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Una scuola serena

Chi conosce qualche maestro o direttore di una scuola elementare ha certamente sentito alcuni mugugni che circolano da qualche tempo: troppa burocrazia, programmi iperbolici, scarso dialogo con la Sezione delle scuole comunali. Difficile dire con certezza cosa c’è di vero. Sta di fatto che, a fine settembre, un manipolo di deputati liberali ha inoltrato un atto parlamentare, che tocca tre aspetti dello stesso problema e pone una ventina di domande al Dipartimento dell’Educazione. «Molti attori della scuola dell’obbligo – scrivono – sono confrontati con un aumento non indifferente di oneri burocratici. Se da un lato essi possono considerarsi una necessità per lo svolgimento ottimale e professionale del proprio lavoro e per uniformare le pratiche sul territorio, dall’altro, un loro eccesso sottrae tempo prezioso ad altri compiti ritenuti fondamentali che le rispettive professioni comportano, come ad esempio la riflessione e la preparazione didattica e pedagogica; inoltre, influisce negativamente sull’aspetto motivazionale accrescendo una sensazione di fatica e sovraccarico».

C’è un malessere che raccontano in tanti. L’interrogazione, peraltro, parla di scuola dell’obbligo, ma in realtà si china solamente sul primo segmento, quello storicamente comunale. È immaginabile che il riformismo concitato del Dipartimento di Bertoli generi malumori, la cui percezione è fatalmente soggettiva. Molti cambiamenti di questi ultimi anni, nondimeno, discendono dall’iniziativa popolare «Aiutiamo le scuole comunali», depositata nel 2009. Essa aveva goduto di un successo strepitoso, conteneva un ampio ventaglio di proposte ed era stata firmata (anche) da una cospicua percentuale di addetti ai lavori. A oggi molte di quelle richieste sono diventate realtà; ma, va da sé, non è quasi mai possibile avere la botte piena e la moglie ubriaca. È però vero che, nel frattempo, c’è stata la lunga e sviante vicenda della «Scuola che verrà», nonché il varo del nuovo «Piano di studio».

Detto questo, non si può sottacere che i liberali si erano accodati alla processione che intonava a pieni polmoni il de profundis a una scuola diversa: perché poi ci vorrebbe una profonda coerenza per progettare la scuola di domani, senza perdere per strada il primato dell’educazione dei futuri cittadini. Invece anche i fondatori, tanti anni fa, della scuola pubblica, laica e obbligatoria, appartengono ormai a quella maggioranza politica che non sa fare a meno delle note scolastiche sin dall’età più tenera dei suoi scolari, ben sapendo che si tratta di valutazioni arbitrarie, che dipendono solo in parte irrilevante dal livello di sviluppo cognitivo e affettivo di ogni bambina o bambino; mentre sono in balia della qualità dell’insegnamento, della capacità di costruire validi e significativi strumenti di valutazione, dell’interpretazione soggettiva degli obiettivi da raggiungere, del livello culturale del maestro e del suo carisma.

È possibile immaginare una scuola completamente diversa da quella che conosciamo e che i più vorrebbero conservare, in modo gattopardesco, immutata nei secoli? Certo che si può, senza neanche inventarsi chissà quale diavoleria. Si potrebbe partire, ad esempio, dalla massima eterogeneità delle classi, dall’insegnamento in équipe e da piani di studio che puntino all’essenzialità della matematica, delle scienze naturali e delle discipline umanistiche – arti e filosofia comprese. Una scuola serena, insomma. Tutto ciò non riguarda solo i liberali, ovvio.

La formazione professionale tra il dire e il fare

Sono tanti anni, ormai, che, a scadenze regolari, i nostri politici propagandano la formazione professionale come alternativa al liceo. Ho trovato qualche esempio nei miei appunti, ma ve ne sono naturalmente tanti altri.

  • [Ci si può chiedere] «se non occorra sostenere maggiormente la via di una formazione professionale ancora troppo spesso (e a torto!) ritenuta di serie B» (Gabriele Gendotti, direttore del DECS, su ilCaffè del 30 agosto 2003).
  • «La conoscenza è una virtù fondamentale e una premessa di libertà, un bene che è a prova di furto. Ma i percorsi formativi sono percorribili e di qualità anche in campo professionale». (Nicola Pini, vicepresidente del PLR, sul Corriere del Ticino del 29 novembre 2014).
  • «È tempo  di sottolineare  in  modo  forte  e  chiaro  che il  percorso  formativo  professionale  è  di  pari dignità  rispetto  alla  formazione  liceale». (PLRT, Risposta alla consultazione sul documento “La scuola che verrà” del 31 marzo 2017).
  • «Chi ha una licenza con i livelli B, dopo la scuola dell’obbligo, si trova di fronte molte porte chiuse, fra cui anche quelle dell’apprendistato. A essere colpiti maggiormente sono i giovani con origine sociale bassa, che per esempio non possono permettersi i corsi di recupero per potersi assicurare il passaggio ai livelli A. Inoltre sono centinaia i ragazzi che sono a casa “a far nulla”, che hanno smesso di studiare e di cercare un impiego». (Presentazione del servizio del settimanale d’informazione “Falò” della Rsi Livelli da stress, 21 febbraio 2019).
  • Per terminare, un’opinione dall’attualità: «Non tutti devono per forza andare al liceo in particolare in un paese dove il sistema formativo, grazie a tutta una serie di passerelle, permette, con impegno e capacità, di non arrivare mai in un vicolo cieco ma di avere sempre la possibilità di proseguire i propri studi». (Alex Farinelli su Opinione liberale dell’8 marzo 2019).

