Se non ci fosse la scuola non ci sarebbe l’insuccesso scolastico

È difficile capire come mai la politica non si sia ancora allarmata di fronte alla più che decennale strage di allievi, che non riguarda solo le scuole medie superiori, ma anche la scuola media

Se non ci fosse la scuola non ci sarebbe l’insuccesso scolastico.

Meglio: En un sens, il ne saurait y avoir d’échec scolaire que par référence à une école qui met en échec. È una frase di Pierre Bourdieu et Jean-Claude Passeron, sociologi francesi che, nei primi anni ’70, pubblicarono un saggio che scosse il mondo dell’educazione e della scuola: La riproduzione. Sistemi di insegnamento e ordine culturale. Secondo i due studiosi, il sistema educativo contribuisce alla riproduzione delle disuguaglianze sociali attraverso la trasmissione del capitale culturale che è patrimonio delle classi dominanti, consolidando così le disuguaglianze esistenti. Analogamente la stessa scuola legittima le disuguaglianze sociali presentandole come naturali e meritocratiche.

Scrivono, tradotto con un semplice esempio, che nei primi anni della scolarità, in cui comprendere e maneggiare la lingua costituiscono il punto d’applicazione principale del giudizio dei maestri, l’influenza del capitale linguistico non cessa mai di esercitarsi: lo stile viene sempre preso in considerazione, implicitamente o esplicitamente, a tutti i livelli del curriculum, fino all’università.

Pensando alle valutazioni della scuola, è piuttosto evidente che il possesso di un capitale linguistico, appreso perlopiù in famiglia, in quello specifico contesto socio-culturale, è un chiaro vantaggio rispetto agli allievi che, sin dall’entrata nella scuola, quel capitale non ce l’hanno: potranno imparare a scrivere e a parlare in maniera del tutto corretta, e in questo caso non finiranno nelle paludi dell’insuccesso scolastico, che li inseguirebbe anno dopo anno. Ma di rado saranno in grado di costruire una lingua alta, per lessico e sintassi, benché grammaticalmente corretta.

Fino agli anni ’70, le discipline umanistiche contavano ben più di oggi. «Tutti coloro che hanno studiato filosofia – è un passaggio dell’ultimo romanzo del greco Petros Markaris (La violenza dei vinti, 2024) – conoscono la massima di Cartesio: Penso, dunque sono. In Grecia abbiamo modificato la massima e diciamo: Ho una poltrona, dunque sono. Stèfanos Rokkos apparteneva alla categoria di chi ha una poltrona. E aveva deciso di modificare il piano di studi dei licei in modo che potessero aprire agli studenti la strada verso le poltrone delle aziende e degli enti. Il pensiero non ha importanza. Quello che conta è la poltrona. Ma noi non permetteremo che le scuole diventino spacci di poltrone. Lotteremo, quale che sia il prezzo per noi. Da noi, mi pare, non lotta nessuno.

Simona Sala ha proposto recentemente alcune riflessioni sulla «scuola post-obbligatoria, ossia, quel bacino immenso in cui si trovano spesso a galleggiare centinaia di giovani che, non ancora del tutto certi del percorso formativo intrapreso, tentano di individuare una strada che li possa portare a una realizzazione personale e professionale»: in sostanza, parliamo dei licei e della scuola cantonale di commercio. Titolo dell’articolo: Una scuola superiore davvero inclusiva? L’occhiello aggiunge: Un insegnamento post-obbligatorio spesso disumanizzato.

