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Il sogno pedagogico di un uomo di scienza

Capita, ogni tanto, che qualche amico o conoscente mi segnali articoli, libri, situazioni o documenti tratti dal web. Nel grande magma dell’informazione oggi si trova proprio di tutto.

Oggi pomeriggio mi è arrivata la segnalazione del video di una conferenza. Il titolo mi ha incuriosito, visto che il tema – o, almeno, la parola chiave, «competenze» – è famosa un po’ in tutta la Svizzera e genera non poche inquietudini: «Per una scuola delle competenze, non dei voti».

Si tratta di una conferenza di una decina di minuti, tenuta in un teatro da tale Salman Khan: mai sentito nominare. Come tutti ho dato un’occhiata alla rete e, con quel nome, ho trovato un attore indiano, una stella di Bollywood. Mica possibile.

Allora ho affinato la ricerca e ho trovato quel che cercavo: Salman Amin Khan è un educatore e imprenditore bengalese, naturalizzato statunitense. Diciamo che la voce Wikipedia in inglese è un po’ meno fuorviante rispetto alla versione italiana. Per tagliar corto, Salman Khan ha alle spalle tre titoli conseguiti al prestigioso MIT, Massachusetts Institute of Technology: due bachelor in scienze e in matematica, poi un master in ingegneria elettronica e informatica, a cui ha aggiunto un altro master a Harvard.

Ecco la presentazione del video: «Costruireste mai una casa su fondamenta lasciate a metà? Naturalmente no! Perché, allora, avanziamo a marce forzate lungo i programmi scolastici quando gli studenti non hanno ancora assimilato i concetti di base?»

Cosa racconta durante la breve conferenza quest’uomo di scienza e imprenditore dell’educazione, fondatore della Khan Academy? Prendetevi dieci minuti e guardatela, perché ne vale la pena: è chiara e accessibile, a tratti divertente.

Per un pedagogista «classico» come potrei essere io, la vera notizia non è quel che racconta, che si rifà sostanzialmente a tanti anni di storia della pedagogia: da Rousseau e Pestalozzi, per giungere a Célestin Freinet e Don Lorenzo Milani, senza scordare quel grande movimento utopistico e pacifista che è stata la Ligue Internationale pour l’Éducation Nouvelle, l’unica lega che mi sento di applaudire, quella fondata a Calais, nel 1921, da personaggi quali John Dewey, Jean Piaget, Maria Montessori, Beatrice Ensor, Adolphe Ferrière e Elisabeth Rotten.

Per contro la notizia da prima pagina è che sul pulpito c’è uno che normalmente, nelle nostre scuole medie, medio-superiori e terziarie, non muoverebbe un dito per proibire le monoclassi e le certificazioni annuali, per sopprimere i dannosi, costosi e dispendiosi livelli della scuola media e i tassi spropositati di bocciatura al liceo; perché invece  costoro stanno vigili e sornioni all’ombra delle barricate, a difendere e rafforzare tutti i bracci armati della scuola pubblica.

E invece cosa dice il nostro professore bengalese?

Per esempio che non si può continuare un percorso di apprendimento se vi sono anche delle seppur minime lacune.

«In un’arte marziale – dice – ci si esercita sulle abilità di cintura bianca fino ad assimilarle bene, e solo a quel punto si avanza e si diventa una cintura gialle. Anche gli strumenti musicali si imparano così: continuate a esercitarvi sul brano più semplice, e solo quando l’avete imparato bene passate a uno più avanzato».

Di transenna: è un principio già applicato da Freinet sessanta e più anni fa col suo sistema dei brevetti.

Aggiunge: «Tradizionalmente a scuola raggruppiamo tutti gli studenti di solito per età. Poi, durante la scuola media, li dividiamo per età e voti, e li spingiamo come pecore tutti allo stesso ritmo. Così di solito succede che, diciamo in una lezione di pre-algebra alle medie, dove si insegnano gli esponenti, l’insegnante fa una lezione sugli esponenti. Poi andiamo a casa e facciamo un po’ di compiti. Il mattino dopo correggiamo i compiti. Poi un’altra lezione, compiti, lezione, compiti. Questo continua per circa due o tre settimane, e infine c’è un test. In quella verifica, magari io prendo un 75%, tu forse il 90% e lui il 95%. E anche se il test ha rivelato alcune nostre lacune – io non avevo un quarto del programma, e c’era un 5% che anche lo studente migliore non sapeva – l’intera classe passerà all’argomento successivo, probabilmente più avanzato, che prevede cioè la conoscenza delle lacune. Potrebbero essere i logaritmi o gli esponenti negativi. Il processo continua e subito emerge l’assurdità della situazione».