Intendiamoci: il nostro modello di formazione professionale – industriale, agraria, artigianale, artistica, commerciale… – è giustamente invidiato e ammirevole. Negli anni ho seguito la formazione professionale a volte un po’ per caso, altre per interesse o dovere di servizio. Ho sempre incontrato scuole e insegnanti competenti, sensibili e attenti. È un settore che, fors’anche per il contesto socio-economico in cui è immerso, ha saputo rinnovarsi costantemente, assai spesso senza troppi clamori.

Su laRegione del 2 e 3 marzo è apparso un articolo di grande interesse: Il peccato originale della scuola ticinese, di Gianni Ghisla, pedagogista a tutto tondo, grande conoscitore della formazione professionale in Ticino.

Quel è il peccato originale di cui parla?

Nella storia del nostro Cantone – scrive – e in particolare della sua scuola c’è una sorta di peccato originale. Un peccato, forse tra altri, che a partire dalla fine dell’Ottocento ha dato luogo ad una crescente contaminazione del sistema formativo e, per certi versi, anche dell’economia e della cultura ticinesi. E quale sarebbe questo peccato originale? Alludiamo alla negligenza continua e costante di tutto ciò che ha riguardato la formazione professionale e quindi la preparazione dei giovani al mondo del lavoro. Parole forti? Può darsi. Ma la realtà storica parla un linguaggio che non lascia adito a dubbi.

E continua: Con sorprendente regolarità e continuità [ci] si imbatte in fatti significativi così come in messaggi, denunce e richiami di persone autorevoli che testimoniano inequivocabilmente del disinteresse e della trascuratezza nei confronti delle scuole professionali. Un terreno fertile su cui sono facilmente cresciuti tanti pregiudizi e una diffusa mentalità di diffidenza passiva e attiva che hanno prevalso di fronte agli sforzi di chi avrebbe voluto far crescere la formazione professionale. Occorre onestamente chiedersi: che ne sarebbe stato della formazione dei giovani al mondo del lavoro se non ci fosse stata una permanente e forte pressione da parte della Confederazione? Fermo restando che le dinamiche socioculturali hanno sempre un carattere di reciprocità, la noncuranza nei confronti del settore professionale della scuola non ha mancato di avere degli effetti negativi sullo sviluppo della nostra economia e sulla cultura ticinesi, da sempre propense a snobbare la formazione professionale considerandola o un impegno non redditizio o una scelta di second’ordine rispetto alle vie cosiddette accademiche.

Gianni Ghisla porta esempi storici, che confermano senza equivoci la presenza quasi innata del peccato, che è originale solo per una questione retorica.

Amara, ma non arrendevole, la sua conclusione: Non sarebbe forse maturo il tempo per un progetto di scuola ticinese che finalmente prenda sul serio l’insieme della società e delle sue esigenze, quelle sociali, quelle culturali e quelle del lavoro? Magari in questo modo si potrebbe riprendere il filo di una scuola del futuro di tutti e lasciarsi alle spalle il peccato originale.

Quei politici che predicano l’assoluta dignità della formazione professionale rispetto a quell’altra, solo apparentemente più “intellettuale”, hanno manifestamente ragione. Purtroppo, tuttavia, anche per tutto l’ultimo mezzo secolo nessuno ha dato segnali di voler creare un nuovo e diverso progetto di scuola ticinese. Lo sanno anche i più sprovveduti che il nodo gordiano del sistema è la scuola media, oggetto, sin dalla nascita, di continui aggiustamenti che non sanno in alcun modo prendere di petto un nuovo, diverso e indispensabile progetto di scuola dell’obbligo.

La scuola media – una riforma sacrosanta votata dal parlamento nel 1974 – era stata fortemente voluta dalle forze progressiste del Cantone, in primis socialisti e liberali-radicali. Nacque con tante buone scelte, ma anche con alcuni inevitabili compromessi, che avrebbero potuto restare transitori, mentre sono ancora lì. Per dirne una, gli ormai famigerati livelli, che hanno subito alcune mutazioni in questi 45 anni: ma sono sempre lì, irrinunciabili per troppi insegnanti e tantissimi politici, reperto vivente di ciò che si era voluto sopprimere con la riforma: il ginnasio, per chi si sarebbe iscritto al liceo o alla scuola magistrale, e la scuola maggiore per tutti gli altri.

C’è poi quell’altro peccato, di ben maggiore gravità.