La risposta al quesito, chiaramente retorico, è già scritta in una pubblicazione del DECS – Scuola ticinese in cifre 2023 che nella Prefazione, firmata dalla Consigliera di Stato Marina Carobbio Guscetti, afferma: Nell’anno scolastico 2021/22 solo 74% degli allievi di prima liceo sono stati promossi. Alla Scuola cantonale di commercio la selezione è stata ancora più massiccia: solo 62% degli allievi di prima sono stati promossi. Ma c’è un altro dato, raccolto in quel medesimo prezioso documento che, anno dopo anno, presenta le cifre della scuola ticinese. Cosa intendono fare tutti quegli studenti che, consci o meno delle loro attitudini, si iscrivono al liceo? Il 31% (i dati si riferiscono al 21/22) sceglie l’opzione Lingue moderne, seguono Biologia e chimica (28.3%), poi Economia e diritto (20.4%). Molto più staccate arrivano le Lingue antiche (8.6%), Fisica e applicazioni della matematica (7.1%), per finire con la Musica e le Arti visive, scelte peraltro possibili solo in alcune sedi. Cosa ci sia dietro questi indirizzi non è di facile comprensione, basti pensare, ad esempio, a chi vuole intraprendere la carriera di maestra/o di scuola dell’infanzia o elementare.

È difficile capire come mai la politica non si sia ancora allarmata di fronte a questa più che decennale strage scolastica, che non coinvolge solo le scuole medie superiori, ma anche la scuola media, che è scuola dell’obbligo. Per restare ai numeri, i medesimi dati dell’anno 21/22 dicono che il 60% degli allievi del II ciclo della scuola media ha seguito due corsi attitudinali – mutatis mutandis, per capirci, quelli che all’inizio erano i livelli A. Si può ipotizzare che un bel numero di loro, con l’iscrizione al liceo, rincorrerà un destino funesto e già scritto.

Il fallimento pare duplice: della scuola media, che è incapace di orientare un gran numero di suoi allievi; e della scuola media superiore che, con queste fucilazioni scolastiche, sembra voler incriminare la sua scuola-filtro. Dietro tutto ciò non si può far finta di non vedere che il diploma di maturità è il pezzo di carta che dà l’accesso a un numero impressionante e variegato di formazioni universitarie e para-universitarie, una specie di coperchio per tante pentole.

Resta, sullo sfondo, il dubbio di sempre, che riguarda le valutazioni scolastiche, dietro le quali ci possono essere le responsabilità di ogni studente o studentessa. Ma c’è anche, con altrettanta potenza di fuoco, l’incapacità di qualche insegnante: di educare, motivare, valutare e insegnare. Non necessariamente in quest’ordine.

 

Scritto per Naufraghi/e

Scusate, sulla scuola abbiamo cambiato idea (liberale)

La scuola ticinese l’hanno fatta e gestita soprattutto i liberali, ma adesso, ohibò, a loro non piace più

In altre epoche c’era stato uno che aveva promulgato una Legge in dieci articoli, che aveva chiamato Comandamenti. I liberali radicali svizzeri vanno vicini al raddoppio: Diciassette campi d’azione per un’educazione scolastica equilibrata e orientata al futuro. «Il modello di successo liberale radicale presuppone che tutti abbiano l’opportunità di affrancarsi nella scala sociale. Tuttavia, questo è possibile solo con una solida istruzione. La comprensione del modello liberale di società richiede però un’ampia istruzione e, tra le altre cose, la conoscenza dell’Illuminismo»: alla faccia del minimo sindacale della modestia, che i liberali inglesi di un tempo chiamavano understatement, una sintesi di autoironia e sobrietà. Non so cosa sappiano questi novelli liberali dei grandi illuministi della storia della pedagogia – da John Locke a Jean-Jacques Rousseau, Denis Diderot, Voltaire, Johann Heinrich Pestalozzi e Immanuel Kant – senza evocare alcuni filosofi e pedagogisti che, in anni successivi, molto hanno dato alla scuola moderna, penso a John Dewey, Maria Montessori, Jean Piaget, Lev Vygotskij e altri.

