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La scuola delle pari opportunità e della differenziazione

Nell’era di un piano di studio, autoritario e complesso, che finisce per trasformare la vita a scuola in un cimitero dell’entusiasmo e della passione

Quando si parla si scuola, soprattutto di scuola dell’obbligo, piace a molti sciacquarsi la bocca con le pari opportunità e la differenziazione. Quasi mai si riesce a capire cosa si intenda per differenziazione. Le pari opportunità che si vorrebbero a scuola, invece, sono più esplicite. Di solito chi le evoca intende dire che a ogni allievo vengono garantite identiche condizioni di partenza: gli stessi programmi, gli stessi supporti didattici, gli stessi insegnanti (il prof. Zambelloni, una volta, osservò ironicamente che nella scuola coesistono insegnanti straordinariamente bravi e insegnanti normalmente bravi).

Ad esempio, Sergio Morisoli, oggi parlamentare UDC, scrisse che «Occorre garantire le stesse condizioni di partenza per tutti, ma non la parità di risultati. La scuola va differenziata, non siamo tutti uguali (CdT 12.08.2012)». Circola una vignetta che, col dovuto cinismo, illustra questa diffusa versione delle pari opportunità. Vi si vede un maestro, seduto alla cattedra, davanti a una classe un po’ speciale: un corvo, uno scimpanzé, un marabù, un elefante, un pesce rosso nella sua boccia di vetro, una foca e un cane, e sullo sfondo un albero. Bene – dice il maestro – adesso facciamo un esercizio. Il compito è uguale per tutti: arrampicatevi sull’albero». È quel che succede a scuola. Un mese dopo l’inizio dell’anno scolastico c’è già chi arranca, non capisce, resta indietro. Poi arriveranno gli specialisti, i genitori saranno convocati e sentiranno dirsi che il pargolo ha tante difficoltà. Magari a fine anno sarà bocciato (oggi si dice «rallentato»), e l’anno dopo dovrà rifare anche quel che aveva già imparato.

Su un numero speciale della rivista romanda Éducateur (febbraio 2012), dedicato ai cento anni di vita dell’Institut Jean-Jacques Rousseau di Ginevra, il sociologo Walo Hutmacher pubblicò un articolo dal titolo intrigante: Réclamer l’égalité des chances, c’est s’empêcher de viser l’égalité des résultats a un niveau élevé. «Le pari opportunità – scriveva – fanno parte della scuola pubblica. Ma è un’uguaglianza astratta, di maniera, perché presume, senza dirlo, che la scuola di base sia una gara, così che ha un senso solo in una scuola selettiva».

Rivolgendosi alla politica per contraddire quella sorta di mainstream che si è appropriato di due parole – pari opportunità – per farne un comodo alibi, continuava così: «Contrariamente a ciò che dicono tutti i partiti, la politica non deve mirare alle pari opportunità, ma puntare all’equità dei risultati a livello elevato, allo scopo di creare buone capacità per affrontare le esigenze della vita sociale, civica ed economica. L’equità dei risultati è meno astratta delle pari opportunità. In senso assoluto è inarrivabile, ma si può tentare con tenacia di avvicinarvisi. Bisogna però farne un’ambiziosa meta politica. La logica della selezione estremizza le regole del gioco: per allievi e genitori che sono, loro malgrado, protagonisti di un processo di selezione, lo scopo principale non è quello di imparare, bensì di “riuscire”, di “essere promosso”. In questa logica i più bravi si accontentano di “gestire la loro media” col minimo sforzo, mentre i più deboli si scoraggiano davanti a ostacoli che ritengono di non poter superare».

L’attuale Piano di studio della scuola dell’obbligo richiama una dichiarazione d’intenti della Conferenza intercantonale dell’istruzione pubblica della Svizzera romanda e del Ticino, che, tra tante enunciazioni, afferma che «La Scuola pubblica assume compiti di educazione e di trasmissione di valori sociali, tra i quali la promozione delle pari opportunità a livello di riuscita scolastica». Un dichiarazione per lo meno ambigua, soprattutto alla luce delle quasi 300 pagine che dovrebbero contestualizzare gli obiettivi della scuola obbligatoria attraverso i «piani disciplinari», le sue «aree» e le sue materie.