Avevo scritto qualche anno fa: «L’insofferenza di taluni accademici nei confronti della formazione pedagogica è ormai una storia vecchia (…). Nel 1974 il nostro Parlamento, dopo una battaglia lunga e, in parte, estenuante, votò le Legge sulla scuola media, che cancellava le scuole precedenti, vale a dire la scuola maggiore e il ginnasio. La prima era una buona scuola, nella quale i maestri insegnavano; la seconda era una scuola selettiva, il cui obiettivo dichiarato era quello di selezionare i migliori (o i figli dei notabili) per mandarli alla scuola superiore e, poi, all’università. Nella prima c’erano i Maestri, preoccupati di insegnare; nella seconda i professori, che venivano dritti dritti dall’università – fatta eccezione per gli ultimi anni del boom demografico, dove si reclutava il personale come viene viene. In quell’ormai lontano 1974 il parlamento fu costretto ad accettare un pesante compromesso affinché la rivoluzionaria legge passasse: la scuola media unificata, che sarebbe diventata una realtà qualche anno dopo, prevedeva, dopo un primo biennio identico per tutti, i famigerati livelli A e B, poi confluiti in forme di selezione meno appariscenti, quali i corsi di base o quelli attitudinali in alcune discipline. Il guaio fu che, dopo aver ingoiato il compromesso, la nuova scuola fu presidiata da una moltitudine di insegnanti e direttori provenienti dal vecchio ginnasio: così che si finì per riconvertire i maestri della scuola maggiore in professori, invece che fare il contrario – e poco poté fare Franco Lepori, all’epoca capo dell’ufficio cantonale della neonata scuola, per fronteggiare i guasti dei politici, perpetrati con le loro nomine disinvolte» [Ma chi gliel’ha detto, a certa gente, di fare il professore?, Corriere del Ticino del 16.02.2011].

Prendiamo le scelte dei nostri quindicenni al termine della scuola dell’obbligo. La realtà, stringi stringi, è che al termine della scuola media solo poco più della metà degli allievi ha in mano i requisiti scolastici per scegliere la scuola media superiore (liceo o scuola di commercio) o una formazione professionale. A ciò si aggiunga che la SMS ha elevanti tassi di bocciatura, soprattutto nei primi due anni, e che La ripetizione dell’anno scolastico è consentita una sola volta nei primi tre anni (Regolamento delle scuole medie superiori, 2016).

Per uscire dal peccato originale, insomma, occorrerebbe ripensare da cima a fondo la scuola dell’obbligo, a partire da nuovi piani di studio, pensati per tutti gli allievi che dovranno ottenere la licenza della scuola dell’obbligo, una riforma che consenta a ognuno di conoscere a menadito i propri pregi e i propri difetti: serve cioè con urgenza una scuola che offra la possibilità di scegliere con la massima consapevolezza possibile come continuare la propria formazione di base.

L’obiettivo più nobile della scuola dell’obbligo è quello di gettare le basi per educare i cittadini di domani (L’unico e fondamentale senso della scuola dell’obbligo, Corriere del Ticino del 22.01.2019). A questa eccellenza appartiene pure l’esortazione socratica «Conosci te stesso», che può e deve iniziare già nell’età più tenera, per rafforzarsi e crescere nel corso di tutta la vita.

Così ci vogliono programmi scolastici che si nutrono di matematica, scienze naturali e discipline umanistiche. Ci vuole una scuola che tenda a formare e a educare, senza livelli e selezioni arbitrarie, ma con l’obbligo di dare a tutti gli allievi la più solida base culturale che ognuno può raggiungere a quell’età, ritenuto che c’è un’età anagrafica che coincide solo in parte con la vera età di sviluppo. Serve un nuovo paradigma del sistema scolastico, con insegnanti che sappiano lavorare insieme e uscire dalle pareti protettive (difensive) delle proprie aule, affinché gli allievi possano usufruire delle migliori capacità di ogni maestro. E servono delle équipe di docenti che siano in grado di dar vita a una differenziazione autorevole dell’attività quotidiana della e nella scuola. Serve dunque un istituto di formazione dei docenti in grado di garantire il rispetto delle finalità istituzionali, le competenze disciplinari e le capacità pedagogiche e didattiche.

Serve – senza nostalgia per un mondo che non c’è più – che la si smetta, tutti insieme, di pensare che una struttura nata due secoli fa possa continuare a stare in piedi solo con riformette che non toccano l’essenza della scuola dell’obbligo di oggi: come s’è fatto fin qui.

P. S.: alla fine bisognerà difendersi dai famosi Fachidioten, gli idioti specializzati, evitando che si riproducano, culturalmente, come topi. Con la scuola in salsa bolognese, quella del 3+2 (riservata quindi a chi abbraccerà una formazione terziaria), il liceo è diventato un coperchio per troppe padelle. Forse dopo la scuola media ci potrebbe essere qualcosa di diverso dal liceo e dalla scuola professionale. Forse si potrebbe inventare una terza via, fuori dalla logica dei politecnici e di talune facoltà universitarie di eccezionale livello scientifico.


