiare la fattibilità di introdurre questo modello di apartheid scolastica, basato sulla “tesi educativa” – molto semplice, specificavano – secondo cui maschi e femmine sono talmente diversi fisicamente e psicologicamente che sarebbe un errore pretendere che imparino le stesse cose alla stessa età. La parola-chiave è talmente.

Qualche anno prima un’altra trovata per raggruppare gli studenti era arrivata dalla Gran Bretagna, dove il governo di allora aveva escogitato un’idea che era sembrata un colpo di genio: dividiamo gli studenti in base alla loro intelligenza. Ecco il miracolo, come se non fossero bastate le derive xenofobe che già attraversavano i sistemi scolastici di mezza Europa.

Ma l’avversione quasi rancorosa per l’inclusione nella scuola di UDC e PLR, due partiti sempre più a destra, ha tuttavia una sua logica. Lorsignori hanno una concezione darwinista, individualista e ultra meritocratica dell’intero paese, e quindi anche del suo sistema scolastico. A ciò si aggiunga che, nella realtà, in Svizzera vi sono 26 leggi scolastiche, ognuna ancorata alle sue tradizioni e alle sue abitudini.

Alla faccia di tanti tentativi di collaborazione, soprattutto tra regioni linguistiche, ogni Cantone tende a sottolineare le sue particolarità, che sono storiche, religiose, economiche, direi antropologiche – per rendersene conto basterebbe parlare con un gruppo di professionisti dell’educazione dei Cantoni di Ginevra e Vaud, o di Uri e San Gallo. Al di là del Concordato HarmoS, col quale i Cantoni svizzeri hanno scelto di precisare mediante un accordo quali siano gli elementi fondamentali che permettono l’armonizzazione tra i sistemi scolastici cantonali, permangono tante diversità, che oltrepassano tranquillamente la sostanza degli elementi fondamentali, che sono poi i soliti leggere, scrivere e far di conto.

Non da oggi alcuni Cantoni includono o escludono più di altri, sono più o meno selettivi. Ricordo – un ricordo di qualche anno fa – che alcuni Cantoni avevano una percentuale molto più elevata di allieve nelle scuole speciali, così come nel Canton Vaud esisteva fino a tempi recenti l’École primaire supérieure destinata a quegli allievi che, al termine della scuola elementare, non erano stati ammessi alla scuola secondaria superiore (ginnasio): roba da far impallidire i nostri livelli A e B della scuola media.

Stiano comunque tranquille le destre elvetiche, perché nel nostro paese l’inclusione è già in atto da un pezzo, anche in quei Cantoni che si ritengono tutt’altro che levantini, festaioli e inaffidabili, a parte forse Appezöll Innerroode, il semi-cantone di Appenzello interno. Ora si tratta solo di fare un passo in più.

Scritto per Naufraghi/e

Educare in tempi oscuri

Crescono le forze reazionarie in tutta Europa; la risposta democratica spetta anche alla Scuola, come segnala il pedagogista e ricercatore Philippe Meirieu

In un suo recente lavoro Philippe Meirieu, pedagogista, ricercatore e saggista, afferma che l’ascesa dell’estrema destra, ovunque in Europa, rappresenta un pericolo considerevole per coloro che credono ancora che l’emancipazione di ciascuno e la solidarietà tra tutti siano le uniche prospettive in grado di dare un senso al nostro futuro. […] Nel paese dei Lumi [ma non solo, direi] si deve ancora sperare in un vero risveglio politico, nei mesi e negli anni a venire, da parte di coloro che credono ancora, come diceva Theodor W. Adorno, che «Pretendere che la barbarie non si ripeta più è la prima esigenza di ogni educazione», perché, spiegava, «che ci siano degli uomini che diventano esecutori di ciò che perpetua la loro stessa schiavitù e rinunciano a ogni dignità […], è qualcosa su cui l’educazione ha comunque ancora molto da dire» (Educare dopo Auschwitz, 1967).