Chi mi ha segnalato questo filmato ha chiosato: «Sant’Iddio, quanto vero è ciò che afferma e propugna questo docente indiano: tutti possono farcela a capire e ad appropriarsi della conoscenza e, quindi, della cultura». Ma, sostiene lui, dobbiamo cambiare a fondo il nostro modo di insegnare!

Ma toh!?

Io aggiungerei: la scuola dello Stato – dai politici agli insegnanti, dai funzionari ai direttori, dagli studenti ai genitori – deve smetterla di essere indifferente alle differenze, deve rispettare la storia e il profilo culturale e cognitivo di ognuno, deve continuare a garantire le pari opportunità in entrata, ma poi deve battersi affinché vi sia concretamente l’opportunità di raggiungere risultati elevati per ognuno all’uscita dalla scuola dell’obbligo.

Per finire, ecco il sogno e l’auspicio del professor Khan, l’attualizzazione di aspirazioni pedagogiche centenarie e mai realizzate, quelle di una pedagogia che dovrebbe far rima con democrazia e benessere e, stavolta sì!, con delle pari opportunità che non restino fermi ai blocchi di partenza.

Non sarebbe solo ‘una gran bella cosa’. Penso che sia un imperativo sociale. Stiamo uscendo da quella che chiamereste l’era industriale e stiamo entrando nella rivoluzione dell’informazione. È chiaro che sta succedendo qualcosa.

La società industriale era piramidale. Alla base della piramide serviva lavoro umano. In mezzo alla piramide c’era l’elaborazione dell’informazione, ossia una classe di burocrati, e in cima alla piramide c’erano i proprietari del capitale, vale a dire gli imprenditori e la classe intellettuale, creativa.

Ma sappiamo cosa sta già succedendo, entrando nella rivoluzione informatica. Il fondo di questa piramide, l’automazione, sta decollando. È l’elaborazione dell’informazione, è la specialità del computer. Come società dobbiamo chiederci: tutta questa produttività sta avvenendo grazie alla tecnologia, ma chi vi partecipa? Sarà solo la cima della piramide? In tal caso, cosa faranno gli altri? Che ruolo avranno?

Oppure facciamo qualcosa di più ambizioso? Cerchiamo cioè di invertire la piramide, con una grande classe creativa, dove quasi tutti possono partecipare come imprenditori, artisti, ricercatori.

Non penso che sia utopistico. Credo che in realtà sia tutto basato sull’idea che se lasciamo attingere al loro potenziale padroneggiando i concetti, riuscendo a gestire in autonomia la propria formazione, le persone possono farcela. Pensateci: da cittadini del mondo è veramente esaltante. Pensate al genere di equità che potremmo avere, e a che passo la civiltà potrebbe progredire.

Quindi sono molto ottimista. Penso che sarà un periodo molto esaltante in cui vivere.

Anch’io, a dirla tutta. Con dei lunghi momenti di grande sconforto.

Gli auguri di rito e il rito degli auguri

A volte ho la sensazione che fare gli auguri nei momenti più tradizionali – per il compleanno, a Natale o per il nuovo anno – sia uno di quegli automatismi un po’ ipocriti, come chiedere «Come va?» a uno che incontri per caso (e glielo chiedi sapendo che, dopo pochi minuti, ti sarai scordato dell’eventuale risposta, a meno che l’Incontrato Per Caso non ti abbia rivelato, spesso per ragioni freudianamente misteriose, d’essere preda di sfighe mediche o socio-affettive poco o punto felici e invidiabili).