Gianni Ghisla è autore, tra tante cose, del bel volumetto Un dialogo immaginario ma non troppo: breve storia della formazione professionale in Ticino attraverso i suoi protagonisti, vale a dire Luigi Brentani, Francesco Bertola e Vincenzo Nembrini,  (2016, Bellinzona: Edizioni Casagrande). Dall’«Avvertenza» (p. 7): Questo libro sulla formazione professionale in Ticino ha uno statuto particolare: esso è infatti la versione ridotta di un corposo volume sulla formazione professionale in Svizzera di Emil Wettstein, Evi Schmid e Philipp Gonon tradotto e curato nell’edizione italiana da Gianni Ghisla. Ha quindi obiettivi di divulgazione e di sensibilizzazione verso un mondo scolastico sconosciuto a molti.

EMIL WETTSTEIN, EVI SCHMID, PHILIPP GONON, La formazione professionale in Svizzera Tipologie, strutture, protagonisti, Edizione italiana a cura di Gianni Ghisla, © 2016 IUFFP Lugano / www.iuffp.swiss (disponibile in formato elettronico sul sito internet dell’Istituto Universitario Federale per la Formazione Professionale e del Centro per la didattica universitaria).

Scuola e politica all’inseguimento del futuro (prossimo)

Neanche fosse chissà quale novità, l’informatica. D’accordo, se ne parla almeno dal 1984, anno quanto mai simbolico, quando due giovanotti misero sul mercato il primo Mac, un «coso» con la mela che avrebbe cambiato il mondo. Eppure scuola e politica stanno vivendo proprio di questi tempi la loro età degli eccessi ormonali nei suoi confronti. Sembrerebbe che le scuole scollegate dal www e prive di adeguate apparecchiature di alta tecnologia siano impossibilitate a perseguire le loro alte finalità educative. L’ultimo numero di Ticino Management ha dedicato un servizio al tema, declinandolo sulla formazione degli insegnanti. Ha detto Luca Botturi, docente di Tecnologie e Media in educazione al DFA della SUPSI: «Accanto a tematiche caratterizzanti del nostro Dipartimento, quali la didattica dell’italiano, della matematica e delle lingue straniere oppure agli aspetti legati alla gestione della classe, la riflessione sul rapporto tra educazione e nuove tecnologie è una delle nuove frontiere sulle quali ci stiamo impegnando».

«Constatare che la tecnologia si è fatta spazio in ogni aspetto della nostra vita – ha scritto il filologo Lorenzo Tomasin in un bel saggio del 2017 – ha indotto molti a pensare che essa dovesse averne uno anche nella formazione delle nuove generazioni. Per lungo tempo portare i bambini a scuola significava perlopiù strapparli ai campi. Ora, a chi mai sarebbe venuto in mente di portare i bambini a scuola per mostrare loro una zappa, o per insegnare loro come funziona? Nella grande maggioranza dei casi sarebbe stato certo più sensato che far trovare loro un vocabolario, un trattato di matematica e un’insulsa poesia da imparare a memoria. Ma a lungo, forse sbagliando, abbiamo pensato che in quelle pagine stessero gli ingredienti di base della buona istruzione. E che questi fossero gli strumenti migliori per trasmetterli. Operando altrimenti, sarebbe stato assai difficile fare di un contadino qualsiasi altra cosa che un contadino; di un operaio, altro che un operaio. Se molti figli e nipoti di contadini sono diventati ingegneri, medici e architetti è proprio perché a scuola hanno trovato qualcosa di diverso da una zappa, e sia pure da una zappa tecnicamente raffinatissima».

I ragazzi della scuola dell’obbligo sono nati col mouse in mano, hanno imparato a scorrere l’indice sullo schermo del telefonino prima ancora di dire «mamma». Spesso sono vittime e imputati di cyber bullismo o di altri misfatti, ma non saranno i nostri predicozzi a convincerli che ci vuol poco a cadere nella rete e a farsi male.  Tentare di forgiare l’Homo technologicus è pericoloso (avete in mente la creatura del dr. Frankenstein?), un po’ perché si vedono già in giro fin troppi «idioti specializzati»; e un altro po’ perché ciò che oggi è il massimo dell’hi-tech domani è già antiquato, sorpassato da un altro hi-tech, che avrà anch’esso la vita effimera di una farfalla. Meglio, quindi, tornare a dedicarsi con passione all’educazione di Homo sapiens, attraverso le discipline umanistiche, la logica, la matematica e le scienze naturali, in un ambiente – la Scuola – fondata sul diritto e sul rispetto, con l’idea che, insieme, si sta imparando il difficile mestiere di donne e uomini adulti. Vendere il Paese e i suoi cittadini di domani a questa economia feroce e cinica sarebbe un crimine. Eppure è proprio quel che potrebbe capitare assai in fretta, man mano che le moderne tecnologie diverranno un fine, e non un mezzo per prefiggersi traguardi più nobili.