I programmi delle scuole obbligatorie del 1959 – Scuola elementare e maggiore, scuola di economia domestica e di avviamento professionale – di pagine ne avevano 74. E così introducevano il discorso: «Un programma non può essere che uno schema offerto all’insegnante perché lo trasformi in cosa compiuta e viva». Diciamo che c’era una diversa stima degli insegnanti e dei loro allievi.

Ora invece siamo confrontati con un piano di studi velleitario e illusorio, che ha bisogno, per funzionare in qualche modo, di tante figure professionali che si accalcano nelle aule, frammentano le competenze, diluiscono le responsabilità. Nella scuola obbligatoria si possono incontrare i docenti di appoggio, di sostegno pedagogico, di lingua e integrazione degli alloglotti, oltre a logopedisti, psicomotricisti, psicologi, specialisti per la gestione dei casi difficili e operatrici pedagogiche per l’integrazione.

Permane, sullo sfondo, la solitudine del docente, che dovrebbe essere il vero regista di ciò che succede nella sua aula. Invece quel Piano di studio, autoritario e complesso, finisce per trasformare la vita a scuola in un cimitero dell’entusiasmo e della passione, per chi deve insegnare e per chi deve apprendere. Vedremo presto se ci saranno la volontà politica e la capacità e di ricreare una scuola serena, in cui insegnare e imparare tornino a essere momenti da ricordare per tutta la vita con almeno un po’ di piacere.

Scritto per Naufraghi/e

Nel mio blog si trovano numerosi articoli sul tema delle pari opportunità nella scuola. Alcuni sono stai pubblicati su giornali o riviste (soprattutto nella rubrica «Fuori dal’aula», che ho firmato sul Corriere del Ticino per quasi vent’anni). Altri sono apparsi solo nel blog. Tra questi mi piace richiamare Cos’hanno ancora di così rivoluzionario, oggi, le pari opportunità? (16.05.2016).

La scuola è un luogo dove bisogna poter sbagliare senza correre rischi

La riuscita scolastica non può dipendere solo dall’essere nato con la camicia, dal quantitativo di “lacrime e sangue” prodotti nel seguire le lezioni o dalle furbizie nei test

Tra i temi scolastici dell’ultimo anno, quello del superamento dei livelli nel secondo biennio della scuola media ha tenuto banco fino a pochi giorni fa, quando il Gran consiglio ha approvato a larga maggioranza l’avvio di una sperimentazione a partire dal prossimo anno scolastico. Non che il tema dei livelli attitudinali e di base sia una novità: esistono sin dall’istituzione della scuola media (1974), sono ovviamente basati sulle valutazioni ottenute da ogni allievo e somministrate da professoresse e professori.

Come tutti sanno, le valutazioni sono espresse con note numeriche in tutta la scuola dell’obbligo, a partire dall’elementare. La scala va dal 3 al 6, con la sufficienza dal 4 in su. Con questi numeri e coi loro mezzi punti si fanno le medie. Una media che può decidere il futuro di un quindicenne è quel 4.65 tra tutte le materie, senza il quale non si accede al liceo. Si potrebbe supporre che il metodo sia semplice quanto scientifico. Per fare un esempio, se tu hai 6 in italiano e 3 in matematica significa che vali mediamente 4 ½. In realtà sei bravissimo in italiano e non capisci un’acca in matematica: questo dicono i numeri.

Ma non solo. La scala delle note scolastiche non ha intervalli identici e regolari. Il metro del falegname è sempre lungo un metro, anche se ha la luna storta. Invece la scuola usa questi numeri come se fossero numeri sul serio. Ad esempio dal 3 (insufficienza) al 4 (sufficienza) c’è una distanza che, a naso, è più ampia della distanza tra il 5 e il 6. A questo pressappochismo dobbiamo poi aggiungere altre variabili del tutto imperscrutabili, a cominciare dai docenti ritenuti di manica più stretta o più larga, dalla loro capacità di insegnare, dalle prove costruite e usate per giungere a valutazioni e dalla natura stessa di ciò che si vuole valutare, ficcando ogni frammento di una disciplina in questa scala coi gradini dissestati: dal sottoscala al piano più alto.