Ho un amico che fino a poco tempo fa, se gli mandavo qualche augurio di rito, tipo «Buon Natale» o un più laico «Buon anno», mi cazziava neanche l’avessi insultato pesantemente. Eppure l’altro giorno ho ricevuto un suo messaggio, che mi ha sbalordito: Tanti auguri, mi ha scritto a poche ore da Capodanno.

D’accordo, non ha sprecato la sua fantasia, abitualmente traboccante.

Ma ha fatto bene, al di là degli editti di quando i sessant’anni gli sembravano lontani: Tanti auguri, tutto lì. Detto da lui per me ha significato molto. Perché ha scritto a me, non ai soliti undisclosed-recipients della posta elettronica.

Allora, in questi primi scorci del 2017, voglio rivolgere un augurio pedagogico ai miei lettori, quelli fedeli e quelli occasionali, partendo da Snoopy, l’eroico e imperturbabile peanut di Charles Schulz: «Educare non è riempire un secchio, ma accendere un fuoco».

Ha scritto Paola Mastrocola: «Noi, quando uscivamo dalla lezione di un maestro, camminavamo per un bel po’ a un metro da terra. Diciamo che quel metro da terra fa la differenza. […] Diciamo che forse questo contraddistingue un maestro: ti contagia. […] Un insegnante che non insegna procura un danno davvero incalcolabile al singolo allievo, e quindi anche all’intera società: condanna all’ignoranza, […] quindi al vagolamento professionale infinito». [La scuola raccontata al mio cane, 2004, Guanda editore. Vedi anche la mia recensione sul Corriere del Ticino: Quella scuola che sfrittella il pensiero].

In un suo romanzo successivo [Non so niente di te, Torino, Einaudi, 2013], c’è un passaggio esemplare. Fil, il protagonista, uno studente modello iscritto a economia, a un certo punto comincia ad andare sempre meno a lezione, anche se «Lo sa che suo padre soffrirebbe, che se ne farebbe una colpa». Ma «andando sempre meno a lezione, trova il tempo. Il tempo di leggere moltissimo, per esempio. La biblioteca diventa la sua nuova tana. Si mette lì e tutto il resto della vita gli sparisce. Via gli esami, i compagni, la crisi dei mercati, i genitori… Restano solo i pensieri, le idee. Cose aeree, leggere. Astrazioni. Altri mondi. Dov’è escluso che ti trovino.

Fil ci va quasi tutti i giorni, e ci resta fino a tardi. Fa una cosa sola: si prende un libro e se lo divora, piano, un pezzetto al giorno. Ci va anche la domenica, così gli riesce di azzerare un po’ quella malinconia, quella morsa di vuoto che ti prende ogni domenica, cascasse il mondo, qualunque cosa fai, tutte le domeniche della tua vita. È lì che scopre i classici. Il secondo anno a Londra, in biblioteca. Affonda. Affonda nella lettura. Adam Smith, Schumpeter, Von Hayek, Ricardo, Milton Friedman, Keynes… E Robert Solow, soprattutto lui, un classico vivente…

Preso da quelle letture intense, assolute, comincia a non studiare più. A non studiare più per gli esami, cioè secondo quella particolare forma di studio non libero, finalizzato al superamento di una prova: un’attività competitiva, più che altro, ben poco rilassante, solo utile (ma utile a che cosa, poi?)».

Auguri, appunto.

Per capire e (ri)conoscere la barbarie

Agosto 1942: arrivo a Treblinka
Agosto 1942: arrivo a Treblinka

Faccio fatica a capire se la scuola di oggi sia (ancora?) capace di uscire dalle sue quattro mura per occuparsi dei temi più sensibili che interrogano l’Occidente e la comunità in cui viviamo, affinché la sua opera di mediazione culturale e pedagogica continui a difendere e marcare il suo primato politico, quasi la sua ragion d’essere: scuola pubblica e obbligatoria, scuola dello Stato per educare cittadini informati, interessati alla res pubblica, capaci di orientarsi in una società difficile e variegata, in grado, nel contempo, di non lasciarsi deprimere e di non gettare la spugna, accogliendo col sorriso il canto facile delle sirene ammaliatrici, le moderne vestali che invitano al Panem et circenses, che proprio di questi tempi sembra godere di una nuova età dell’oro.