La citazione di Lorenzo Tomasin, parziale, è tratta da: LORENZO TOMASIN, L’impronta digitale – Cultura umanistica e tecnologia, 2017, Carocci editore, pp. 8-9

La citazione di Luca Botturi è tratta da: SUSANNA CATTANEO, «Digitalizzazione: scuola all’appello», in Ticino Management, Mensile svizzero di finanza, economia e cultura, Anno XXX, N° 10, Ottobre 2018, p. 78

«La nostra è l’età della ciarlataneria e dell’inganno»

Il testo che segue non è mio. L’ho ripreso da un volumetto che mi aveva regalato uno dei miei Maestri.  Qui, di mio, ci sono solo qualche segno di punteggiatura in più e alcuni termini modificati, per rendere la lettura più scorrevole; e i titoletti, inesistenti nell’originale.

Ho poi messo in rilievo qualche passaggio.

L’attualità di questo articolo è impressionante, soprattutto pensando al contesto www dei tempi nostri e alle riforme scolastiche di questi anni, coi suoi cantieri aperti, i progetti che potrebbero diventare operativi sul breve termine, e agli andazzi politici dell’Occidente globalizzato.

In calce, naturalmente, si trovano tutti i dettagli, compreso il nome dell’autore, quello del Maestro che curò il volume e me lo offrì, la fonte bibliografica e l’anno di pubblicazione.

Mi permetto un consiglio: come in un bel giallo, si ammazza la lettura se si va subito all’ultima pagina per vedere chi è il colpevole, che in questo caso è l’anno di pubblicazione.


Matthew Arnold cita, in qualche parte con consenso, l’affermazione di uno scrittore francese, secondo cui il vantaggio principale dell’educazione sta nella sicurezza che essa dà di non essere ingannati. Un’affermazione più positiva è quella che il beneficio dell’educazione consiste nella capacità che essa conferisce di sceverare, di fare delle distinzioni che penetrano al di sotto della superficie. Può anche darsi che uno non riesca ad afferrare la realtà sotto l’apparenza; ma almeno chi è educato non scambia la seconda con la prima, e sa che c’è una differenza fra suono e significato, fra enfasi e distinzione, fra appariscenza e importanza.

I massmedia e la loro diffusione a buon mercato rendono possibile il controllo delle opinioni

Giudicata con questo criterio l’educazione non è soltanto arretrata, ma è in processo di involuzione. La nostra è l’età della ciarlataneria e dell’inganno; di questi c’è oggi maggior quantità, circolazione più rapida e incessante, e assorbimento più rapido e indiscriminato, che mai in passato. Naturalmente le ragioni dell’attuale trionfo della ciarlataneria nelle cose umane sono piuttosto esterne, non dovute a un’intrinseca corruzione dell’intelletto e del carattere. Fino all’ultima generazione circa, la maggior parte delle persone s’interessavano soprattutto degli affari locali, delle cose e della gente con cui erano a contatto immediato. I loro convincimenti e i loro pensieri si riferivano per lo più a questioni di cui avevano qualche esperienza diretta. Il loro raggio poteva essere ristretto, ma nel suo ambito esse erano avvedute e giudiziose. È certo che, riguardo alle cose più lontane da loro, esse erano altrettanto credule quanto le persone di oggi. Ma queste cose più lontane non rientravano nella loro sfera d’azione. Importava poco cosa ne pensassero, poiché esse, per loro, non erano che materiale per storielle.

La ferrovia, il telegrafo, il telefono e la stampa a basso costo hanno trasformato tutto questo. I trasporti rapidi e le rapide comunicazioni hanno costretto gli uomini a vivere come membri di una società estesa e in gran parte invisibile. La località chiusa in sé è stata invasa e in gran parte distrutta. Gli uomini devono agire in vista di condizioni economiche e politiche lontane da loro e devono avere su queste delle conoscenze su cui fondare le proprie azioni. E poiché le loro conoscenze influenzano la loro condotta, le credenze sono ora qualcosa di più che fantasie e passatempi, ed è cosa di grande rilievo che esse siano giuste. Al tempo stesso alcune persone si sono assunte l’obiettivo di influenzare le opinioni delle masse, poiché è su queste, e non su annose consuetudini, che si fonda la possibilità di dominarle. Se si ha il controllo delle opinioni, si ha in mano, almeno per il momento, la direzione dell’attività sociale. La stampa e la sua diffusione a buon mercato rendono possibile di realizzare questo controllo delle opinioni. Con la nuova curiosità e il nuovo bisogno di conoscenza di cose lontane, da un lato, e con l’interesse a controllarne il soddisfacimento, dall’altro, si annuncia l’era del vaniloquio, dell’inganno sistematico, dei sentimenti e delle credenze alla cieca.

