Archivi tag: Insegnamento delle lingue

Coesione nazionale: meglio la storia o tante lingue alla buona?

Se la seconda lingua imposta a tutte le scuole dell’obbligo elvetiche fosse l’inglese, «ci troveremmo in un campo neutro, una seconda lingua per entrambe le parti, e potremmo “combattere” ad armi pari nella terra di nessuno». È l’opinione del signor Michele Mazzucchelli, apparsa nella rubrica «Lettere & Opinioni» del Corriere del 9 ottobre. «Il problema – argomenta il lettore – è che noi ci ostiniamo a voler apprendere troppe lingue, con il risultato che sappiamo un po’ tutto, ma male». Gli ha fatto eco Lauro Tognola, a suo tempo bravo insegnante di inglese e francese e direttore del liceo di Locarno, che sul Corriere del 13 ottobre, stessa rubrica, ha osservato: «Fuori il francese, seconda lingua, dalle elementari ticinesi e svizzero-tedesche, il tedesco pure seconda lingua dalle elementari romande. Perché no? La padronanza dell’inglese, lingua franca del mondo, non potrà che favorire la comprensione fra utenti di lingue materne diverse dentro i confini della Confederazione».

Concordo. Chi legge questa rubrica anche solo con sobria regolarità sa che non mi sono mai elettrizzato per l’insegnamento di tante lingue foreste nella scuola dell’obbligo. Negli ultimi vent’anni la questione ha preso toni per lo più simbolici e politici, con ricadute massmediatiche perniciose. Studiare a scuola le lingue nazionali serve a poco e a pochi. Ma, a leggere i giornali, sembrerebbe che senza l’insegnamento precoce dei tre idiomi confederati ne andrebbe di mezzo la coesione nazionale. Eppure, malgrado tutta ’sta fregola poliglotta, la svizzeritudine non è mai stata così sfilacciata come oggi, tanto che alcuni partiti ricavano da questa debolezza la possibilità di creare un’identità federale bugiarda, attraverso le chiusure, gli egoismi, la xenofobia e le usanze locali più pittoresche. Nel frattempo schiere di adolescenti della scuola dell’obbligo subiscono anno dopo anno le randellate scolastiche della valutazione: perché le lingue seconde e terze pestano di brutto, oltre a essere tra le discipline che richiedono il maggior impegno a domicilio, a scapito di altre discipline fondamentali.

Il declassamento del tedesco e del francese a livello di discipline opzionali permetterebbe il potenziamento della storia e dell’italiano, perché l’italiano, prima di promuoverlo negli altri cantoni, occorrerebbe difenderlo qui. Per analogia il discorso vale anche per le altre regioni linguistiche. Una buona padronanza della lingua del posto e una maggior conoscenza della storia, della geografia e della cultura farebbero meno vittime nella scuola media e contribuirebbero in maniera ben più incisiva alla tanto decantata, e oggi un poco inconsistente, coesione nazionale. Per conoscere il Paese serve più la storia della lingua. Fino ai primi anni ’60, quindi ben prima della democratizzazione degli studi, il senso di appartenenza all’Elvezia era evidente e sincero, al di là delle schermaglie semiserie tra Tschinggali e Zückìtt. Anche a causa della situazione politica e bellica dell’Europa sin dai primi anni del ’900, il sistema scolastico svizzero aveva dato vita ad azioni educative mirate. Eppure non erano anni caratterizzati dalle odierne frenesie plurilinguistiche. L’insegnamento della storia serviva proprio per infondere il senso di appartenenza alla nazione, malgrado le barriere geografiche, linguistiche e religiose. Per la salvaguardia del plurilinguismo ci sarà tempo una vita, dopo la scuola dell’obbligo.

