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PC e internet non possono colmare le lacune culturali

Il 98% degli allievi ticinesi tra gli 8 e i 15 anni usa il PC e il 92% bazzica anche internet. Ad eccezione di una misera percentuale, la maggior parte si considera almeno un discreto smanettatore del web e naviga da 15 minuti al giorno (11%) a più di 5 ore (5.5%), con un 64% che vi resta quotidianamente da 1 a 3-4 ore, in alcuni momenti topici della giornata, tra mezzogiorno e prima di andare a letto. A parte la ricerca di informazioni, gran parte del tempo è spesa per giocare, cercare immagini e filmati, chattare, entrare nei blog. Quasi tutti i ragazzi delle medie hanno già sentito parlare dei rischi di internet, mentre pressappoco un terzo dei bambini delle elementari ammette di non sapere cosa è meglio evitare. Sono solo alcuni dei dati, neanche così sorprendenti, che scaturiscono da un’interessante ricerca svolta da Michele Mainardi e Lara Zgraggen, docenti alla SUPSI, pubblicata nel dicembre scorso («Minori e internet: indagine sui comportamenti dei minori in Internet e sull’uso del PC nella Svizzera italiana»). Anche se le percentuali citate devono essere prese con le pinze, non credo che il quadro preciso sia in sostanza molto diverso da quello presentato. È interessante notare come una tecnologia nata per lo studio, il lavoro e la ricerca sia diventata un mezzo di intrattenimento praticato in dosi imponenti, tanto che ci si potrebbe chiedere dove trovano il tempo, i nostri ragazzi, per studiare, leggere un libro, guardare un film in santa pace, stare a tavola con la propria famiglia, dormire, praticare dello sport o molto più semplicemente oziare (e pensare e fantasticare, attività utilissime quant’altre mai in questa fase evolutiva).
Quanto alla scuola, confrontata con questo fenomeno, non sta con le mani in mano: da diversi anni si intensificano gli sforzi affinché le cosiddette TIC – Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione – siano conosciute, non fosse che per educare a farne un uso responsabile. Tuttavia permane qualche dubbio, soprattutto nei confronti del rapporto tra l’uso delle nuove tecnologie e i compiti fondamentali della scuola. Ad esempio, è interessante osservare che i nostri ragazzi, in base al sondaggio citato, non usano il PC per scrivere, calcolare o schedare libri. L’attività di ricerca di informazioni, citata da più della metà degli interrogati, non va oltre la dichiarazione generica, ma si può ipotizzare che le domande poste alla rete siano variegate ed eterogenee, con sicure scampagnate fuori dei pur vasti sentieri dello studio; tanto che è diventato usuale trovare, nelle bibliografie che concludono le tesine, affollate liste di indirizzi www, che inducono per lo meno il dubbio che tra il copiare testi da Wikipedia con un clic, leggerli e conoscerli, non ci sia nessuna correlazione. Se così fosse – ma, personalmente, ho la netta sensazione che le cose stiano proprio così – saremmo di fronte a un’enorme fanfaluca, col vestito della festa per nascondere le vergogne. Oltre a ciò ci si potrebbe chiedere se il gran dispendio di energie profuso dalla scuola nell’ambito delle nuove tecnologie non si riduca, per sintetizzare, a una legittimazione del loro uso (indiscriminato), corredato da qualche precetto che consenta di prevenire i rischi e di censurare gli aspetti più biechi del web. Per certi versi quest’attitudine della scuola ricorda quella di quarant’anni fa riguardo alla televisione. Da una parte si rendevano attenti i genitori sui rischi di una fruizione incontrollata nei tempi e nei contenuti; dall’altra si riteneva utile e doverosa l’educazione alla comprensione dei linguaggi audiovisivi. A occhio e croce mi pare di poter dire che nessuno dei due traguardi è stato raggiunto. Vedremo dunque come finirà questa nuova avventura. Si deve pur rammentare che per cercare informazioni in rete bisogna sapere bene cosa si vuole; così come per scrivere con i potentissimi elaboratori di testo a disposizione occorre sapere scrivere: nell’uno come nell’atro caso, PC e internet non possono colmare lacune tecniche e culturali.