Voltaire e Rousseau, 1794 circa

Che sia una destra estrema o anche solo un centro-destra agguerrito, si tratta di un’onda che ha invaso quasi tutto l’Occidente e che ha preoccupanti ricadute sui sistemi scolastici, con una certa enfasi verso i piani di studio, le impostazioni pedagogiche e le regole di valutazione. Ci si può guardare in casa, per cominciare. HarmoS è un concordato che definisce a livello svizzero le discipline che rientrano nella formazione di base e che devono essere affrontate da ogni bambino nel corso della propria scolarità obbligatoria. Queste sono le lingue (lingua di scolarizzazione, seconda lingua nazionale e un’altra lingua straniera), matematica e scienze naturali, scienze umane e sociali, educazione musicale, educazione visiva, educazione alle arti plastiche e educazione fisica. Si badi bene, l’elenco segue l’importanza data a ogni disciplina e trascina nella propria scia la dotazione di ore di insegnamento e il peso della valutazione, che è piuttosto selettiva.

Parrebbe insomma che, tanto o poco, un gran numero di paesi europei insegua quelle “eccellenze” internazionali date da piani di valutazione come PISA, l’indagine internazionale coordinata dall’OCSE, che valuta le competenze degli studenti di 15 anni in lettura, matematica e scienze. L’obiettivo di PISA è misurare, a scadenza triennale, quanto gli studenti, prossimi alla fine dell’obbligo scolastico, siano in grado di applicare le loro conoscenze e abilità in situazioni reali, solleticando un confronto tra i sistemi educativi dei vari paesi partecipanti, ma senza minimamente considerare le strategie messe in moto per raggiungere i loro risultati, cioè come funzionano i sistemi scolastici dei diversi paesi.

Ha affermato lo scrittore Paolo Di Paolo: Dove i genitori non credono nei figli, ci crede la scuola. Dove la società attempata non crede nei giovani, ci crede la scuola. Dove i genitori e la società attempata non credono nella scuola, la scuola è tenuta a credere in sé stessa. Dove la società attempata e le sue sacche reazionarie non credono più o non hanno mai creduto nella democrazia, la scuola continua a crederci. Deve crederci. (La Repubblica, 11.09.2024).

Lo sanno tutti che certi test scolastici si possono superare dopo una bella “secchiata” la notte prima degli esami, magari in bella compagnia, una notte che sarà rievocata quando, da grandi, si faranno le rimpatriate. Da lì a ricordare di cosa si trattava ce ne corre: si commemorano lo stress, il prof accigliato che ci scrutava, gli stratagemmi per inventare i bigini più inespugnabili, in una recita conosciuta da tutte le parti in gioco. E poi? Cosa è rimasto di tutta quella sceneggiata? Purtroppo è quel che succede con regolarità, in tanti gradi scolastici. La palese incoerenza, semmai, risiede nel contenuto di ogni test. Perché un conto è – poniamo – la padronanza mnemonica delle caselline, un altro la capacità di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà: che è una delle finalità della scuola. Direi: più importante delle caselline, e pure di uno qualsiasi dei principi della termodinamica. Ma chi si occupa di valutare gli obiettivi più alti della scuola?

È soprattutto in questo contesto di competizione e selezione, sempre più tracotante e dispotica, che si colloca l’ultima fatica di Philippe Meirieu, Éducation: rallumons les Lumières!, che potremmo tradurre con “risvegliamo l’Illuminismo”, rianimiamolo, ristabiliamolo, resuscitiamolo. Applichiamone i principi fondamentali. L’autore ricorda che il secolo dei Lumi fu un’epoca di passione per l’educazione, dove si affermò la scienza contro l’oscurantismo e si lottò per liberare i bambini da ogni forma di dominio, compresa quella della Chiesa, che si vantava di proteggere i bambini dalla tentazione e dal peccato inculcando loro un catechismo basato sulla paura dell’inferno. Gli intellettuali illuministi, raccogliendo il sapere globale nelle loro enciclopedie, aspiravano invece a formare individui capaci di pensare autonomamente e scegliere liberamente il proprio destino, una visione di emancipazione che rimane fondamentale anche oggi.