A volte si ha l’impressione che, oltre gli enunciati di principio e i piani di studio così ben dettagliati, spiegati e strutturati, nelle aule scolastiche si fatichi a tenere la barra al centro, perdendosi in innumerevoli gabbie didattiche che se ne vanno per conto loro, inseguendo risultati e rendimenti che servono proficuamente al lavoro di selezione economica e sociale, ma si allontanano in maniera surrettizia dalle vere finalità dell’essere a scuola, quella pubblica (e, per qualche anno, pure obbligatoria).

Ne ho parlato più volte, negli ultimi mesi. Oggi voglio segnalare due libri tanto vicini ai miei amori pedagogici e alle inquietudini che mi accompagnano.

eduquer-apres-les-attentatsIl primo è fresco di stampa, in libreria dall’estate scorsa. È di Philippe Meirieu, un autore che si incontrata spesso nel mio blog. Potrebbe sembrare il solito instant book, messo lì per accalappiare un po’ di gonzi. Ma non è così. Dopo «L’École ou la guerre civile», scritto in tempi insospettabili (1997) col giornalista Marc Guiraud, ecco ora «Éduquer après les attentats».

Leggo nella scheda di presentazione: I terribili attentati del 2015 e del 2016 hanno scosso profondamente il nostro paese – anche il mio, a dirla sinceramente. Gli insegnanti sono ampiamente sguarniti a questo livello, si pongono un insieme di “domande vitali”: cosa fare, giorno dopo giorno, per permettere a tutti i nostri ragazzi di scoprire l’importanza del rispetto dell’altro, della fraternità e della costruzione del bene comune? Quali ideali offrire a chi, non potendo accedere a un impiego e al consumo, vede nell’integralismo religioso l’unica maniera di darsi un’identità?

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Attraverso venti capitoli molto chiari, fondati su situazioni reali, Philippe Meirieu si sforza di rispondere a queste domande: senza imposture, né peli sulla lingua. Il volume – conclude la presentazione – è rivolto a insegnanti e educatori, e a tutti coloro che vogliono una democrazia in cui ognuno abbia il suo posto… e dove non esistano più tentazioni stimolate dalla violenza più barbara.

Le quasi 250 pagine del libro, appassionanti e appassionate, mantengono le premesse: fossi stato ancora un insegnante ne sarei rimasto stregato.

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E vengo all’altro volume, pubblicato nel 2012. Stavolta si tratta di un libro illustrato per ragazzi, tradotto e pubblicato in italiano dall’editore Junior nel 2013. Il testo è nuovamente di Philippe Meirieu, le illustrazioni sono di Pef. Si intitola «Korczak, Perché vivano i bambini» e racconta la storia di Janusz Korczak, pedagogo, scrittore e medico polacco, nato a Varsavia nel 1878, morto nel campo di sterminio di Treblinka il 6 agosto 1942. Di Korczak avevo già scritto nel settantesimo della sua morte (A settant’anni dalla morte di Korczak a Treblinka).

È un libro bello da guardare e intenso da leggere, con una struttura originale. Nella prima parte c’è il racconto della sua avventura umana e intellettuale, dalla fine dell’800, quando si chiama ancora Henryk Goldszmit e, nella Polonia occupata dall’armata russa, diventa insegnante dei bambini che vivono nei quartieri più discosti e disagiati; fino al drammatico epilogo in uno dei più importanti centri di sterminio del regime nazista, dove seguì i centonovantadue bambini, ospiti della “Casa degli orfani”, da lui fondata nel ghetto ebraico di Varsavia, e i dieci adulti che lavoravano con lui.

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Accanto al racconto, scritto con linguaggio chiaro e accessibile, ma non banale né scioccamente moralista, scorrono le immagini di Pef e alcune riflessioni di Janusz Korczak. Le ultime pagine del libro – introdotte dal titolo Korczak, l’amico dei bambini – propongono alcuni dati essenziali della sua vicenda intellettuale e umana: le date della sua vita, il suo impegno per affermare i diritti del bambino, l’antisemitismo e la Shoah, alcuni significativi estratti dalla sua opera Re Matteuccio I, il Re bambino (Król Maciuś Pierwszy, 1922), assieme ad alcune immagini documentarie.