Il dovere di educare e il diritto all’educazione

Con una progressione che fa una certa impressione, il pianeta giovani ha preso possesso in questi ultimi anni delle cronache giornalistiche, fino ad occuparle quasi quotidianamente: da quando è passato dai graffiti e le banali risse, agli abusi e alle molestie sessuali, agli stupri e ad altri odiosi comportamenti dalla valenza più o meno criminale, non c’è giorno senza che si debba leggere di tali prodezze. Fino a un po’ di tempo fa a tener banco erano i tafferugli, le grandi bevute, le vendette tra bande di bulli, il vandalismo esasperato e fine a se stesso. Una volta – a Muralto, mica nel classico Bronx – ci è pure scappato il morto, un giovane finito a coltellate per futili motivi. Per stare alle notizie più recenti, sul finire dell’estate alcuni sbarbatelli avevano saccheggiato e profanato il cimitero di Bosco Gurin.
Il logico corollario di una situazione del genere è rappresentato da riflessioni, dibattiti e inchieste più o meno ponderate. Diciamo però che c’è un po’ di confusione, e che sarà difficile, quanto inutile, trovare un capro espiatorio da potere additare al pubblico ludibrio. Nel caso delle ultime vicende, alla gogna sono finiti alcuni dirigenti scolastici e con loro l’intero Dipartimento dell’Educazione, rei di non aver segnalato i fatti alla magistratura penale; e la scuola è sempre più spesso sotto i riflettori accusatori, poiché col suo permissivismo esacerbato avrebbe contribuito alla diffusione di un buonismo e di un lassismo etico che han finito per infettare l’intera società. In altri casi la polizia è stata impallinata, perché non c’è mai quando dovrebbe esserci. Quasi sempre, infine, sono accusati i genitori, che hanno perso il controllo sui figli e non li sanno più educare.
Tutto vero, anche se in passato si è assistito a qualche manifestazione un po’ schizofrenica da parte del mondo degli adulti. Giusto tre anni fa, tanto per fare un esempio, c’era stato l’intervento della polizia durante una festa di studenti del liceo di Mendrisio: l’esercizio pubblico in cui festeggiavano era troppo piccolino e rischioso per contenere tutta quella folla, e poi c’erano minorenni alticci e forse qualche spinello di troppo. Nei giorni seguenti diversi genitori si erano rivolti all’opinione pubblica attraverso le immancabili lettere ai giornali, per censurare l’intervento poliziesco. D’altronde non è una novità che la scuola non è più in grado di richiedere il rispetto di talune regole, ed è facile che quando lo fa, magari di fronte a comportamenti decisamente inaccettabili, può incappare nelle ire di qualche genitore, che giudica vessatorio, autoritario o per lo meno esagerato l’intervento dell’insegnante o della direzione. Parallelamente capita che la polizia porti in guardina qualche giovane esagitato, ma – si dice – dopo la consueta stesura del verbale il giovanotto esce dal posto di polizia, magari applaudito dai compagni di merenda. Insomma: bisognerebbe sempre intervenire in termini educativi, scordando che anche la punizione può avere una funzione formativa.
Tempo fa il comandante della polizia cantonale, intervenendo proprio su questo giornale, aveva smascherato quei genitori che se la prendevano in malo modo con la polizia quando la pattuglia di turno riaccompagnava a casa qualche pivello sorpreso in giro a notte fonda, magari in preda all’alcol o alle droghe. Eccoci dunque al più classico degli scaricabarile. La soluzione, che per forza di cose semplice non è, non risiede certo nel reperimento di un’istanza sulla quale far leva per mettere a posto le cose. Non abbiamo bisogno di leggi violente e autoritarie, né di individuare un colpevole esemplare. Nel contempo non è più tollerabile l’ignavia di alcune famiglie: tante o poche che siano, è necessario che rispettino per prime le insostituibili norme che ne regolano il ruolo educativo, che è un loro dovere e un diritto dei figli. Politica, scuola, polizia e magistratura penale devono togliere dai loro ingranaggi la sabbia che, nel corso degli anni, ha inceppato l’intero funzionamento dell’istituzione. Ma fino a quando qualcuno potrà chiamarsi fuori, ogni sforzo sarà vano.