Presumo che i liberali radicali ticinesi abbiano aderito all’eptadecalogo nazionale e che lo sottoscrivano senza se e senza ma, tant’è che questa lista della scuola che vorrebbero l’ho trovata nel loro sito. Così non possono dimenticare, o fingere di farlo, che per oltre sessant’anni, dal dopoguerra in qua, i loro predecessori hanno gestito la Pubblica educazione ticinese con i Consiglieri di stato Brenno Galli, Plinio Cioccari, Bixio Celio, Ugo Sadis, Carlo Speziali, Giuseppe Buffi e Gabriele Gendotti, e che in tutti quegli anni hanno proposto e realizzato tante importanti riforme, tra le quali spiccano l’istituzione della Scuola media e l’Università della Svizzera italiana, senza scordare la diffusione dei licei o i grandi sforzi per favorire e concretizzare la democratizzazione degli studi. Come spesso capita, vien da dire che gli originali sono migliori delle copie.

I «padri» della scuola ticinese dal dopoguerra, tutti liberali: Brenno Galli (1946-1959), Plinio Cioccari (1959-1965), Ugo Sadis (1971-1979), Carlo Speziali (1979-1986), Giuseppe Buffi (1986-2000) e Gabriele Gendotti (2000-2011). Manca Bixio Celio (1965-1971).

Certo, non tutto e non sempre è stato immune da errori e critiche, e non lo è neanche oggi, perché ogni legge è frutto di compromessi e scambi politici, così come la realizzazione dei suoi principi deve fare i conti con chi, nelle scuole e nelle aule, deve tradurre i principi in pratica, magari a volte dissentendo; e perché i tempi cambiano in fretta, gli impianti normativi resistono e i tempi della politica li conosciamo.

Forse non rammentano, i liberali odierni, che nel 1974 i liberali radicali ticinesi, coi socialisti, avevano istituito la scuola media, che avrà pure tanti difetti, ma che continua a rappresentare una grande conquista politica e sociale. La scuola maggiore era certamente un’ottima scuola, mentre azzerare il ginnasio fu una decisione davvero liberale e radicale, benché la scuola media, col passare degli anni, somigliò più al secondo che alla prima. Tra l’altro il relatore di maggioranza in Gran consiglio era stato il liberale radicale Diego Scacchi. E, a proposito di amnesie vere o di comodo, anche la Legge della scuola del 1° febbraio 1990 era nata con il sostegno convinto dei liberali radicali e del Consigliere di stato Giuseppe Buffi. E comincia con ben altre finalità rispetto allo slogan di oggi, La scuola dell’obbligo annaspa: torniamo alla missione principale.

Quale sarebbe allora la missione principale della scuola? Quella delle Competenze di base, competenze di base, competenze di base? Quella che Gli allievi alloglotti dovrebbero ricevere lezioni intensive nella lingua d’insegnamento prima di entrare in una classe tradizionale? Quella che Le note scolastiche devono essere mantenute e i tentativi ideologici di abolire le note devono essere respinti? Quella che Più Svizzera in classe e Tolleranza zero per i fondamentalisti? Suvvia: se davvero si vuole così pacchianamente abbandonare quell’ideologia che tanto ha prodotto in anni neanche troppo lontani, si abbia almeno l’audacia di manifestare a chiare lettere che si è cambiato idea, perché quell’idea del secolo scorso, secondo loro, ha prodotto riforme ormai alla canna del gas.

E allora se l’ideologia – oh che brutta parola! – non c’è più andate in parlamento e combattete come leoncelli per aggiustare quel che si può, mandate a gambe all’aria tutto quanto e restaurate secondo il vostro millantato «metodo liberale» (neutro, neh!). Gli alleati politici, quelli ideologicamente vicini a voi, non mancheranno.

 

Scritto per Naufraghi/e

Si guarda la pistola, non si vede il dramma

Come scriveva don Milani, “La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde”. Occorre chiedersi perché.