È un libro avvincente, che offre tanti spunti anche sui temi affrontati in «Éduquer après les attentats», un libro per ogni persona che si occupa di educazione.

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PHILIPPE MEIRIEU, Éduquer après les attentats, 2016: Paris, ESF éditeur

PHILIPPE MEIRIEU et PEF, Korczak, pour que vivent les enfants, 2012: Rue du Monde éditeur; traduzione italiana: Korczak. Perché vivano i bambini, 2013: Bergamo, edizioni Junior (ISBN 978-88-8434-526-4, 56 pagine)

L’immagine che apre questo articolo e le altre citazioni illustrate sono tratte da Korczak, pour que vivent les enfants.

La scuola nel libero mercato: riecco gli istituti privati

Toh, chi si rivede!? Sergio Morisoli, con Paolo Pamini, ha presentato un’iniziativa parlamentare intitolata «La scuola che vogliamo: realista». Scopo dichiarato: riformare l’attuale Legge della scuola. In un riassunto per chi è di fretta si elencano ventotto principi fondatori di una scuola di destra: se ne sentiva la mancanza. Da dritta a manca è tutto un tratteggiare scuole che verranno. Manuele Bertoli, socialista e direttore del dipartimento dell’educazione, ha già detto la sua, sollecitato dal Corriere. A domanda «Quali le misure problematiche o molto problematiche?», ha risposto con inusuale prudenza, affidando una risposta più articolata al normale percorso degli atti parlamentari.

Ma qualcosa ha detto. Ad esempio che «Il finanziamento delle scuole private, anche parziale, è senza dubbio problematico», anche «perché il popolo ha detto molto chiaramente la sua nel 2001». Oddio, sono passati tre lustri, che, di questi tempi febbrili e smemorati, è quasi un’era geologica. Avevo subito avuto l’impressione che la grande fiducia ottenuta quell’anno dalla nostra scuola fosse stata dilapidata nel breve tempo della vita effimera di una farfalla. In questa rubrica avevo pubblicato un articolo nel febbraio del 2002 – «Che ne è stato del 18 febbraio?» – in cui evocavo, tra tante persone e cose, la lettera di uno studente liceale che segnalava una riforma in corso, «che sfavorisce il settore umanistico, aumenta la selezione» e tende «a sottomettere la formazione agli interessi del mercato». Naturalmente la scuola realista sognata da questa destra non è la stessa di quella che la sinistra dice che ci sia già, almeno in parte, o vorrebbe che ci fosse, migliorata. Nei quasi trenta enunciati, che si configurano come «le maggiori novità della proposta», si leggono asserzioni non sempre fresche di pensata: una scuola pubblica anche un po’ privata; civica obbligatoria e religione a doppio binario; mantenimento della valutazione con i voti; difesa di un percorso selettivo a livelli; e via conservando.

Non mancano neanche le idee innovative, come la decentralizzazione del potere scolastico dal dipartimento agli istituiti scolastici: d’accordo, ma a condizione che resti il primato della Scuola pubblica e obbligatoria, un’istituzione al servizio dello Stato, come l’esercito o la giustizia. Delle sparate liberiste, secondo cui il mercato risolve tutto, ne abbiamo piene le tasche. Infatti la sensazione che si prova leggendo il corposo documento della destra nostrana è che si voglia realizzare un sistema scolastico che non faccia perdere tempo: è chiaro a tutti che chi nasce nella famiglia giusta avrà tante probabilità di riuscire bene a scuola e di proseguire il suo cammino verso la ricchezza e il potere, senza troppi affanni. Perché, allora, perdere soldi e tempo a causa della menata delle pari opportunità? Quel febbraio del 2001, quando il Ticino si scoprì convinto difensore dell’istituzione «Scuola», sembra lontano. Ora siamo ad HarmoS, coi suoi piani di studio, le competenze e un gran brulicare di attività convulse. Poi si riprenderà il filo della scuola che verrà, e sarà curioso capire fino a che punto il paese saprà resistere alle sirene liberiste: che non sono nuove, perché di veramente nuovo, sotto il sole della scuola, c’è poco o nulla. Altre istituzioni – l’esercito, la giustizia, addirittura le chiese – nell’ultimo mezzo secolo son cambiate di più.