I livelli della scuola media non sono una vacca sacra

Con tutte le volte che ho scritto peste e corna dei livelli A e B della scuola media e di tutte le forme di selezione più o meno dissimulata che avvinghiano la nostra scuola come una malerba, sono naturalmente favorevole all’iniziativa parlamentare dei Verdi, che vuole abolire i livelli nel secondo biennio: anche se poi bisognerà vedere quel che ciò potrà significare. Si fa in fretta a togliere, ma bisognerebbe avere le idee in chiaro su dove si vuole andare, ciò che non è per nulla evidente, al di là delle solite dichiarazione in perfetto stile politichese. Il consigliere di Stato Manuele Bertoli ha subito dichiarato che vale la pena discuterne: «Qualcosa che non funziona effettivamente c’è. Il tema quindi non è eludibile e non può essere liquidato con una presa di posizione dipartimentale. La riapertura del dibattito sulla scuola media è essenziale». Aggiungerei: su tutta la scuola dell’obbligo, visto che con HarmoS inizierà persino due anni prima, a quattro anni. Però è ormai cominciato il teatrino della politica istituzionale, quella che volentieri fa in modo di non guadagnarsi la P maiuscola. Generazione Giovani, il movimento giovanile del PPD, ha già reagito «esprimendo stupore e contrarietà verso un’iniziativa che se approvata, farebbe solo del male alla qualità della formazione dei giovani ticinesi». Perché tanto sbigottimento affidato a un comunicato stampa, appena poche ore dopo la presentazione dell’atto parlamentare? Scrivono gli stessi giovani del PPD: «A spingere la stesura di un comunicato stampa ci ha pensato il Consigliere di Stato On. Manuele Bertoli che, a fronte delle sue prime reazioni, sembra purtroppo sostenere la tesi dell’abbandono dei gruppi differenziati d’insegnamento nelle materie di matematica e tedesco». Si guardi attentamente quel «purtroppo», che non lascia presagire nulla di buono nell’ipotesi che si apra un utile dibattito – e tenuto conto che nessuno può tirarsi fuori da una situazione che disgraziatamente è congenita: perché c’è davvero qualcosa che non gira come dovrebbe. Mentre scrivo son trascorsi solo pochi giorni dalla presentazione della proposta dei Verdi, ma è già polemica. Magari, quando la rubrica apparirà, altri pronunciamenti avranno contribuito a esporre posizioni più o meno precostituite, secondo i dogmi di ogni partito, movimento o associazione.
Eppure quando la deputata Francesca Bordoni Brooks, sul Corriere del 4 aprile, aveva buttato un pesante sasso nello stagno, proponendo di «dividere questa scuola media unica per passare a due scuole medie, una che porti al liceo e una che porti alle scuole professionali», nessuno era insorto con uguale tempismo e toni da vigilia dell’apocalisse. Sarà stucchevole, ma viene in mente la nota battuta attribuita ad Andreotti: a pensar male degli altri si fa peccato, ma spesso ci si indovina. In altre parole: vuoi vedere che il mantenimento dell’attuale scuola media, magari con un inasprimento delle regole per separare il grano dal loglio, trovi molti più consensi di quel che non si scriva e si dica, da destra a sinistra e ritorno? In fondo, tanto per fare un esempio, la scuola media, classe 1974, era nata coi livelli A e B, ma senza la nota di condotta e i mezzi punti per valutare le diverse materie. A pochi anni dalla sua generalizzazione, però, la nota di condotta e i mezzi punti erano stati riabilitati se non a furor di popolo, almeno a furor d’insegnanti. Di grazia: qualcuno è in grado di dire in maniera comprensibile a che serve la nota di condotta, questa specie di casellario giudiziale ante litteram? E qualcuno sa spiegare, con la dovuta trasparenza, qual è la differenza tra un 4½ e un 5? Mi verrebbe da dire che le cose o si sanno o non si sanno: il resto son solo diavolerie scolastiche, fumo negli occhi per convincerci che le note siano un fatto oggettivo e scientifico. E pensare che siamo solo all’inizio dell’opportuna contesa: c’è da credere che la discussione sull’iniziativa verde riserverà tanti momenti spassosi, a cavallo tra farsa e tragedia, a seconda delle diverse sensibilità.

Chissà se la scuola è un buon veggente?