Tio.ch, lunedì 3 giugno, ore 11:47. Imponente operazione di polizia, evacuata la Commercio. Alla scuola cantonale di commercio è in corso un’imponente operazione di polizia. Secondo nostre informazioni, l’intervento in forze di numerose pattuglie della Cantonale sarebbe stato provocato da un ragazzo di prima commercio che in aula avrebbe tirato fuori una pistola e l’avrebbe puntata contro una docente. Ore 12:51. La polizia conferma: «Docente minacciata da un allievo». Fermato un minorenne. L’allievo è stato fermato verso le 11.30 all’interno dell’Istituto scolastico. Non vi sono feriti. Sono in corso gli accertamenti del caso e pertanto per il momento la struttura scolastica rimane chiusa. Ore 15:07. Le minacce all’improvviso e poi il caos.

Ha scritto su laRegione Tommaso Soldini, scrittore e docente, presente alla “Commercio” in quei momenti di sconcerto: «La difficoltà delle giovani generazioni è palpabile; lo vediamo in classe noi docenti, ne è precisa testimonianza la presenza degli sportelli di mediazione, così come il fitto ricorso al servizio medico-psicologico, ma anche il largo uso di farmaci che molti studenti non nascondono di assumere. Un ragazzo che impugna un’arma quasi vera per scongiurare una bocciatura, però, non fa riflettere solo sul disagio psichico, direi che mette l’accento anche sul ruolo della scuola, che è e resta quello di formare, educare alla cittadinanza, al pensiero critico, e ad affacciarsi in modo consapevole al mondo del lavoro» (Quattro mura e un calcio di pistola, laRegione 11.06.2024). L’articolo si chiude con una poesia che Soldini dice di aver ricevuto da un suo ex studente.

Parrebbe intitolarsi Quattro mura, che sono le mura dell’aula dove abbiamo imparato la grammatica / di quattro lingue diverse; / perché più è meglio. Sono le quattro mura dove incombe ininterrottamente una valutazione, che è la metratura di competenze e incompetenze, e nel contempo giudizio individuale sulla tua umanità. E succede di tutto, nei ricordi del poeta: chi è bocciato col 2 in tedesco perché beccato a copiare; chi se ne va, e non torna, per un attacco di panico, perché non ci si può mostrare deboli; chi può soffrire per quattro anni e medita il suicidio; chi a sedici anni non ha tempo per la terapia; chi è uno dei tanti ragazzi preoccupati, perché a giugno lo sai.

Quelle quattro mura,
dove oggi un ragazzo
ha tirato fuori una pistola
per rabbia,
che forse era paura,
che forse era tristezza,
che forse era angoscia,
di non avere un futuro.

Mi chiedo se il tangibile disagio psicologico e sociale che vivono tanti giovanissimi non dipenda anche dalla scuola che sono obbligati a frequentare almeno per undici anni: in fondo è un lungo e importante periodo in cui trascorrono più tempo a scuola che a casa. Ha osservato don Milani che bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo. E ha aggiunto: La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde.

L’ho scritto tante volte, l’ultima proprio in questo blog (La scuola è un luogo dove bisogna poter sbagliare senza correre rischi): «Le valutazioni sono espresse con note numeriche in tutta la scuola dell’obbligo, a partire dall’elementare. La scala va dal 3 al 6, con la sufficienza dal 4 in su. Con questi numeri e coi loro mezzi punti si fanno le medie. Una media che può decidere il futuro di un quindicenne è quel 4.65 tra tutte le materie, senza il quale non si accede al liceo. Si potrebbe supporre che il metodo sia semplice quanto scientifico. Per fare un esempio, se tu hai 6 in italiano e 3 in matematica significa che vali mediamente 4 ½. In realtà sei bravissimo in italiano e non capisci un’acca in matematica: questo dicono i numeri. Ma non solo. La scala delle note scolastiche non ha intervalli identici e regolari. Il metro del falegname è sempre lungo un metro, anche se ha la luna storta».

Invece la scuola continua imperterrita a difendere questo modello di frammentazione delle materie scolastiche, convalidato da un modo iniquo per misurare gli apprendimenti di ognuno. A chi galleggia perennemente al limite della sufficienza o si affanna nella melma di un cupo fallimento si dice che non studia, non è tagliato, non è al suo posto, per lo più senza nemmeno accorgersi che ogni insufficienza può essere un colpo di pistola che ti ammazza il futuro. Non ci pensa nessuno, si preferisce credere che le insufficienze siano giuste, addirittura scientifiche.

