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Di educazione, crocifissi e minareti

Siamo in piena campagna per il voto sull’iniziativa «Contro l’edificazione dei minareti», una consultazione dai toni chiaramente xenofobi e nazionalisti: se ne sentono un po’ di tutti i colori e non è chiaro come faranno i cittadini a infilare nell’urna un sì o un no meditato e convinto. Neanche a farlo apposta in Italia è scoppiata la polemica sui crocifissi, dopo che la corte europea dei diritti dell’uomo ha ravvisato nella loro presenza nelle aule scolastiche «una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni» e un’inosservanza della «libertà di religione degli alunni». I due argomenti non hanno nulla in comune l’uno con l’altro, se non un vago richiamo alla religione, che il caso ha dato contemporaneamente in pasto all’opinione pubblica. Eppure se ne stanno leggendo di cotte e di crude, in un miscuglio di “opinioni” per lo più campate in aria e condite di frasi fatte, pregiudizi, aria fritta e chiusura allo stato puro. Fanno addirittura sorridere i tanti articoli firmati dalle migliori penne del Paese – seri, fondati, motivati e corredati di dotte citazioni – che tentano di far riflettere il popolo svizzero sulla pretestuosità dell’iniziativa anti Islam: basta leggere un qualsiasi blog, senza disdegnare le sempre affollate rubriche dei lettori, per rendersi conto di come molti non siano probabilmente nemmeno in grado di decifrare e, soprattutto, di capire molte di queste argomentazioni. Dunque, come spesso accade, anche stavolta il popolo sovrano deciderà di pancia, alla faccia di chi reputa che nell’epoca dell’istruzione di massa e della democratizzazione degli studi l’essere andati a lungo a scuola possa configurarsi come una garanzia di cultura e di capacità di costruirsi un’opinione plausibile e ragionata. Così c’è chi voterà contro l’edificazione dei minareti perché s’immagina il muezzin che si sgola a un tiro di schioppo dalla sua finestra e chi vede già le (nostre) donne al supermercato col burqa; e poi, chissà?, magari in un futuro non lontano i nostri figli dovranno studiare il Corano a scuola, all’ombra della mezzaluna che avrà fatalmente sostituito il crocifisso (dapprima bandito dai burocrati di Strasburgo). Baggianate, che però hanno fatto breccia nella mente di molte persone.
C’entra qualcosa la scuola, in tutto questo? Direttamente forse no. Sotto sotto certamente sì. Da un po’ di anni a questa parte, la «visione pluralistica storicamente radicata nella realtà del Paese» di cui parla la nostra legge della scuola è stata travolta dalle lingue, dalle nuove tecnologie e da un eccesso di scienze esatte. È vero che già negli anni ’70 la Svizzera conobbe da vicino consultazioni popolari che andavano a solleticare i nostri istinti più egoisti: ma il dibattito attorno alle proposte dell’Azione nazionale contro la forte presenza di Gastarbeiter fu un momento di confronto serio e legittimo, partito da un problema concreto, tra chi sosteneva che la barca era piena e chi faceva notare come l’importazione di braccia aveva portato con sé degli uomini. Altro che burqa e muezzin e mezza luna. Che fare dunque? Naturalmente, come sempre, le questioni sono complesse e non vi sono dietro l’angolo soluzioni magiche e alla buona. Almeno a questo livello, però, la politica scolastica degli ultimi decenni è se non altro una parziale disfatta. E allora è il momento che gli Stati sanciscano coi fatti che l’assoluta padronanza della lingua materna – la lingua per pensare e ragionare – è più importante di un po’ di tedesco, un pizzico di francese e inglese quanto basta; che lo studio della storia è fondamentale per gli individui e per la Società; che le discipline umanistiche sono l’indispensabile strada da percorrere per educare sul serio «persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà». È, questa, una scelta indifferibile, anche per consentire a chiunque di districarsi in modo sensato nella marea di tesi che giornalmente ci sommergono in maniera compulsiva: non solo la televisione, oggi, è una cattiva maestra.

La nuova ora di religione sconfiggerà la barbarie?