La tradizionale conferenza stampa del DECS che prelude all’apertura dell’anno scolastico non ha convinto del tutto il direttore della «Regione Ticino». Nell’editoriale del 28 agosto Matteo Caratti mette qualche puntino sulle i al ministro Gendotti e ai suoi più stretti collaboratori, troppo entusiasti dello stato di salute della scuola ticinese. Ai vertici del dipartimento, che hanno magnificato la nostra scuola, sottolineando il corposo elenco di novità che riguardano il prossimo anno scolastico, Caratti contrappone la «percezione in una parte dell’opinione pubblica» secondo la quale «negli ultimi anni una parte importante delle forze e delle risorse sia stata dirottata a favore del settore universitario e professionale, mentre nella scuola pubblica obbligatoria gli investimenti siano stati considerati principalmente quali costi e non hanno così permesso di fare decisi passi avanti». A dimostrazione di questo supposto immobilismo cita «l’esigenza di fronteggiare con decisione e competenza situazioni ‘a rischio’ che coinvolgono non solo gli allievi ma anche i docenti, le esigenze delle famiglie che cambiano o le necessità del mondo del lavoro, che altrimenti si orienta su altri mercati, di avere una scuola capace di rispondere al più presto alle esigenze del settore secondario».
Hanno tutti ragione, vien da dire. Ma sia la lettura dipartimentale della nostra scuola, che le esigenze menzionate da quella parte dell’opinione pubblica, alla quale dà voce Caratti, dànno per scontato che i problemi si risolvano a suon di decisioni e di realizzazioni. Mi spiego, o cerco almeno di farlo. La scuola migliore, così come il migliore insegnante, è quella che riesce a insegnare il maggior numero di ‘cose’ al più grande numero di allievi che le sono affidati: «In una società in continua evoluzione, una scelta politica di fondo e irrinunciabile per gli stati democratici è sicuramente quella di assicurare una formazione elevata e adeguata ad una maggioranza sempre più larga di popolazione» (Diego Erba, 2006). Come sempre tra il dire e il fare c’è una differenza. Ad esempio di recente anche il nostro cantone ha impresso un’accelerazione all’insegnamento delle lingue nazionali e dell’inglese. Tutto a posto, dunque: a quindici anni i nostri studenti avranno acquisito gli strumenti comunicativi adeguati per varcare le alpi e andare alla conquista se non del mondo almeno dell’Elvezia. Eppure è difficile capire quanti ragazzi, giunti al termine della scuola dell’obbligo, conoscano per davvero il francese, il tedesco e l’inglese. E – scontato! – l’italiano.
Avevo otto anni quando Gagarin andò nello spazio, sedici quando Armstrong arrivò sulla luna e trentuno quando nacque Macintosh. Diciamo che, rispetto alla mia infanzia, il mondo è cambiato un pochino e, con lui, gli strumenti adeguati per affrontarlo. La scuola, che frequentavamo magari di malavoglia, non ci insegnava chissà quante nozioni, anche se proprio il nozionismo fu una delle prime vittime del ’68. Eppure noi 50/60.enni siamo stati in grado «di assumere ruoli attivi e responsabili nella società», anche se magari c’è qualcosa da ridire circa la nostra capacità di «realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà»: diciamo che qua e là s’è fatto sicuramente qualche errore. Eppure, come detto, abbiamo frequentato una scuola che non poteva immaginare la globalizzazione e che guardava spesso al passato per costruire il futuro delle nuove generazioni. Per certi versi mi vien quasi da dire: per fortuna. Perché se avesse tentato di immaginare il futuro avremmo rischiato già a quei tempi l’odierna ammucchiata di contenuti: con quali esiti è ovviamente impossibile dirlo. Oggi alla scuola si chiede ogni giorno di più. Nell’incapacità politica di fare delle scelte – ma non è certo un problema solo ticinese – siamo ormai alla scuola supermercato, dove tanti prodotti cercano di soddisfare una miriade di interessi privati. I bambini che hanno iniziato in questi giorni la prima elementare usciranno dalla scuola verso il 2023: a quel momento vedremo quante profezie avremo azzeccato.