La scuola dell’obbligo dovrebbe preoccuparsi in primo luogo di insegnare il massimo possibile a ogni allievo. Avere imparato significa sapere o non sapere, sì o no, acquisito o no. Tutto l’ambaradan di test, coi suoi punteggi, le note e le medie, non serve assolutamente a nulla nei confronti del cosa si è imparato e di cosa si sa fare. Un allievo col 4 in italiano, “quanto” italiano sa? E che differenza passa tra una competenza in tedesco da 5 rispetto a una da 5 ½? Non è evidente il motivo per cui i livelli esistano solo per la matematica e il tedesco, mentre ci sono sicuramente altre discipline che meriterebbero simile riguardo. «Sbagliando s’impara», recita un motto popolare; salvo che a scuola, dove chi sbaglia rischia guai seri.

Scriveva Don Milani già negli anni ’60, rivolgendosi alla “professoressa”: Durante i compiti in classe lei passava tra i banchi, mi vedeva in difficoltà o sbagliare e non diceva nulla. Io in quelle condizioni sono anche a casa. Nessuno cui rivolgermi per chilometri intorno. Ora invece siamo “a scuola”. Sono venuto apposta, di lontano. Non c’è la mamma, che ha promesso che starà zitta e poi mi interrompe cento volte. Non c’è il bambino della mia sorella che ha bisogno d’aiuto per i compiti. C’è silenzio, una bella luce, un banco tutto per me. E lì, ritta a due passi da me, c’è lei. Sa le cose. È pagata per aiutarmi. E invece perde il tempo a sorvegliarmi come un ladro.

I Verdi, nel 2012, avevano già presentato un’iniziativa parlamentare che, in sostanza, chiedeva l’abbandono dei livelli. La proposta fu discussa dal parlamento nel 2014 e respinta a maggioranza. È passato mezzo secolo dall’istituzione della scuola media e siamo ancora lì, ad affermare il primato “scientifico” delle note sul valore dell’insegnamento e sui suoi principi fondamentali, direi quasi etici. La riuscita scolastica non può dipendere solo dall’essere nato con la camicia, dal quantitativo di “lacrime e sangue” prodotti nel seguire lezioni, dalle furbizie nei test e da qualche accidente elargito da madre natura.

Esistono altre forme di organizzazione della scuola pubblica; per dire, quella finlandese (Scuola: tante idee e ben confuse), dove si ritiene che le basi essenziali per acquisire dei saperi e favorire una crescita armoniosa degli individui risieda in un ambiente scolastico rassicurante, in docenti premurosi e preoccupati di creare dei legami affettuosi e cordiali coi loro allievi, in modo che questi possano sviluppare una benefica autostima. E si reputa altresì che l’esigenza di un forte richiamo ai valori morali e umanistici non debba ridursi a mera enunciazione legislativa, da sacrificare giorno dopo giorno sull’altare della trasmissione di conoscenze e di competenze mirate all’inserimento nel mondo del lavoro.

Ha scritto il pedagogista Philippe Meirieu: Dato che “capire” è più importante che “riuscire”, la Scuola è un luogo dove bisogna poter sbagliare senza correre rischi.

 

Scritto per Naufraghi/e

Alcune chiose di congedo dall’anno passato

Archiviato – si fa per dire – il Coronavirus, almeno nella sua fase pandemica, ecco subito un nuovo, grave evento, l’invasione dell’Ucraina per mano delle forze armate della Federazione Russa il 24 febbraio 2022.

Dopo le statistiche giornaliere su Covid 19 – nuovi contagi, ricoverati, morti, guariti – ecco le nuove tabelle riguardanti l’arrivo dei profughi ucraini in Ticino e in Svizzera: dove, presso chi, sotto l’egida di. E quali le scuole frequentate.