Nessun futuro (dell’artista di strada Banksy).

Non si può fingere di ignorare che la condizione socioeconomica di ogni studente sottoposto a valutazioni scolastiche ha un impatto considerevole sul valore scolastico decretato dagli insegnanti e dalla scuola. Tanto per dire: In matematica, in Ticino, in Svizzera e nella media OCSE, si osserva che chi ha un’elevata condizione socioeconomica e culturale ottiene un punteggio medio nettamente superiore rispetto a chi ha una condizione socioeconomica inferiore (PISA Ticino 2022).

Non è più il tempo, dunque, dell’ipocrisia, dello stupore e degli schiamazzi morali a mezzo stampa. Dopo tanti proclami la scuola faccia qualcosa, senza più dare ascolto al canto delle sirene dell’economia.

Scritto per Naufraghi/e

La rete che pesca nella nostra infanzia e adolescenza

Da anni si lanciano anatemi o si predica il libero accesso dei più piccoli a internet e smartphone; ma il mondo della scuola non ha affrontato seriamente il rapporto fra educazione e rivoluzione tecnologica

È sotto gli occhi di tutti che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno cambiato il nostro modo di vivere. Il ’900 è stato il secolo di due guerre mondiali, ma anche un periodo di mutamenti inimmaginabili. Avevo otto anni quando Jurij Gagarin volò nel cosmo, un’orbita completa attorno alla Terra. Ne avevo sedici l’anno del primo allunaggio. Poco più che trentenne misi per la prima volta le mani sulla tastiera di un Macintosh 128K. La memoria media di uno smartphone, che oggi ci accompagna dappertutto come un ipertecnologico coltellino svizzero, è di decine di milioni di volte più grande.

Secondo lo  psicologo sociale Jonathan Haidt, che Naufraghi/e ha ripreso da un articolo pubblicato dal portale Infosperber, dopo il 2010 è iniziata la fine dell’infanzia: «Le persone nate dopo il 1995 vivono un’infanzia completamente diversa perché varie invenzioni risalenti al 2010 hanno cambiato radicalmente le nostre vite. Soprattutto le piattaforme di social media e l’accesso costante tramite smartphone, che finirebbero per modificare il cervello dei bambini e dei giovani. A differenza di alcuni suoi colleghi – prosegue l’articolista –, Haidt vede una connessione diretta tra la diffusa introduzione di queste applicazioni e i crescenti problemi psicologici dei bambini e dei giovani in tutto il mondo».

I fattori che entrano in gioco sono chiaramente tanti. Nasciamo con alcune capacità innate, alcune delle quali si svilupperanno nel tempo, grazie all’esperienza concreta delle relazioni sociali e dell’apprendimento. Imparare a camminare è un processo difficile, così come non si impara a parlare e a comunicare se non si è esposti a stimoli e modelli adeguati. Tuttavia la maturazione dei cuccioli di Homo sapiens non terminerà a dieci anni:  ben altri cambiamenti aspettano ragazzine e ragazzini, che, attraverso quel complicato percorso che si chiama adolescenza, diverranno adulti. Va da sé che, già a partire dalla venuta al mondo, saranno indispensabili tutte le esperienze sociali, biologiche e culturali da affrontare con la più grande serenità possibile, nel mondo reale e non certo in quello virtuale.

Bambini, ragazzi e adolescenti devono avere il tempo per crescere, anche con la mediazione di genitori e maestri, senza che questi adulti colonizzino ogni minuto delle loro giornate. L’ozio è un diritto, come giocare a biglie improvvisandone le regole, costruire castelli con dei cubetti di legno, sfogliare un libro illustrato, fare scorrere le biglie colorate del pallottoliere, sognare di dirigere un circo, ascoltare le storie della nonna e avere paura pur sapendo come andrà a finire, giocare la finale dei mondiali di calcio in due, con discussioni accese a sapere se il pallone era passato sopra o sotto un’asta inesistente: Svizzera-Italia nel cortile di casa.