L’italiano non sta tanto bene. Se lo facessero vedere all’ultimo medico condotto in fondo a qualche sperduta valle del Sopraceneri sarebbe ricoverato dritto dritto in qualche reparto di cure intensive. Invece non gli somministrano neanche una blanda camomilla. I buoi della storia, da qualche decennio, pascolano chissà dove; si sono imboscati su qualche altura, ma nessuno se ne dà pensiero. Le arti non sono mai entrate in gioco; ritenuto che, in ogni caso, è meglio metterle da parte, si è pensato bene di lasciarle dov’erano ancor prima d’iniziare: sano ragionamento razionale e poco costoso. Insomma: nel percorso di studi pensato per i nostri figli in questi primi anni del XXI secolo – e, a dire il vero, anche negli ultimi del XX – l’indice NASDAQ della cultura umanistica è ai minimi storici.
Eppure se si scorrono leggi, regolamenti, programmi, dichiarazioni e prese di posizione si dovrebbe convenire che, pedagogicamente parlando, viviamo nel migliore del mondi possibili. Siamo tutti dei candidi e laicissimi illuministi. Le nostre scuole straboccano di par condicio disciplinare: l’italiano la fa da padrone, col suo contraltare storico, la matematica. In fondo lo sanno tutti che si va a scuola per imparare a leggere, a scrivere e a far di conto. Tra le due dive, la solita schiera di importanti gregari: la storia, le scienze, la geografia, e poi l’educazione fisica, il disegno, le attività creative, la musica e le lingue nazionali. In tempi più recenti il catalogo s’è rimpinguato di una lunga fila di cortigiani (vil razza dannata!): l’inglese, l’informatica (internet! ah, internet!), le educazioni stradale, sessuale, ambientale, alimentare e alla cittadinanza – senza naturalmente scordare le diverse parentesi disciplinari che il nostro parlamento riesce a inventare a fatali scadenze, facendosi megafono della vox populi.
Nel bel mezzo di un quadro complessivo a dir poco inquietante, ecco ora il nuovo dibattito sull’ora di religione, che non mancherà di mietere le sue vittime e di onorare i vincitori. Tutto comincia, si fa ovviamente per dire, nell’ormai lontano mese di marzo del 2002. Il granconsigliere liberalsocialista Paolo Dedini presenta un’iniziativa parlamentare generica che fa l’elogio del «valore fondamentale e insopprimibile [di una] visione umanistica della società» e conclude che, secondo lui, «l’insegnamento di due sole religioni» debba essere sostituito «dall’insegnamento della storia delle religioni, dell’etica e della filosofia nel rispetto delle finalità della scuola». Inevitabile applauso. Passano sì e no otto mesi e alcuni parlamentari – prima firmataria Laura Sadis – traducono in lingua volgare alcune considerazioni sviluppate dall’Associazione per la scuola pubblica. Per farla breve: «sempre meno allievi seguono l’insegnamento religioso impartito dalle Chiese riconosciute; l’ignoranza dei sia pur minimi elementi di cultura cristiana negli studenti delle scuole pubbliche ticinesi è sempre più generalizzata ed evidente; la composizione della società (…) è tale da rendere comunque inadeguata e non più funzionale l’attuale impostazione dell’insegnamento religioso». Si propone quindi che in tutte le scuole obbligatorie e post obbligatorie a tempo pieno sia impartito per tutti gli allievi un corso di cultura religiosa, per capire la cultura e la tradizione europea e per avvicinare i giovani alla comprensione dell’universalità del fenomeno religioso.
Non mi interessa, in questo momento, discutere se occorra insegnare la religione a scuola, né a chi, in tal caso, si debba attribuire il mandato. Dietro l’ora di religione a scuola covano altri e ben più prosaici interessi. Ma cosa c’entra questa discussione con il nulla che sta «a monte»? Se, come scrivono i parlamentari, «l’ignoranza dei sia pur minimi elementi di cultura cristiana (…) è sempre più generalizzata ed evidente», si crede davvero che sostituendo un’ora con un’altra si risistemerà l’intero sistema? Sciaguratamente c’è da supporre che dopo ’sto gran scompiglio la cultura umanistica della società ticinese sarà rimasta al palo. Con buona pace di tutti.