Sono stati entrambi eventi pieni di bontà: si pensi agli applausi agli infermieri prima, agli abbracci ai profughi poi, in arrivo nelle scuole del Cantone.

Ho conservato un articolo di Moreno Bernasconi apparso a pagina 4 del Corriere del Ticino del 31 maggio scorso: «Due profughe, due misure», che così inizia:


«Abbiamo capito che noi, qui, siamo profughi di serie B». Questo amaro commento circola insistentemente da un paio di mesi fra i rifugiati riparati in Svizzera da Paesi africani o dall’Afghanistan o da altri Paesi devastati dalla guerra durante anni o addirittura decenni. Circola da due o tre mesi, ovvero da quando la guerra scatenata dall’invasione russa ha spinto milioni di civili ucraini a fuggire dalla barbarie. La maggioranza ha cercato rifugio nei Paesi limitrofi dell’UE, ma non pochi anche nel nostro Paese, che si sta dimostrando coralmente generoso verso i profughi ucraini in fuga. Dal punto di vista giuridico, questa accoglienza generosa ha un nome: il permesso S, ovvero quello «per persone bisognose di protezione» (Schutz, in tedesco).

(Qui si può leggere l’articolo integralmente).

Osservo che, di solito, questa tipologia di immigrati, se autorizzata a risiedere in Svizzera, riceve il Permesso N «per richiedenti l’asilo», che da qualche parte saranno ritenuti meno bisognosi. Nei primi anni del mio periodo come direttore delle scuole comunali di Locarno, dal 1987, ho attraversato tanti drammatici arrivi massicci di profughi, per lo più famiglie che scappavano dalla guerra. La fase più acuta fu attorno al 1992/93, quando accogliemmo nelle nostre classi un centinaio di bambini e bambine, circa il 10% del totale degli allievi di scuola elementare.

Non fu facile, anche perché si trattava di un fenomeno del tutto nuovo, che toccava poche sedi scolastiche del Ticino. Le caratteristiche di questi alunni erano inoltre molto diverse: per età e sesso, per religione, lingua e cultura. Eravamo inoltre circondati da un diffuso sentimento di rifiuto – non oso parlare di razzismo o di xenofobia. Però, forse, chissà.

Meglio quindi quel che è successo nella primavera del 2022, confidando che anche in futuro queste persone godano della medesima benevolenza (e soprattutto del Permesso S), a condizione che non si parli di guerre vere e guerre finte, così da decidere solo a «Spalancare le porte ai profughi veri»: come afferma il senatore italiano Matteo Salvini.

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In questo 2022 si è tornato a parlare dei livelli della scuola media, che tutti dicono di voler abolire. Se ne parla ormai quasi da mezzo secolo, cioè da prima che nascesse la scuola media, tra slanci ideali, mugugni e ipocrisie poliedriche.

Eppure anche stavolta il dibattito si è subito acceso, coi diversi schieramenti politici a precisare, correggere, rimandare: perché in aprile ci sarà il rinnovo dei poteri cantonali, ognuno vuole solleticare la pancia dell’elettorato e non vuole scottarsi.

Credo che i livelli – o la sostanza del loro effetto pedagogico e socio-culturale – continueranno a caratterizzare la scuola media fino a che non sarà chiaro a tutti che non tocca alla scuola dell’obbligo decidere chi può e chi non può frequentare una scuola medio-superiore.
Qualche anno fa andava di moda citare il sistema scolastico finlandese – una scuola da Oscar della pedagogia, avevo scritto nel 2008 (Qual è il segreto della scuola finlandese?, Corriere del Ticino del 27.02.2008). La si citava ma non la si studiava. Se lo si fosse fatto si sarebbero scoperti alcuni suoi aspetti accattivanti: ad esempio, come predisporre una scuola altamente performante e inclusiva, senza stress e senza livelli.