P. S.: Il domenicale Il Caffè del 25 settembre aveva dedicato un ampio servizio alla proposta di Morisoli e Pamini: La scuola-azienda finisce dietro la lavagna. In quell’ambito era pure apparsa una breve intervista a me (L’intervista/2: “La formazione umanistica fa capire le trasformazioni”).

Un amico e collega mi aveva mandato un breve messaggio: «Secondo me a queste domande va dato più spazio per le risposte, per l’approfondimento, altrimenti chi ti conosce condivide perché sa cosa c’è dietro, gli altri non sono sicuro che colgano il senso». Sono naturalmente d’accordo, è il rischio delle interviste telefoniche, improvvise e incontrollabili. In questo senso l’articolo sul Corriere del Ticino di oggi può fare un po’ di chiarezza.

Tra l’altro avevo chiosato questo problema in occasione di un’altra breve intervista dello stesso settimanale: si veda il post L’inclusione non esclude di per sé la selezione, del 30 marzo scorso.

La maledizione di Don Chisciotte della Mancia

Mi diverto un sacco a organizzare proposte culturali per le scuole. Sono quasi sempre momenti molto coinvolgenti, per le belle cose che si affrontano, per le persone con le quali si lavora (ci vorrebbero quasi le virgolette, perché è un lavorare delizioso), per le emozioni che si vivono e si fanno vivere ad altri.

Giovedì scorso è andato in scena «Sulle tracce dell’ingegnoso nobiluomo don Chisciotte della Mancia», una rilettura del romanzo di Miguel de Cervantes, a quattrocento anni dalla sua morte, curata con Silvia Demartini, mia impagabile e insostituibile complice nell’ambito di «Piazzaparola».

Tanto per riassumere: «Piazzaparola» è una manifestazione letteraria nata dall’associazione «Dante Alighieri» di Lugano che, da sei anni, propone ai primi di settembre L’arte di raccontare: un classico e voci contemporanee. Quanto a me, mi occupo da quattro anni, con Silvia e con l’illustre cappello istituzionale del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI, dell’appendice locarnese della manifestazione, che si rivolge agli allievi delle classi terminali della scuola elementare e che «si limita» alla presentazione del Classico di turno.

Così nel 2013 abbiamo affrontato Giovanni Boccaccio e il «Decamerone» («Intendo di raccontare cento novelle nel pistelenzioso tempo»), nel 2014 siamo passati a Leonardo da Vinci («La cosa immaginata move il senso»), e l’anno scorso è stata la volta di Publio Ovidio Nasone («Metamorfosi – Storie sull’origine del mondo secondo Publio Ovidio Nasone»). Riguardo a quell’edizione rammento, in questo sito, «Perque omnia sæcula vivam!», «A cosa potrà mai servire proporre Ovidio a ragazzini di dieci anni?» e «Ovidio, la censura e la prudenza di Einstein».

Oliviero Giovannoni
Oliviero Giovannoni

Non fraintendiamo: non tutto è filato liscio. Dopo un’estate stupenda che si stava prolungando e che sembrava volesse durare all’infinito (La pagaremm püsee in là), una settimana prima della nostra scadenza Meteo Svizzera ha cominciato a insinuare che giovedì, proprio il nostro giovedì, sarebbe piovuto. Incredibile. Ancora il giorno prima splendevano tre o quattro soli e le temperature invitavano ai bagni e alle spiagge. Noi avevamo pensato di far rivivere Don Chisciotte in alcune evocative piazze locarnesi – il chiostro dell’ex convento dei frati, oggi scuola magistrale; la corte interna del castello visconteo; il mercato di Piazza Grande; il patio della biblioteca cantonale – e invece ci toccava inventare all’ultimo minuto, e immersi nell’incredulità, una nuova versione al coperto, dentro il Teatro di Locarno.

Un amico di Meteo Svizzera, il sabato precedente, 10 settembre!, mi ha scritto che effettivamente avevo scelto male il giorno in cui organizzare la manifestazione e che sicuramente Don Chisciotte avrebbe avuto una qualche colorita espressione in castigliano stretto per definire la fortuna in un caso simile.