Servono fondamenta solide per edificare la casa poliglotta

Ogni tanto bisognerebbe avere il coraggio di indignarsi. Come quando si incespica casualmente in un articoletto che parla dell’ennesima fregola per il plurilinguismo a scuola: «Occorre una progetto di riforma globale dell’insegnamento delle lingue a tutti i livelli della scolarità, dall’inizio della scolarizzazione fino ai 18 anni», ho letto nel giugno scorso su questo giornale. Toh, mi sono detto, ci risiamo. Poi sono sobbalzato sulla sedia quando ho visto qual era il pulpito: «Ne è convinta la Commissione scolastica del Gran Consiglio che ha presentato una mozione chiedendo al Governo di agire in questo senso». La mozione è lunga e articolata e affronta il capitolo del plurilinguismo partendo dalla scuola dell’infanzia per spingersi su su fino alle scuole post-obbligatorie. L’atto parlamentare è sottoscritto da ben tredici deputati, che rappresentano pressoché tutti i partiti del nostro Parlamento; qualcuno di loro proviene addirittura dal mondo della scuola e dovrebbe dunque conoscerne pregi, difetti e rogne. Da qui la conclusione che non serve scandalizzarsi. Ma almeno si può dissentire.
Da diversi anni si levano con regolarità gli allarmi per lo stato pietoso della lingua italiana nel nostro cantone. Inutile citare gli appelli che giungono da tante parti e i suggerimenti di più d’un gruppo di lavoro istituito dal Dipartimento stesso. Nel contempo il Ticino non perde occasione per alzare la voce in difesa dell’italiano: ma che serve valicare le Alpi con atteggiamenti tra il vittimistico e il battagliero, se poi l’italiano non lo si difende laddove è lingua nazionale? A ogni buon conto, al di là di tante enunciazioni e dei migliori propositi, non si intravedono progetti incisivi per dare una scossa all’insegnamento dell’italiano. Sembra addirittura che nel recente passato siano entrati all’Alta Scuola Pedagogica studenti con l’italiano claudicante. Non ci si dovrebbe scordare che per imparare una seconda lingua è necessario saperne una a menadito. Per noi l’assoluta padronanza dell’italiano è la condizione irrinunciabile per pensare (possibilmente bene…) e per accostarsi alle seconde, terze e quarte lingue. In mancanza di ciò si è esclusi in partenza. Tanti allievi, in sostanza, continueranno a ingrossare la già ampia schiera di chi giunge al termine dell’obbligo scolastico tra mille difficoltà. Perché il bello delle altre lingue è che fungono facilmente da setaccio della riuscita scolastica: non è un caso che, accanto alla matematica, nei livelli differenziati della scuola media c’è sempre una seconda lingua. Tedesco e francese, indubbiamente, massacrano un sacco di studenti e li mandano a fare l’apprendista senza troppi giri di parole.
Quanto all’insegnamento di quella disciplina che va sotto il nome di «Italiano», sarebbe opportuno e urgente un chiarimento: posto che dietro ogni valutazione ci dev’essere un insegnamento, bisognerebbe capire cosa descrive la nota di italiano. Il piano di formazione della scuola media è ricco e articolato; esso prevede l’insegnamento letterario, la pratica costante della scrittura, l’apprendimento grammaticale. Non è però chiaro cosa influisca maggiormente sulla nota finale e come sia suddiviso il tempo dedicato all’insegnamento. L’impressione – solo una vaga sensazione – è che la letteratura e la grammatica abbiano un peso specifico di rilievo, mentre le abilità linguistiche seguano un percorso più indipendente e, soprattutto, spesso estraneo ai curricoli scolastici. Forse converrebbe un chiarimento, per far sì che le (in)capacità linguistiche non possano nascondersi tra le pieghe dei fenomeni letterari e della grammatica: perché una cosa è l’abilità di restituire qualche nozione di storia della letteratura o qualche regoletta grammaticale; e un’altra il sapersi esprimere correttamente in buon italiano. È norma secolare quella per cui chi parla e scrive bene di solito pensa bene, che tra lingua e pensiero vi è un filo diretto e che ricchezza lessicale e apprendimento si arricchiscono reciprocamente.

I nostri figli sapranno tutti l’inglese: per dirsi cosa?