Scrivevo in quel testo:

Si ritiene, nei fatti, che le basi essenziali per acquisire dei saperi e favorire una crescita armoniosa degli individui risieda in un ambiente scolastico rassicurante, in docenti premurosi e preoccupati di creare dei legami affettuosi e cordiali coi loro allievi, in modo che questi possano sviluppare una benefica autostima. Si reputa altresì che l’esigenza di un forte richiamo ai valori morali e umanistici non debba ridursi a mera enunciazione legislativa, da sacrificare giorno dopo giorno sull’altare della trasmissione di conoscenze e di competenze mirate all’inserimento nel mondo del lavoro. Conseguentemente «imparare senza stress», nel rispetto totale di ogni allievo, si traduce in una scuola che rispetta i ritmi di apprendimento di ognuno: le note fanno la loro prima apparizione dopo i nove o dieci anni della scuola dell’obbligo (Educazione fondamentale); la ripetizione di classe non esiste; accanto ad alcune discipline obbligatorie, ogni allievo ha un discreto margine di manovra per scegliere altre materie che completano il suo curricolo.

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Il 16 dicembre scorso il Palacinema di Locarno ha accolto oltre 500 allievi di IV/V elementare per un nuovo appuntamento con la manifestazione Piazzaparola, che è così giunta all’edizione numero nove. Dal 2013 a oggi sono stati presentati diversi adattamenti di opere quanto mai diverse fra loro per epoca, stile, contenuto e molto altro. Ideatori, autori e coordinatori di ogni spettacolo sono stati Silvia Demartini, professore SUPSI, ed io.

© Simone Fornara

Quest’anno la scelta è caduta su una rilettura del Canto di Natale di Charles Dickens, che abbiamo voluto sottotitolare come Una fantasmagorica storia natalizia. In scena gli attori Sara Giulivi e Alessandro Otupacca e i musicisti Deolinda Giovanettina (violino), Marco Cuzzovaglia (batteria) a André Sampaio (basso).

© Simone Fornara

Mi piace riportare qui un breve passaggio della rilettura scritta da Silvia Demartini, una battuta di Ebenezer Scrooge, il “cattivo” (redento) della storia.

Io però non capisco, non capisco… nemmeno oggi, qui, nel vostro mondo [rivolto al pubblico]. Ho fatto un giro, eh? Ma che cosa significa essere felici a Natale, stare bene, mangiare bene, avere molti giochi, quando tante, tante persone non possono esserlo e non possono avere nulla? E non solo a Natale, ma in nessun giorno dell’anno?

© SUPSI/DFA Luca Ramelli

La banalizzazione del merito

In un’epoca durante la quale ci si appella sempre più frequentemente al merito e alla meritocrazia, il nuovo governo italiano, insediato il 23 ottobre, ha istituito il Ministero dell’istruzione e del merito.

Ha detto Luciana Littizzetto durante la trasmissione televisiva Che tempo che fa del 30 ottobre 2022:

Vi accanite col merito nella scuola, ma vogliamo parlare della politica? Se c’è un campo dove non ci si arriva tutti per merito è proprio la politica… Non è che aprendo le porte del parlamento pensi: “Ehi, sono finito al CERN, per caso!?” Il merito vale per tutti, tranne che per i politici?

[…] Abbiamo avuto ministri dell’istruzione che volevano far passare i neutrini dentro tunnel che non c’erano, Ministri dei trasporti che parlavano del trasporto su gomma nel tunnel del Brennero, che non è stato ancora realizzato… Ministri degli esteri che l’unica lingua che conoscevano era quella di vitello quando la ordinavano al ristorante… Quindi se proprio vogliamo partire con il merito in questo paese, inizierei sì dalle scuole, ma durante le elezioni e non durante le lezioni”.

Nel frattempo il Gran consiglio ticinese, nella sua seduta del 17.10.2022, ha approvato l’iniziativa parlamentare generica «Rinnoviamo la scuola dell’obbligo ticinese», che era stata presentata nel 2018 dall’Unione Democratica di Centro – che di centro ha solo il nome: 43 sì, 21 no e 19 astenuti. Stando alle cronache, la maggioranza favorevole è stata favorita dalla concordanza dei deputati liberali e della lega dei ticinesi.