D’accordo, il mondo, fin qua, non è andato esattamente in quella direzione. Forse anche perché la Costituzione della République comincia con La Francia è una repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale, mentre quella svizzera decolla In nome di Dio Onnipotente: come è noto almeno agli umanisti, le parole hanno un senso.

Philippe Meirieu, Éducation: rallumons les Lumières!, 2024, Éditions de l’Aube, pp. 185 (disponibile anche in formato e-book).

La traduzione delle citazioni dall’originale è mia.

Scritto per Naufraghi/e

La scuola non è il Golgota

A Singapore i giovani pagano un prezzo elevato per un sistema estremamente orientato al rendimento: mancanza di sonno, problemi di attenzione e pensieri confusi. Ogni anno alcuni studenti si tolgono la vita per disperazione. Vogliamo questo anche in Ticino?

La Legge della scuola, votata dal parlamento sul finire del XX secolo, stabilì che i genitori erano a pieno titolo una componente della scuola, con organi e compiti sanciti da leggi, regolamenti, norme e direttive. Era il 1990 e la scuola era già un po’ diversa da quella degli anni in cui questi propositi erano nati, vent’anni prima. Diciamo che sull’arco del mezzo secolo, dall’istituzione della scuola media nel 1974 a oggi, sono cambiate parecchie cose. Il varo della nuova Legge arrivò sei anni dopo che Apple presentò Macintosh e tre mesi dopo il crollo del muro di Berlino: basterebbero queste due date a simboleggiare i frenetici cambiamenti di un’era forse ancora ai suoi inizi.

Anche solo limitandosi alla scuola obbligatoria, sarebbe già eloquente il confronto tra i (vecchi) programmi della scuola elementare e della scuola media con i contenuti del Piano di studio attuale, che copre la scolarizzazione di tutte le persone residenti nel Cantone dai quattro ai quindici anni di età. Dei genitori e dei loro dispositivi formali e informali di collaborazione, invece, è cambiato poco, e di quel poco non si sa bene chi ne usufruisce e se ne giova: ci si chieda quanti frequentano l’assemblea dei genitori e entrano nei loro comitati, e quanti hanno incontri regolari e fruttuosi con i/le docenti dei loro figli.

Nel 2023 la SRF ha realizzato un interessante reportage – Modelli scolastici a confronto – che mostra dove si situa il nostro sistema scolastico rispetto a Singapore e alla Finlandia, due mondi formativi agli antipodi, due scuole da anni al top delle classifiche PISA per i loro risultati in matematica, lettura e scienze. La scuola svizzera si colloca tra questi due modelli. Ho estrapolato qualche passaggio che riguarda Singapore e Finlandia.

I giovani singaporiani pagano un prezzo elevato per questo sistema estremamente orientato al rendimento: mancanza di sonno, problemi di attenzione e pensieri confusi, che a volte sfociano nel peggio. Ogni anno, alcuni studenti si tolgono la vita per disperazione. Centinaia chiedono aiuto all’organizzazione SOS, specializzata nella prevenzione dei suicidi.

Dal sud-est asiatico e tropicale alla Finlandia anche il clima scolastico è assai diverso. Un maggiore riconoscimento è la chiave per avere insegnanti motivati, che dovrebbero insegnare le competenze di cui gli alunni avranno davvero bisogno: le competenze del XXI secolo, ovvero creatività, comunicazione, cooperazione, lavoro di squadra, sulla scorta di un’idea degli obiettivi fondamentali della scuola: formare futuri cittadini muniti di competenze per professioni di cui non conosciamo ancora l’esistenza.