Come si crea una fake new

Carlyle non era un amico della democrazia. Ma un giorno, in un momento di lucidità, egli dichiarò che una volta inventata la stampa la democrazia era inevitabile. La stampa a basso costo rese necessario di chiamare il pubblico a collaborare agli affari del governo e aumentò la popolazione e l’area geografica inclusa in una determinata società politica. Essa trasformò in una realtà la teoria del governo come fondato sul consenso dei governanti. Ma tale trasformazione non dette garanzia della validità della realtà a cui veniva dato il consenso; non garantì, come Walter Lippmann mise in rilievo con tanta giustezza, che la politica a cui si dava il consenso fosse nel fatto quello che era nella forma, che cioè corrispondesse alla realtà della situazione.

La rivoluzione industriale rese necessarie le forme della consultazione della “voce del popolo”. Ma la stampa e la sua diffusione resero anche più facile indurre il popolo a esprimersi forte su questioni irreali, e nascondere i fatti e stornare l’attenzione con la grandezza stessa dello strepito. È ozioso perciò sia attaccare che esaltare la democrazia in generale. Come forma attuale di governo essa non scaturisce da desiderio o opinione personali; essa nacque in virtù di forze esterne, che mutarono le condizioni dei contatti e dei rapporti fra gli uomini. Quel che occorre considerare e sottoporre a critica è la qualità del governo popolare, non il fatto della sua esistenza. La sua qualità è legata inseparabilmente alla qualità delle idee e delle notizie, che sono messe in circolazione e alle quali si presta fede.

Senza dubbio il sistema di propaganda promosso dalla guerra ha avuto molta responsabilità nell’imporci il riconoscimento della funzione dominante, che ha nella direzione sociale il materiale messo in circolazione dalla stampa. La massa e l’organizzazione accurata della propaganda attestano due fatti preminenti: la necessità nuova, da parte dei governi, di catturare l’interesse e i sentimenti del popolo, e la possibilità di suscitare e dirigere un tale interesse mediante una somministrazione di “notizie” sottoposta a vaglio accurato. Ma la voga della propaganda ha più importanza nel richiamare l’attenzione sul fatto fondamentale, che nel determinarlo. Di fronte a una notizia messa in circolazione, che rappresenta un fatto deliberatamente inventato o coscientemente colorito, ve ne sono una dozzina che rappresentano il pregiudizio e l’ignoranza dovuti a pigrizia, a inerzia di abitudini e a preesistenti abiti mentali causati da cattiva educazione.

L’informazione atterra sempre sull’educazione anteriore e più profonda

La psicologia umana è tale che noi attribuiamo a un disegno consapevole e a un proposito deliberato la maggior parte delle cattive conseguenze sulle quali improvvisamente viene richiamata l’attenzione. Questa è una delle ragioni principali del frequente insuccesso dei riformatori. Le cause reali dei mali contro i quali essi combattono sono per solito molto più profonde delle intenzioni consapevoli e dei piani volontari degli individui contro i quali essi rivolgono i loro sforzi. Perciò essi trattano coi sintomi piuttosto che con le forze. Quelli che Lippmann ha chiamato così bene “stereotipi” sono più responsabili della confusione e dell’errore della mentalità del pubblico, che delle notizie deliberatamente inventate e deformate. Coloro i quali sono più intenti a introdurre nel movimento e nella circolazione sociale il materiale che acceca e induce in errore il pubblico, credono essi stessi nella maggior parte della sostanza di ciò che viene propagato; essi condividono la confusione intellettuale e l’ignoranza che propagano. Agendo nella persuasione che il fine giustifica i mezzi, è facile per essi aggiungere il sapore, l’enfasi, l’esagerazione e i suggerimenti che essi stessi ritengono fondamentalmente veri.

In breve, al di qua dell’educazione fornita dalla stampa e dalle notizie c’è quell’educazione anteriore e più profonda che influenza del pari coloro che propalano le notizie e quelli che le accolgono. Siamo così riportati alla nostra affermazione prima. La nostra istruzione scolastica non educa, se per educazione si intende un abito vigile di indagine e di convinzione, penetrato di discernimento, la capacità di guardare al di sotto della fluttuante superficie per scoprire le condizioni che determinano il contorno della superficie stessa e le forze che danno origine alle sue onde e alle sue correnti. Noi inganniamo noi stessi e gli altri, perché non abbiamo quell’interna difesa contro sensazioni, eccitamenti, credulità e opinioni convenzionalmente stereotipate che si trova soltanto in una mente addestrata.