Va da sé che, tra i 61 punti irrinunciabili ma negoziabili che costituiscono il proposito rinnovatore della destra ticinese, non poteva mancare l’imperativo di promuovere e offrire dei percorsi selettivi e meritori sia per gli allievi che per i docenti. Gli altri 60 punti, in sostanza, portano lì.

Continuo a credere che le finalità della scuola dell’obbligo siano altre. Proprio oggi si è conclusa a Bruxelles la 3ème Biennale internationale de l’Education Nouvelle (Convergenza per la nuova educazione), promossa da numerose associazioni internazionali, che aveva al centro dei suoi lavori anche l’aggiornamento del Manifesto per l’Educazione Nuova: il mondo che vogliamo, i valori che difendiamo.

E nel medesimo ordine di idee, mi piace segnalare l’interessante contributo di Marco Viscardi, docente all’Università degli studi di Napoli, pubblicato su DOPPIOZERO all’indomani dell’istituzione del Ministero dell’istruzione e del merito: Il merito è una fantasia. L’articolo può anche essere scaricato qui in formato PDF.

Lettera a un professore di didattica dell’italiano

Caro professor Fornara,

ho letto il suo libro Lettere a una maestra, l’ho finito da un po’, ma volevo pensarci bene prima di scriverle queste brevi note. Ci conosciamo ormai da diversi anni, sa bene che non mi sono mai occupato in maniera approfondita di didattica, benché si tratti naturalmente di un complesso di conoscenze che fa parte della “cassetta degli attrezzi” di ogni insegnante. Quando seguii la mia formazione di base non c’erano le didattiche disciplinari, sostituite dalla didattica generale e da tanti “consigli pratici” da parte dei nostri assistenti di didattica. In tal senso la nostra «Bibbia» era un volume pubblicato da Armando Armando Editore nel 1968 (la mia copia è del 1970, V ristampa), col titolo Nuove lezioni di didattica, autore Robert Dottrens; per la cronaca, l’edizione originale, Éduquer et instruire, è del 1966 (Unesco/Nathan, Parigi). Chissà perché i titoli tradotti in Italia sono spesso ben diversi dagli originali; il cinema, a questo riguardo, offre esempi spassosi.

Ma, per chiarirci, in quei primi anni ’70 del secolo scorso avevamo superato da un pezzo la preistoria della pedagogia, della didattica e delle cosiddette scienze dell’educazione. Tutt’al più continuo a credere che, per tanti versi, la scuola reale, quella di tutti i giorni, non è cambiata molto nei decenni, ma questo è naturalmente un altro discorso.

Un’immagine di Simone Fornara, presidente della giuria e scrittore ospite della III edizione del «Premio Luca Franscella», concorso di scrittura per gli allievi di 5ª elementare delle scuole comunali di Locarno, quell’anno sul tema «Scrivo per ricordare». È il 12 giugno del 2009 ed eravamo nella corte interna del castello visconteo di Locarno, durante la cerimonia di consegna delle licenze e la premiazione del concorso.

La lunga premessa, tuttavia, è per sottolineare che non ho i numeri per entrare nel merito scientifico dei tanti capitoli che lei ha toccato lungo le diciotto Lettere a una maestra sull’insegnamento (non solo) dell’italiano. Così la mia lettura si è arricchita – forse, per taluni, sarebbe stata viziata – con diversi rimandi, del tutto personali, mi creda, all’opera di alcuni grandi protagonisti della storia della pedagogia che lei ha citato: in ordine di apparizione sono Mario Lodi, Alberto Manzi, don Milani, Gianni Rodari, Jerome Bruner e Lev Vygotskij.

Ciò che ho letto io – ma sono sereno, non ho fatto una lettura sviata da pregiudizi – mi porta a condividere con un certo entusiasmo la didattica dell’italiano che ha in mente lei. Vorrei che tutte le didattiche avessero in comune la tensione etica che mette al primo posto ciò che gli allievi imparano, piuttosto che la loro riuscita scolastica, che è tutt’altra cosa. Le sue proposte sono davvero impregnate di quella scuola attiva che rimanda a Lodi, Manzi, Milani, Rodari (aggiungerei Célestin Freinet, tra i tanti), un approccio basato sulla mobilitazione dell’allievo, ma anche sulla cooperazione tra allievi. È una didattica, quella delle lettere a una maestra, che chiama a gran voce la scuola attiva, anche grazie a quel «non solo» che lei ha messo tra parentesi nel sottotitolo.