In America non c’è educazione senza censura

Sesso, religione, blasfemia, volgarità sono tra le principali ragioni che hanno spinto l’autorità di vigilanza a censurare, senza troppi patemi d’animo, alcuni libri giudicati diseducativi per i giovani studenti americani. Nello stato di Washington, ad esempio, negli ultimi due anni ben 34 titoli sono stati oggetto di controversie; di questi, dieci hanno subito delle restrizioni d’accesso e sei sono stati garbatamente sottratti dagli scaffali. Nel Texas un ponderoso rapporto intitolato «Free People Read Freely» riferisce di ben 62 titoli rimossi da questa o quell’altra biblioteca scolastica e di 33 altri volumi colpiti da restrizioni.
Fin qui non ci sarebbe nulla da eccepire. Però, immergendoci in qualche maggiore dettaglio, se ne scoprono delle belle. Ad esempio che «Le avventure di Huckleberry Finn» non è accessibile a chiunque, perché il nostro eroe smoccola un po’ troppo; oppure che tutta la saga di Harry Potter è andata incontro ad alterne fortune in questa o quell’altra scuola, perché incita alla stregoneria. Altri libri assai noti – e straletti da schiere di adolescenti, almeno fino a qualche anno fa, quando leggere era ancora un’attività assai diffusa dentro e fuori dall’aula – sono incappati nelle maglie censorie dell’«American Civil Liberties Union»: ad esempio «Ragazzo negro» di Wright e «Il colore viola» della Walker (razzialmente scorretti); «Ritorno al mondo nuovo» di Huxley, «1984» di Orwell e «Peter Pan» (contenuti sessuali); «Uomini e topi» di Steinbeck (linguaggio scurrile e violenza). E via inventariando.
E a noi, abitanti delle vecchia Europa, ce ne deve forse importare qualcosa? In fondo si tratta solamente di procedure assai coerenti con quell’America puritana e bacchettona che tutti noi conosciamo, che certo fa a pugni con le professoresse che si portano a letto gli studenti o con le insulse serie televisive che imperversano anche da noi, soprattutto dopo la liberalizzazione dell’etere; ma che è nel contempo in linea con quell’elevata percentuale di americani che diffida delle teorie di Darwin sull’evoluzione della specie ed è invece più propensa a dar credito scientifico al mito di Adamo ed Eva. Eppure c’è da inquietarsi, perché l’espansione della “correttezza politica e sessuale” sta lambendo anche le nostre contrade. Come interpretare, sennò, talune crociate dai toni un po’ apocalittici messe in atto negli ultimi tempi dal nostro governo? Se addirittura uno come Giuseppe Zois, disquisendo sulla proposta di vietare il fumo nei locali pubblici,  arriva a parlare di «Sicurezza ad altimetria variabile», siamo proprio al capolinea della Libertà, così come l’abbiamo intesa fino all’altro ieri.
Il vento della globalizzazione – che non è solo economica e finanziaria (anzi!), ma ha caratteristiche antropologiche e culturali – spira impetuoso dagli Stati Uniti, e dopo la Coca-Cola e i miti hollywoodiani ora sta imponendo con modi suadenti il liberismo più sfrenato in tutti i campi. Quale sarà – ad esempio – lo sviluppo futuro del cosiddetto “Accordo di Bologna” sull’armonizzazione delle università (un modello formativo molto americano, of course!)? Già stiamo assistendo impotenti al taglio di qualche ramo ritenuto troppo vizzo e deficitario, ma quali sorprese ci riserveranno i prossimi anni? Esisteranno ancora atenei dove si sviluppa la ricerca fondamentale? Sopravvivranno facoltà improduttive come quelle delle lingue classiche? Sarà ancora possibile “fare cultura” senza produrre indotti misurabili in denaro sonante?
E allora cerchiamo almeno di tenere alta la guardia, affinché prima o poi non ci si venga a dire ciò che i nostri bambini e adolescenti possono o non possono leggere. Perché anche qui il ridicolo è sempre più dietro l’angolo, e non vorremmo veder incenerito «Il fondo del sacco» per i suoi contenuti troppo disincantati o la leggenda di Guglielmo Tell messa all’indice perché razzialmente sgarbata (gli austriaci vengono a fare i turisti in Ticino, o no?). Come ha scritto il filosofo Zambelloni, dopo il divieto di Bacco e Tabacco toccherà pure a Venere, prima o poi. E perché non ai libri?