La scuola fa poco per creare un’intelligenza che sa distinguere…

Questo fatto determina la critica fondamentale che va rivolta alla scuola attuale, a quel che passa per un sistema educativo. Essa non soltanto fa poco per creare in una intelligenza che sa distinguere una garanzia contro l’abbandono all’invasione della ciarlataneria, specialmente nella sua forma più pericolosa, quella sociale e politica; ma anzi fa molto per creare lo stato d’animo favorevole al suo accoglimento favorevole. Due sembrano essere le cause principali di tale incapacità. L’una è data dal persistere, nel contenuto dell’insegnamento, di un materiale tradizionale, che non ha rapporto con la situazione attuale, di una materia d’insegnamento che, benché pregevole in un periodo trascorso, è così lontana dalle perplessità e dai problemi della vita presente, che il suo padroneggiamento, anche se abbastanza adeguato, non fornisce possibilità di penetrazione intelligente, né protezione contro gli inganni a cui si espone chi fronteggia le eccezionali circostanze presenti. Dal punto di vista di questo criterio d’istruzione, una gran parte dell’attuale materiale educativo è semplicemente sfocato. Lo specialista di qualsiasi ramo tradizionale corre il rischio di cadere preda della ciarlataneria sociale, anche nelle sue forme estreme della propaganda economica e nazionalistica, allo stesso modo della persona non istruita. E invero la sua credulità è tanto più pericolosa quanto più egli è eloquente e dogmatico nell’affermazione delle sue credenze. Le nostre scuole producono persone che vanno incontro alle esigenze della vita contemporanea serrate nell’armatura dell’antichità e che si vantano della goffaggine dei loro movimenti come di prove di convinzioni frutto di lungo travaglio e vagliate dal tempo.

L’altro modo in cui la scuola favorisce un abito mentale di ingestione indiscriminata, che si presta bene all’inganno, ha un carattere positivo. Esso consiste nell’evitare sistematicamente e quasi deliberatamente lo spirito critico in rapporto alla storia, alla politica e all’economia. Si crede implicitamente che tale esclusione rappresenti la sola maniera di produrre dei buoni cittadini. Quanto più la storia e le istituzioni della propria nazione vengono idealizzate senza discriminazione, tanto più si ritiene probabile che il prodotto della scuola sia un patriota fedele e un buon cittadino, fornito di una solida preparazione. Se il giovane medio potesse essere premunito contro tutte le idee e le notizie sulle questioni sociali, eccettuate quelle ottenute a scuola, esso si affaccerebbe alla responsabilità della partecipazione sociale ignorando completamente che esistano dei problemi sociali, dei mali politici e delle deficienze industriali. Esso andrebbe avanti con l’assoluta fiducia che le strade sono aperte a tutti e che la sola causa degli insuccessi negli affari, nella vita familiare e in quella civile risiede in qualche personale deficienza di carattere. La scuola, anche più del pulpito, è immunizzata contro un franco riconoscimento delle malattie sociali, ciò che è un bel dire. E come il pulpito, essa trova un compenso alla sua ostilità a discutere le difficoltà sociali indugiando sentimentalmente sui vizi individuali.

L’indifferenza al cinismo sempre più diffuso

La conseguenza di tutto questo è che gli studenti vengono immessi nella vita effettiva in una condizione di innocenza acquisita e artificiale. La percezione che essi possono avere della realtà delle lotte e dei problemi sociali l’hanno conseguita per caso, per via facendo, e senza la salvaguardia che deriva da una conoscenza intelligente dei fatti e della discussione condotta imparzialmente. Non fa perciò meraviglia se essi sono maturi per essere ingannati e se il loro atteggiamento è tale che perpetua semplicemente la confusione, l’ignoranza, il pregiudizio, e la credulità esistenti. La reazione contro questa impossibile idealizzazione ingenua delle istituzioni, nel loro aspetto presente, produce indifferenza e cinismo. È stupefacente come coloro che per professione foggiano in senso conservatore l’opinione pubblica si curano così poco del cinismo che attualmente è tanto diffuso tra i più. Essi sono più creduli di quelli che all’apparenza sembra che essi ingannino. Questo atteggiamento di indifferenza e di opposizione è ora passivo e disorganizzato. Ma esso esiste come una conseguenza diretta della delusione causata dal contrasto fra le cose come stanno di fatto e le cose come sono state insegnate loro a scuola. Un avvenimento più o meno accidentale cristallizzerà un giorno, in una forma attiva, l’indifferenza e il malcontento sparsi qua e là; e tutti i baluardi della reazione sociale accuratamente eretti verranno spazzati via. Ma, sfortunatamente, c’è poca probabilità che la reazione contro la reazione sarà più intelligente dello stato precedente delle cose. Anch’essa sarà cieca, credula, fatalista e confusa.

Il compito più nobile della politica: la direzione intelligente delle faccende sociali

Sembra pressoché disperato nominare il rimedio, perché esso consiste solo in una maggiore fiducia dell’intelligenza e nel metodo scientifico. Ma questa parola – “Solo” – indica qualcosa che è infinitamente difficile realizzare. Cosa avverrà se gli insegnanti diverranno abbastanza coraggiosi da insistere che educare significa creare menti che sanno distinguere, che preferiscono non essere ingannate da sé stesse o da altri? È chiaro che essi dovranno coltivare l’abito della sospensione del giudizio, dello scetticismo, del desiderio delle prove; del ricorso all’osservazione piuttosto che al sentimento; della discussione piuttosto che del preconcetto; dell’indagine piuttosto che delle idealizzazioni convenzionali. Quando questo accadrà, le scuole saranno gli avamposti pericolosi di una civiltà umana, ma cominceranno anche a essere luoghi interessanti al massimo. Poiché sarà allora accaduto che l’educazione e la politica si saranno identificate, giacché la politica dovrà essere di fatto quel che ora pretende di essere, la direzione intelligente delle faccende sociali.