Sara Giluvi è Mari, la cameriera dell'investitura
Sara Giluvi è Mari, la cameriera della locanda in cui Don Chisciotte diventò Cavaliere con tutti i crismi e le formule specifiche.

Detto ciò, quel piovoso giovedì 15 mi e ci ha lasciato alcune sensazioni incredibili e incancellabili, malgrado le ansie della vigilia, quando siamo stati costretti, ancora scettici, a inventarci una nuova scaletta, lontana dalle piazze.

Il Teatro di Locarno, stipato in ogni ordine di posti – c’erano 25 classi, provenienti da più parti del cantone, quasi 520 persone tra allievi e insegnanti – ha pulsato per l’intera durata dello spettacolo: un pubblico preparato e attento, capace della massima concentrazione nei momenti difficili, dell’applauso quando ci voleva (con dei momenti da stadio!), del giusto pathos nei passaggi più emozionanti e, diciamolo, intellettuali.

Cristina Zamboni, Antonia Chisciana, nipote di Don Chisciotte, e Fabio Doriali, Sancho Panza
Cristina Zamboni è Antonia Chisciana, nipote di Don Chisciotte, e Fabio Doriali è Sancho Panza

Tutto ciò, tutto questo successo, è probabilmente dovuto a una lunga serie di scelte precise e di circostanze per nulla casuali. Metterei al primo posto il grande rispetto che tutti i partecipanti a questa proposta, ma proprio tutti!, hanno riservato al numeroso pubblico di ragazzini di 4ª e 5ª elementare: che non sono dei cretini, ma dei futuri cittadini, che meritano la giusta fiducia e la massima stima. Il secondo gradino del podio, con un distacco di pochi centesimi, è riservato ai loro insegnanti, che hanno scelto di portare le loro classi a condividere la nostra proposta artistica e letteraria, e che li hanno preparati a dovere.

Poi, in ordine sparso, c’è un ex aequo molto affollato, che voglio evocare alla rinfusa, senza pedanteria, rifuggendo intenzionalmente dalle stupide classificazioni e classifiche tipiche della scuola, anche quella odierna e anche, purtroppo e probabilmente, quella che verrà, a regime ormai HarmonizzatoS.

Vale a dire:

Tatiana Winteler è Dulcinea del Toboso
Tatiana Winteler è Dulcinea del Toboso
  • Miguel de Cervantes, l’autore dei due corposi volumi che compongono quel capolavoro della letteratura europea che è «Don Quijote de la Mancha».
  • Silvia Demartini, che ha saputo scegliere i “racconti” più significativi ed emblematici del Don Chisciotte, riscriverli per il nostro pubblico particolare e creare i collegamenti drammaturgici che ne hanno permesso la comprensione, dentro un disegno compatto e finito: perché ai nostri decenni non potevamo, né volevamo, offrire l’ennesima versione dell’ingegnoso nobiluomo un po’ comico e tanto stupidotto.
Giovanni Galfetti
Giovanni Galfetti
  • Un cast di attori e lettori di assoluta bravura. In rigoroso ordine alfabetico, benché ladies first (amen, per certi versi sono un po’ all’antica): Sara Giulivi, che è stata Mari, la cameriera della locanda dove il Cavaliere è diventato cavaliere sul serio, tramite la cerimonia dell’investitura; Tatiana Winteler, un’Aldonza Lorenzo figlia di Lorenzo Corciuelo straordinaria e verosimile, che sembrava sul serio Dulcinea del Toboso, così come l’avevano conosciuta Don Chisciotte e, soprattutto, Sancho Panza; Cristina Zamboni, una credibile, sdegnata e arrabbiatissima Antonia Chisciana, nipote di Don Chisciotte; Fabio Doriali, che è stato un integerrimo presentatore – forse lo stesso Cervantes – e ha dato voce e fattezze a un Sancho Panza talmente zotico da sembrare vero (mi verrebbe un paragone con la politica dei giorni nostri: ma transeat).
Il Don Chisciotte di Simone Fornara
Il Don Chisciotte di Simone Fornara
  • Simone Fornara, un attore dilettante, a tal punto preoccupato che, dietro le quinte e in procinto di entrare in scena, si è rivelato il degno e coerente finale della nostra costruzione artistica e anche didattica (un aggettivo che normalmente detesto). Ha detto, stralunato e credibile, rivolto al pubblico: «Quando vi diranno che i libri mettono in testa strane idee e fanno pensare troppo, LEGGETELI, leggeteli a fondo: vi salveranno dalla banalità; quando vi diranno che le vostre battaglie per un mondo migliore e più giusto sono assurde, CREDETECI e combattetele fino in fondo, senza paura di farvi male; quando vi diranno che siete matti per amore, allora AMATE ancora più intensamente: chi dovrà capire capirà; e quando vi diranno che sognate di essere qualcuno e magari vi prenderanno in giro per quello che fate o per come vi vestite, be’, allora FIDATEVI DI VOI senza paura. Solo così il vostro personaggio smetterà di essere solo finzione».
  • Tre musicisti appassionati e immersi nella nostra storia: il fisarmonicista Daniele Dell’Agnola, il pianista Giovanni Galfetti e il percussionista Oliviero Giovannoni.
Simona Maisser
Simona Maisser
  • Simona Meisser, che ha disegnato le storie in diretta. Una maestra mi ha scritto: «Quei bambini che di solito sono un po’ deboli nell’ascolto, sono riusciti a seguire il tutto grazie alla magia delle immagini di Simona».
  • Dietro le quinte, al riparo dall’occhio di bue, ma ognuno con un ruolo importante, una moltitudine di persone: Fiorenza Wiedmann, splendida costumista, scenografa e trovarobe; le amiche e gli amici del DFA della SUPSI, cioè Stephanie Grosslercher, Kata Lucic, Luca Botturi, Dina Leal, Antonio Crupi e Thierry Moro; la città di Locarno e i suoi uomini delle manifestazioni, Mauro Beffa ed Eros Ceccato; la voce di Marco Fasola, per gentile concessione della RSI; Werner Walther, competente tuttofare del Teatro, nonché esperto e fantasioso tecnico delle luci e del suono.
Raffaella Castagnola saluta il pubblico. Con lei, sul proscenio, io e Silvia Demartini.
Raffaella Castagnola saluta il pubblico. Con lei, sul proscenio, io e Silvia Demartini.
  • E, infine, chi ci sostiene, ci ha sostenuto e continuerà a sostenerci concretamente: Raffaela Castagnola, ideatrice e motore principale di «Piazzaparola»; Michele Mainardi, direttore del DFA della SUPSI; la SYZ Banque privée di Locarno.

Per il 2017 staremo a vedere cosa succederà, cosa ci sarà proposto. A volte è bello poter scegliere. Ma, lo confesso, saltare in groppa alle sfide che ci sono state proposte in questi anni è stato comunque sempre utile e divertente: penso a Boccaccio, Ovidio e de Cervantes, ma anche a Leonardo, non certo famoso per l’opera letteraria: mica facile, né evidente, riuscire a presentarli a ragazzini di dieci anni, non è esattamente come rifilare i fratelli Grimm o Hans Christian Andersen.

Daniele Dell'Agnola
Daniele Dell’Agnola

Poi, per dirla tutta (chi segue il mio sito sa bene cosa ne penso), le arti hanno bisogno di spazi nella scuola – spazi qualificati, non semplici alibi culturali – sebbene i posti a disposizione siano sempre più scarsi e i biglietti d’entrata discriminatori e costosi. Continuo a credere che la scuola, soprattutto quella pubblica e obbligatoria, dovrebbe creare tante e tante occasioni di incontro con le arti, senza scopi più o meno occulti per far strada a chi si avvierà a diventare uno scienziato, un notabile della Repubblica o un semplice galoppino.

Come ho scritto recentemente, in relazione alla riapertura dell’anno scolastico dopo un’estate di terrorismi e di crimini, «ascoltare le inquietudini e gli interrogativi degli allievi, servirsi della mediazione di una poesia o di un romanzo, prendere esempi dalla storia (…) può essere utile per contribuire a far indietreggiare la barbarie».

Ma anche a rendere migliore la vita di ognuno di noi.

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Le foto sono del REC (Risorse didattiche, eventi e comunicazione) del DFA/SUPSI.