Quando la scuola ha bisogno di più «voci»

Un libro singolare raccoglie opinioni diverse attorno alla missione dell’insegnamento

Di questi tempi dire che destra e sinistra sono schematismi superati è assolutamente politically correct. L’affermazione è certamente giusta se l’applichiamo ai partiti tradizionali, alle prese con la moltitudine di problemi richiesti dalla quotidiana convivenza nell’ambito dello Stato, ma mantiene intatto il suo significato tradizionale quando il dibattito verte su un tema preciso, come è certamente quello della missione della scuola. Una riprova viene proprio da questo «Deux voix pour une école»: il ministro delegato all’insegnamento scolastico francese Xavier Darcos e il noto studioso di scienze dell’educazione Philippe Meirieu, sollecitati dalla giornalista di Le Figaro Marielle Court, si lanciano in un lungo e appassionante dibattito sulla scuola, oggi al centro di molte preoccupazioni.

B Copertina deux voixIl libro ha visto la luce in maniera per lo meno bizzarra: il 15 settembre dell’anno scorso era partito un grande dibattito nazionale sull’educazione, voluto dal primo ministro Jean-Pierre Raffarin, per far fronte alle gravi tensioni che caratterizzano la scuola francese ormai da qualche anno. Così il ministro delegato e l’illustre ricercatore, che già in precedenza si erano scontrati pubblicamente su molti dei maggiori media nazionali, si trovano discretamente per alcuni pomeriggi negli uffici della casa editrice e danno vita a questo contraddittorio, la cui uscita nelle librerie era prevista per metà ottobre, con un titolo diverso Libres propos sur l’école»). Ma il 12 settembre – due giorni prima dell’apertura del dibattito nazionale – Le Monde dà notizia che il libro è stato censurato: «Dominique Ambiel, consigliere per la comunicazione del ministro Raffarin, ha fatto pressioni sul ministro delegato all’insegnamento scolastico affinché la sua conversazione con il pedagogista Philippe Meirieu non appaia». In altre parole: caro Darcos, o blocchi il libro o lasci il ministero. Meirieu, dal canto suo, reagisce pubblicizzando la sua parte del testo, ma non se la prende con Darcos, che giudica leale e coraggioso.

Strano destino quello di un dibattito nazionale voluto dalle più alte cariche dello Stato, che debutta con una censura: ma tant’è, dopo vari tira e molla il volume va finalmente in libreria, con un titolo nuovo ed esemplare: sì, perché i mondi che si incontrano sono davvero diversi, sono sul serio di destra e di sinistra. A destra il ministro, che preconizza la restaurazione dell’Autorità del maestro e della Scuola, anche se “l’ascensore della promozione sociale”, nel mondo globalizzato, non funziona più e genera frustrazione e amarezza negli insegnanti (e non solo). A sinistra lo studioso, che crede nella forza liberatrice della cultura e del sapere, e si impegna per il riscatto degli umili attraverso la scelta di educare (oltre il “semplice” diritto di avere un’educazione). Non mancano, beninteso, i punti di convergenza, in un dialogo tra due profondi conoscitori del sistema scolastico: il libro ha una sua universalità, anche se in tutta evidenza gli esempi e tante riflessioni si basano sulla realtà francese. Ma il dibattito resta franco e civile, al di là delle intense contrapposizioni e dei momenti anche duri e polemici.

La conclusione non può che trovarsi su due sponde diverse, seppure convergenti: per Meirieu “… in una democrazia il ministero dell’educazione nazionale dovrebbe essere il ministero dell’Utopia – l’utopia fondatrice di ogni speranza, quella di una cultura emancipatrice di tutti gli uomini”. Gli fa eco Darcos: “Il sapere, lo zoccolo d’una vita, si fabbrica a Scuola. Solo a Scuola, mentre tutto, attorno ad essa, ne nega il valore, a profitto dell’apparire, della comunicazione, dello spettacolo, dell’estetica del clip, dell’effimero, del litigio”. Resta la grande divisione: cultura per tutti o solo per taluni?