Rimando bibliografico

Questo articolo di John Dewey (1859-1952) è tratto dal volume John Dewey e la pedagogia dell’interesse, a cura di Antonio Spadafora, 1979, Bellinzona: Edizioni Casagrande, Collana Paideia – Pubblicazioni della Scuola magistrale di Locarno, p. 128 e sgg.

La copia del testo originale può essere scaricata qui.

Il testo fa parte di una selezione di scritti deweyani che completa il volume. In entrata il curatore aggiunge una precisazione relativa a questi scritti. «In particolare – annota Spadafora – la traduzione (…) di “L’educazione come politica” (“The New Republic”, 4 ottobre 1922) è, per gentile concessione dell’Editore, quella […] di JOHN DEWEY, L’educazione di oggi, trad. it. di L. Borghi, La Nuova Italia, 1950, p. 197 e sgg.»

Una scuola che sappia nutrire la libertà di pensiero e di parola

Un paio di mesi fa la giornalista Milena Gabanelli ha dedicato «Dataroom», la sua rubrica sul Corriere della Sera, a cosa conviene studiare per il lavoro del futuro. «Il 65% dei bambini che iniziano la scuola oggi, quando avranno finito faranno lavori che oggi ancora non esistono. E allora su che cosa conviene puntare per essere più sicuri di avere un lavoro domani?». La fonte è un rapporto del 2016 del WEF, «Il futuro dei mestieri: strategia per impiego, abilità e forza-lavoro nella quarta rivoluzione industriale». La giornalista cita alcune professioni, legate alle nuove tecnologie, che avranno un considerevole sviluppo. E osserva: «La formazione di queste figure nelle università italiane è iniziata solo dal 2016».

Appunto, questo è un problema della formazione terziaria e concerne così solo una porzione di giovani, mentre la scuola è obbligatoria per ognuno e per undici anni. Essa custodisce gelosamente la pretesa di saper preparare i suoi cuccioli alla vita adulta e al miglior inserimento professionale. Tant’è che, senza dichiararlo apertamente, i programmi di studio sono costruiti pensando più in particolare a chi, dopo i quindici anni, potrà continuare gli studi. Intendiamoci, fino a un po’ di anni fa questa scelta funzionava ed era per lo più condivisa dalla gran parte dei cittadini. Dopo la scuola elementare c’era il ginnasio di cinque anni, per chi era ritenuto più tagliato per lo studio sui libri e l’attività intellettuale; per gli altri c’era la scuola maggiore, di tre anni, trascorsi i quali, prima dell’apprendistato, c’erano le scuole di avviamento professionale e quelle di economia domestica. L’inserimento nel mondo del lavoro – o, per molte ragazze, il matrimonio, la maternità e i «lavori donneschi» – era praticamente garantito sin dagli anni ’50, e più si andava lontano con la formazione, più «da grandi» si sarebbero svolte professioni ben retribuite e socialmente riconosciute.

Il meccanismo è saltato ormai da un pezzo. Diciamo che le prime avvisaglie sono state avvertite quarant’anni fa, con le crisi energetiche degli anni ’70. Poi le nuove tecnologie, la caduta del muro di Berlino e la successiva, e per certi versi logica, globalizzazione dei mercati (e non solo) hanno fatto il resto. Ne consegue che per la formazione dei cittadini di domani la scuola dell’obbligo deve avere l’umiltà di ammettere che non ha doti divinatorie. Pretendere di sapere oggi quali competenze saranno utili domani per un bimbo nato in questi anni denota almeno ingenuità, se non un pizzico di arroganza. Edgar Morin, nel suo famoso «La testa ben fatta», afferma che educare non significa dare all’allievo una quantità sempre maggiore di conoscenze. Al contrario l’educazione deve «indicare che imparare a vivere richiede non solo conoscenze, ma la trasformazione della conoscenza in sapienza», cioè in scienza e saggezza, «e l’incorporazione di questa sapienza per la propria vita». Converrebbe insomma che la scuola dell’obbligo scegliesse di fare quel che ha fatto bene per tanti anni: educare cittadini, cominciando a gettare basi solide, in un ambiente sereno e alla larga da competizioni fasulle. Ha scritto la filosofa americana Martha Nussbaum: «Non si tratta di difendere una presunta superiorità della cultura classica su quella scientifica, bensì di mantenere l’accesso a quella conoscenza che nutre la libertà di pensiero e di parola, l’autonomia del giudizio, la forza dell’immaginazione».


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

EDGAR MORIN, La testa ben fatta – Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, 2000, Milano: Raffaello Cortina Editore, pag. 45

MARTHA C. NUSSBAUM, Non per profitto – Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, 2014, Bologna: Il Mulino | La citazione che chiude l’articolo è in realtà una sintesi, presente nell’ultima di copertina.