Invece, già da qualche anno, siamo alla dipendenza dagli schermi, indipendentemente dai contenuti che si trovano sul web, dalle enciclopedie alle botteghe, da blog di alto valore scientifico e culturale alla marea di pornografia (da cui bisognerebbe “non farsi fottere”, per citare la giornalista Lilli Gruber), dalle arti alla scienza, dai giochi interattivi al di tutto di più.

Basti citare pochi dati proposti dalla Fondazione Dipendenze | Svizzera: l’88% della popolazione dai 15 anni in su utilizza internet almeno una volta alla settimana; tra i 6 e i 13 anni la percentuale è già del 63%, e il 43% possiede un telefono cellulare; tra 12 e 19 anni il 99% ne fa uso più di una volta a settimana. Tra gli 11 e i 15 anni il tempo medio trascorso davanti allo schermo durante una giornata scolastica è di 4 ore e mezza, ma diventa di 8 ore durante i weekend.

E i bambini dove sono? La risposta è: su TikTok!

Ora c’è chi vuole porre dei limiti. A fine aprile una commissione di esperti, incaricati dal presidente francese Emmanuel Macron di determinare il corretto utilizzo degli schermi da parte dei nostri figli, ha rassegnato il suo rapporto, che ha messo in evidenza diverse criticità e formulato alcune raccomandazioni: nessuna esposizione agli schermi per i bambini di età inferiore ai tre anni; uso sconsigliato fino a sei anni, o limitato, occasionale, privilegiando i contenuti educativi con la presenza di un adulto; esposizione moderata e controllata a partire dai sei anni; nessun telefono cellulare prima degli undici anni; nessuno smartphone prima dei tredici anni; nessun accesso ai social network prima dei quindici anni; accesso solo ai social network “etici” dopo i quindici anni. La République intende legiferare in quella direzione e già altri Stati stanno battendo vie analoghe.

L’unica cosa fin qui certa è che siamo di fronte a un disastro delle istanze educative, che non sono solo la scuola, ma comprendono i media e la politica, per finire dentro le famiglie, indipendentemente dal livello socio-economico. Da anni si disquisisce, si minaccia, si lanciano anatemi, ognuno con la sua soluzione, spaziando tra l’incondizionato laissez faire e il più rigoroso e totale controllo censorio. Basti pensare che sono gli stessi genitori, di solito, a finanziare con orgoglio l’acquisto di smartphone, computer e tablet ai pargoli, ma non li si può incolpare di nulla. Sin dalla comparsa dei primi computer, la scuola ha cominciato a rincorrere il presente e a introdurre macchine e applicazioni nelle sue dottrine, fino a farsi travolgere. In nessun momento il mondo della pedagogia ha scelto di affrontare una riflessione epistemologica sul rapporto tra la formazione, l’educazione e l’allora imminente rivoluzione digitale: a partire dalla sua rilevanza pedagogica e al suo contributo alla costruzione di una conoscenza solida e pertinente.

Alla faccia di quella scuola che dovrebbe promuovere lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà.

 

Scritto per Naufraghi/e

Una scuola “a chilometro zero” che non diventi “insegnificio”

Progetti di riorientamento della scuola dell’obbligo passano anche da un’idea di sede scolastica che a livello dei comuni potrebbe trovare forse più facilmente, nella prossimità, qualche esempio originale e innovativo