Scuola, cultura religiosa e indifferenza

Sotto l’albero di Natale il Ticino laico ha trovato il nuovo vescovo. Come si sa, erano diversi mesi che, chi più chi meno (e chi niente del tutto), si aspettava questa elezione. La sorte – chiamiamola così, laicamente – ha voluto che il successore di Monsignor Giuseppe Torti fosse proprio quel Don Mino Grampa conosciuto nel mondo della scuola per essere stato per tanti anni rettore del Collegio Papio di Ascona, ma ancor più noto per essersi battuto in prima linea in occasione della votazione del 18 febbraio 2001 a favore del finanziamento delle scuole private.
Si può immaginare che, in ambito scolastico, qualche spirito passionalmente anticlericale o religiosamente apatico abbia platealmente storto la bocca alla notizia di tale nomina, intravedendo nella designazione di Don Mino a Vescovo della diocesi di Lugano chissà quale possibilità di nuovi rigurgiti all’assalto della scuola pubblica. Personalmente non credo che, sui tempi brevi, sarà ancora possibile una battaglia politica come quella di quasi tre anni fa; nel contempo altre grane non da poco stazionano in reconditi cassetti del nostro Governo e della Curia vescovile. È il caso – per citare l’esempio più arroventato – dell’iniziativa parlamentare inoltrata il 2 dicembre 2002 da un gruppo di granconsiglieri, che han fatto proprio un postulato dell’«Associazione per la scuola pubblica del Cantone e dei Comuni in Ticino».
L’atto parlamentare chiede in sostanza che si modifichi la Legge della scuola, là dove sancisce che “L’insegnamento della religione cattolica e della religione evangelica è impartito in tutte le scuole obbligatorie e postobbligatorie”. Al posto dell’ora di catechismo (facoltativa) appaltata alle due Chiese ufficiali, l’iniziativa propone che “In tutte le scuole obbligatorie e post obbligatorie [sia] impartito per tutti gli allievi un corso di cultura religiosa con le seguenti finalità: a) sviluppare progressivamente la conoscenza di quegli elementi del cristianesimo e della sua storia che risultano indispensabili per la comprensione della cultura e della tradizione europee; b) avvicinare i giovani, mediante riferimenti a religioni storiche diverse da quella cristiana, alla comprensione dell’universalità del fenomeno religioso, così da favorire il rispetto di ogni atteggiamento (di adesione ad una fede, agnostico o ateistico)”.
Perché quest’importante atto parlamentare non sia ancora stato evaso è facilmente intuibile. Gli interessi in gioco sono chiaramente molteplici, e non tutti facilmente confessabili. Scegliere tra obbligare tutti a dotarsi di una cultura religiosa o consentire solo a taluni di farsi catechizzare (escludendo tutti gli altri) è e sarà un  negoziato sofferto, vuoi per questioni filosofiche e, più in generale, politiche, vuoi per questioni più bassamente di parrocchia. Detto questo, credo che il nuovo Vescovo ci metterà del suo, perché è culturalmente vicino al progetto di un’educazione religiosa obbligatoria per tutti gli allievi. A suo tempo avevo avuto modo di sentirlo affermare – nel suo stile ruvido e impetuoso – che il luogo della catechesi è la parrocchia; e ancora lunedì scorso, intervistato per la Radio svizzera da Salvatore Maria Fares, ha ribadito la sua preoccupazione per l’indifferenza e il menefreghismo imperanti, ma ha pure lanciato un appello (ai cattolici?) contro la criminalizzazione degli atei. Preoccupazioni sacrosante, che sono anche quelle di molti laici.
Di sicuro la proposta di modifica della Legge della scuola, sostenuta invero con un certo distacco anche da ambienti che dovrebbero essere insospettabili, rappresenterebbe un sicuro e decisivo passo verso quel ritorno ad una scuola umanistica che in molti han cominciato a reclamare a gran voce. E d’altra parte chi ha a cuore le sorti del Paese e della sua Scuola non può esimersi dall’inquietarsi, assieme a Monsignor Grampa, per l’ipocrisia e l’indifferenza sempre più diffuse. Sempre che anche lui, come molti altri, non finisca ostaggio di chi vede in ogni cambiamento e in ogni modernizzazione la perdita di qualche misera prerogativa.