Ho già scritto una volta di HarmoS, il progetto di armonizzazione della scuola obbligatoria svizzera che la CDPE (Conferenza svizzera dei Direttori cantonali della Pubblica Educazione) intenderebbe sottoscrivere al più presto. A fine ottobre terminerà la fase di consultazione cantonale. Poi toccherà al Consiglio di Stato intuire gli umori della base e confezionare il solenne documento ticinese. Non sarà così difficile, perché tutti, almeno sinora, si esprimono più o meno all’unisono: soprattutto non si venga a imporci una scuola elementare di sei anni e una media di tre. Credo che la durata dei due settori scolastici sia il minore dei problemi. In altre parole, ho la netta sensazione che quaggiù al sud delle alpi continueremo con quella ramificazione strutturale e temporale per i prossimi decenni: anche perché, in fondo, il turgoviese che trasloca da noi ha ben altri problemi che non quello di sapere se il figlio undicenne dovrà frequentare la 6ª elementare o la 1ª media. Altri e ben più importanti sono invece i problemi sul tavolo, affinché la riforma migliori la scuola invece di appiattirla. Insomma: ci sono altri aspetti del progetto di accordo sui quali converrebbe soffermarsi e magari pestare i pugni sul tavolo delle trattative.
Prendiamo il capitolo sulla durata del livelli scolastici: secondo il progetto di accordo il passaggio alle scuole post-obbligatorie si produrrà «… in generale dopo l’11° anno di scuola per il settore della formazione professionale e, di regola, dopo il 10° anno per le scuole di maturità». Tradotto in parole povere: se vuoi fare il cameriere vai a scuola per undici anni, mentre se preferisci diventare avvocato lo Stato ti offre un bonus e dopo dieci anni puoi iscriverti al liceo: che è un modo «armonizzato» per cominciare sin da subito a dividere gli allievi in bianchi e neri, belli e brutti, tonti e sagaci, tramite una visione vecchia e classista dell’istituzione scolastica, che rimanda alla preistoria della pedagogia, quando i figli delle classi popolari erano destinati alle attività più plebee, con un assenso sociale senza riserve. Star zitti di fronte a una prospettiva del genere è come arrendersi all’evidenza che è difficile insegnare. Ma se si sventola bandiera bianca, tanto vale lasciar fare alla natura, liberandoci di classi tutto sommato piccole, di servizi di sostegno pedagogico, di approcci differenziati per l’insegnamento e di ogni altra diavoleria didattica a puntello di quegli allievi coi quali il buon Dio è stato sparagnino oltremisura, mentre l’ambiente in cui è cresciuto ha riservato solo sciatteria.
C’è poi almeno un altro aspetto che fa venire i brividi. Secondo le finalità della scuola obbligatoria armonizzata sul piano nazionale, «… tutte le allieve e gli allievi acquisiscono e sviluppano le conoscenze e le competenze fondamentali, nonché l’identità culturale, che permettono loro di continuare ad imparare tutta la vita e di trovare il loro posto nella vita sociale e professionale». E come si costruisce quest’identità culturale? Attraverso le solite discipline scolastiche – ma sappiamo tutti che ve ne sono di categoria A e B. Non è certo un caso se nella graduatoria dei tragitti per raggiungere l’identità culturale, il progetto di accordo mette in prima fila le lingue. Nazionali? Neanche per sogno. Dopo la lingua madre, ne viene una seconda nazionale e poi una terza a scelta: perché non dire subito che la terza sarà l’inglese quasi ovunque, alla faccia della nostra identità e della necessità sempre più acuta di abbattere un po’ in fretta i diversi Röstigraben disseminati a destra e a manca?
Non so se sia mai esistita la svizzerità, né – in tal caso – cosa fosse esattamente. È però vero che più la comunicazione diventa facile e veloce, più noi non ci capiamo più, e nemmeno ci sforziamo di farlo. Un progetto di politica educativa a livello nazionale imporrebbe che in undici anni ogni allievo svizzero potesse acquisire e sviluppare le competenze essenziali nelle due altre lingue nazionali, non limitandosi a un raffazzonato incedere comunicativo, ma facendo la conoscenza di qualche pietra miliare delle culture originarie: non sarebbe un male se tutti incontrassimo – tanto per fare dei nomi – Ramuz, Dürrenmatt e Martini. Forse ci capiremmo meglio, senza l’imperioso bisogno di calar le brache davanti a sua maestà l’inglese. Perché senza un retroterra culturale comune, cosa avremmo mai da dirci, giunti a quel punto?