Insomma, un gran bel dibattito, civile nei toni e profondo nei punti di vista: Voltaire contro Rousseau, Darcos contro Meirieu, due voci per una scuola, al di là dei soliti problemi di bilancio, ma al cuore della scuola repubblicana.


Recensione pubblicata sul Corriere del Ticino del 21 gennaio 2004


Xavier Darcos, Philippe Meirieu, Deux voix pour une école, Novembre 2003, Paris : Desclée de Brouwer Éditeur, 203 p.

Adelante, ma con juicio…

Diciamocelo: hanno fatto bene. A scioperare, voglio dire. Mercoledì scorso hanno fatto una manifestazione che Nostra Signora di Comano ha definito storica: era dai tempi che Berta filava – o che Ho Chi Minh teneva banco sulle prime pagine dei giornali – che non si vedeva una cosa simile. Occorre riconoscere che tutto sommato i nostri insegnanti hanno mostrato una certa dignità e un adeguato senso del contegno: basti pensare che nella scuola dell’obbligo lo sciopero è stato poco più che un frammento e all’asilo c’è stato nientepopodimeno che uno sciopero immaginario: tanto di cappello ai nostri insegnanti, che hanno manifestato con il giusto impeto, senza peraltro eludere le proprie responsabilità istituzionali.
Dopo il 18 febbraio – inutile specificare l’anno – scioperare era quasi inevitabile: non tanto per quell’ora in più ai docenti cantonali, che è un insulto per chi interpreta fino in fondo il proprio ruolo, mentre altri si nascondono abilmente dietro i garantismi giuridici, quanto piuttosto per quell’ennesima potatura improduttiva ai danni delle finanze dei comuni, già più volte al centro delle taccagne mene dello Stato. Se pensiamo che i Municipi e i Consigli comunali han poco o punto da dire sulle loro scuole e versano comunque allo Stato fior di soldoni per la gestione della scuola media, vien da dire che dal 18 febbraio a oggi il loro percorso è stato tutto in salita.
Ma lo sciopero del 12 novembre ha avuto altre peculiarità che meritano un po’ d’attenzione. Per esempio si è trattato di una serrata ossequiata da più parti. Nei giorni scorsi, molti hanno creduto di scovare delle analogie con le tante e multiformi manifestazioni di piazza dell’ormai lontano ’68. Niente di più inesatto. Tanto per cominciare gli studenti che 35 anni fa intendevano sfilare contro la scuola (dei padroni e dei borghesi, ancora pochi mesi…) lo facevano mettendoci del loro: gran parte del loro entourage familiare non avrebbe certo consacrato il figlio capellone e sovversivo. Invece abbiamo visto alla TV schiere di mini-contestatori accompagnati dalla mamma. Insomma, dal punto di vista schiettamente educativo una protesta contro il potere costituito ha senso soprattutto se del potere non fanno parte solo Gendotti e Masoni, ma anche mio padre e mia madre, senza scordare il prete e il poliziotto.
Invece no: questo è stato uno sciopero con la rete di protezione, stesa un po’ dallo stesso DECS – che nei giorni precedenti ha inondato il Paese di circolari dove si approvava il casino, ma con juicio… – e un altro po’ da madri e padri che, a differenza dei loro coetanei francesi o italiani, rimpiangono ancor oggi di aver partecipato a un ’68 un po’ alla buona, senza molotov né furiosi scontri con la polizia. Dov’era, insomma, la vera sovversione? Quando mai la contestazione ha bisogno del beneplacito di mamma e papà?
Certo, altro discorso è quello degli studenti un po’ più grandicelli e in odore di maggiore età: forse un qualcuno di loro, vedendosi in tele, si è sentito un po’ Rudi Dutschke e un po’ Daniel Cohn-Bendit: ma quest’ultimi cannoneggiavano i loro insegnanti e il mondo adulto a tutto campo, mentre i Mario Capanna nostrani non hanno esitato a ergersi a strenui difensori dei propri insegnanti. E questa è la grande incongruenza, soprattutto dopo che negli ultimi mesi diverse assemblee studentesche avevano censurato aspramente la cieca selezione scolastica e l’assenza pressoché totale di una vera Cultura Umanistica: ciò che non dipende né dalla ginnastica correttiva, né dai tagli alla spesa pubblica.