La scuola svizzera è distante dai modelli della Finlandia e di Singapore, riportando comunque risultati sopra la media dei paesi partecipanti e nel gruppo di testa dei paesi europei. Tenuto conto che, di solito, la scuola non insegna ciò che dice, ma insegna ciò che fa, si potrebbe dire che il suo funzionamento ricorda vagamente quello singaporiano, anche se, fortunatamente, siamo ancora lontani da quei tristi finali dell’esasperata competizione scolastica.

Eppure qualche sintomo preoccupante si è già palesato: molti genitori non sanno più da che parte girarsi e accumulano stanchezza, ansia, senso di inadeguatezza. Recentemente, TIO ha riportato di Genitori sempre più in burnout. Tra le diverse testimonianze raccolte – scrive il portale – c’è quella di Sonia, 36 anni. È una mamma single di un figlio di tre anni e mezzo che – racconta – «per sbarcare il lunario faccio due lavori: il primo in un ufficio delle imposte, il secondo come badante». Ammette di essere «costantemente esausta e spesso vorrei essere altrove, anche quando sono a casa. Ogni volta che mi alzo al mattino ho la nausea e penso tra me e me: come farò ad affrontare la giornata? Vorrei solo che fosse di nuovo sera per poter dormire. Mi sembra una lotta costante per la sopravvivenza».

Nel contempo Pro Juventute parla di queste figlie e di questi figli, che, per gran parte dell’anno, sono allievi e studenti: Bambini e giovani sotto stress e pressione competitiva. Di sicuro non sono le mamme come Sonia a creare problemi alla scuola, a prendere di mira gli insegnanti a loro giudizio inadeguati. Purtroppo, capita di incontrare genitori a volte un po’ squadristi, mai sufficientemente sazi di nozioni, sacrifici, fatiche, competizione per i loro figli. Ha scritto di recente il parlamentare Piezzi del PLR: In campo educativo, e l’ho denunciato più volte, sono troppo assenti valori come il sacrificio, l’allenamento allo sforzo, la capacità di reagire agli insuccessi. Il pulpito ha naturalmente la sua importanza, dato che il deputato è pure maestro. Ma perché mai dovremmo rifarci alla narrazione cattolica, che dalla Via Crucis, disseminata di dolori, sale al Golgota?

Pieter Bruegel il Vecchio, Salita al Calvario, 1564, olio su tavola, 124×170 cm, Kunsthistorisches Museum Vienna

Alle tante mamme come Sonia, che hanno figli a scuola, non si possono chiedere ulteriori sacrifici oltre alla fatica e al sudore che già affrontano ogni giorno, felici di lasciare i figli a scuola, un po’ meno di essere costrette a far capo al doposcuola o alle colonie, per l’impossibilità di restare con loro. La scuola, per lo meno quella dell’obbligo, dovrebbe darsi una calmata e smettere di piegarsi alle richieste di tutte quelle corporazioni che chiedono sempre più nozioni, «competenze» e selezione.

In Finlandia le giornate scolastiche sono più brevi che in quasi tutti gli altri Paesi: 4-6 ore al giorno con una settimana di 5 giorni. Gli alunni, inoltre, dedicano anche poco tempo ai compiti a casa: 10-20 minuti al giorno. In questo modo si evita di penalizzare i bambini senza un supporto a casa. In questo modo non ne risentono né il sonno né le prestazioni cognitive. Ciò nonostante i livelli di competenza dei loro quindicenni sono simili ai nostri.

 

Scritto per Naufraghi/e

Su temi analoghi segnalo tre articoli di questi giorni:

Gli affanni della scuola liberal sociale, di Fabio Camponovo (Naufraghi 02.09.2024), La scuola tra l’essere e l’avere, di Elda Pianezzi (laRegione 03.09.2024) e Scuola fa rima con idea, di Michela Luraschi (laRegione 03.09.2024). I due articoli pubblicati su laRegione sono visibili anche qui.

 

Dai margini dell’aula: esperienza, pensiero critico e qualche nota fuori dal coro