Il mio timore è che questo affascinante approccio didattico inciampi in qualche vecchia pedagogia poco differenziata, individualista, selettiva, competitiva – una pedagogia “bancaria”, per dirla con Paulo Freire. Negli anni ho visto passare tante didattiche, ognuna più magica e miracolosa della precedente. La didattica che lei propone con queste lettere è impegnativa. Per rispettarne il senso non la si può uniformare, con il vecchio e ambiguo slogan delle “pari opportunità”. Ha scritto il sociologo Walo Hutmacher:


Les politiques d’égalité des chances n’ont pas réduit les inégalités de résultat, comme la recherche le montre depuis des années et l’enquête internationale PISA une fois de plus. En comparaison internationale, au terme de la scolarité obligatoire, en moyenne, les niveaux de compétences mathématiques des jeunes Suisses sont bons, la 
culture scientifique
est moyenne, les compétences lectrices plutôt médiocres. A côté
 des moyennes, il faut 
aussi regarder les disparités. Parmi les pays européens, la Suisse se caractérise par des disparités particulièrement fortes, dans l’absolu et entre classes sociales. Et l’OCDE d’insister sur le rôle que joue chez nous le caractère séparatif du secondaire I. Elle met aussi en exergue les résultats de pays qui (…) visent explicitement non pas l’égalité des chances, mais l’égalité des résultats à un niveau élevé. Ils y réussissent avec les mêmes objectifs d’apprentissage renonçant à toute division sociale ou culturelle avant la fin de la scolarité obligatoire.

Il paradosso è tutto nell’istituzione in cui lei opera. A metà degli anni ’80 nacque la magistrale post liceale, a cui seguirono l’ASP e, oggi, il DFA della SUPSI. La storia delle idee pedagogiche ha perso di importanza (eufemismo). Nei miei anni la chiamavamo pedagogia, si parlava di Rousseau, Claparède, Dewey, Bruner…

Continuo a credere che nella Scuola ci debba essere una gerarchia di valori, conoscenze e competenze che non può essere modificata a seconda dei bisogni della politica e dell’economia. O viceversa. In vetta devono restare gli aspetti istituzionali, etici e deontologici. Da questi discendono le scelte pedagogiche e quelle didattiche: scegliere se educare o selezionare, se istruire o orientare per rispondere al mondo del lavoro, se inserire gli allievi dentro la curva di Gauss o se mirare all’equità dei risultati ad alto livello.

Senza queste scelte – concrete, oltre gli slogan – tutto diventa vacuo.

In ogni modo: complimenti per le sue Lettere a una maestra. Sono lettere profonde. Se saranno travisate o svuotate per mezzo di scelte pedagogiche sballate non sarà un suo problema. Ormai viviamo questi tempi. Un giorno o l’altro bisognerà ricominciare a parlare di pedagogia con i futuri insegnanti.

La saluto cordialmente, e pedagogicamente attivo.

AT

P. S. Non mi spaventa fa parola FINE. La disprezzo.


La citazione di Walo Hutmacher è tratta dall’articolo «Réclamer l’égalité des chances, c’est s’empêcher de viser l’égalité des résultats à un niveau élevé», in Éducateur – Les bâtisseurs du «siècle de l’enfant» | Cent ans de recherches et d’innovations pédagogiques, Numero speciale nel centenario di fondazione dell’Institut Jean-Jacques Rousseau, 24.02.2012.


Ecco un esempio spassoso di titoli del cinema in traduzione italiana. Domicile conjugal, film di François Truffaut del 1970, uscì in Italia col titolo Non drammatizziamo… è solo questione di corna. Tanto per dirne una.


SIMONE FORNARA, Lettere a una maestra – Sull’insegnamento (non solo) dell’italiano, 2021, Einaudi ragazzi