La scuola non è solitamente un tema da elezioni comunali, sempre che non ci siano in ballo nuovi edifici scolastici da erigere. Ho vaghi ricordi di una polemica locarnese alla fine degli anni ’60. La città mandava storicamente i suoi allievi nella sede di Piazza Castello, ove oggi c’è il Palacinema; a Solduno, nell’allora nuova sede; e nella piccola sede dei Monti. Ma urgevano tante aule nuove, perché la popolazione stava crescendo rapidamente, sulla scia del boom economico e demografico. La soluzione proposta dal municipio spaccò in due la città. Si fronteggiavano i fautori di un edificio classico, su più piani, a immagine della sede originaria, e i sostenitori della proposta municipale, che puntava a una pedagogia nuova, bisognosa di una concezione architettonica di rottura col passato, per favorire e stimolare la scuola attiva, col bosco lì fuori, uno spazio di sperimentazione, aule autonome, ampie e luminose: una sorta di impressionismo pedagogico ispirato da quegli anni di grandi cambiamenti. In consiglio comunale prevalse l’impostazione innovatrice, così sorse la sede dei Saleggi, progettata dall’arch. Livio Vacchini.

Poi è andata come è andata, perché non è sufficiente un’architettura al servizio di una coerente pedagogia progressista per praticare per davvero la scuola della cooperazione, della curiosità, dell’educazione alla cittadinanza. La chiamano in tanti modi – école nouvelle, scuola attiva, pedagogia moderna, … – è nata oltre cento anni fa, ma non è ancora riuscita a seppellire quel modello selettivo e cattedratico edificato attorno alle note fin dal tempo dei preti che insegnavano l’ABC. Per dire che anche in una scuola fondata sull’apertura si può facilmente praticare la chiusura – a volte basta tirare le tende. È un po’ quello che, al contrario, fece Fernand Oury nella sua scuola-caserma di La Garenne-Colombes (ne abbiamo scritto in questa sede lo scorso mese di febbraio).

Ma cosa può fare il Comune, visto che le norme attuali lo racchiudono in un recinto esclusivamente amministrativo? Anche la scuola dei comuni ha spazi di manovra nelle sedi e nelle aule di sua competenza. Il Piano di studio della scuola dell’obbligo è molto prescrittivo, ma è talmente complesso e prolisso che, ignorandone l’approccio un po’ “bancario”, si presterebbe meravigliosamente alla realizzazione di una scuola più umanista, senza neanche contraddire quella “scuola delle competenze” di cui il Piano fa sfoggio. In questo anche i comuni, in stretta collaborazione con i professionisti che operano nelle loro scuole, potrebbero contribuire a far nascere occasioni preziose per valorizzarne l’attività.

Per esempio, potrebbero sviluppare altri percorsi assai «educogenici», come la scuola all’aperto, a contatto con la natura e con la curiosità infantile dello scienziato, tramite le scuole nel bosco e i periodi di scuola fuori sede, senza scordare le tante occasioni fuori dall’aula offerte dall’ambiente circostante. Penso anche alla musica, alla poesia, alla pittura, alla scultura, alla danza, al fumetto, al teatro, al cinema, attività che possono richiedere costi anche importanti, vuoi per gli spostamenti, vuoi per l’accesso a strutture come i musei o i teatri: perché in sede o in classe non si può far tutto.

Scuola all’aperto. L’immagine è tratta da Silviva, Imparare all’aperto – con e nella natura.

Su un altro piano, poi, i comuni devono essere vigili nel difendere l’esistenza della propria scuola. Nel 2018, per dire, gli allora deputati Nicola Pini e Giacomo Garzoli avevano presentato un’iniziativa parlamentare per modificare un articolo della legge sulle scuole comunali concernente il numero di allievi necessari per istituire o mantenere una classe, tenendo conto che, in qualche caso, un’unica classe significa la presenza della scuola. «La scuola dell’infanzia e la scuola elementare – scrivevano i due politici – rappresentano un elemento di vitalità senza il quale una regione sembra davvero destinata a morte certa dal profilo culturale e comunitario». Proponevano così di prestare particolare attenzione al contesto socioeconomico e alla morfologia territoriale per non sopprimere fatalmente le piccole scuole di paese.

Ma la tendenza a chiudere le scuole non si è attenuata, anzi. Giusto un anno fa il Consiglio di stato aveva sottoposto al parlamento la proposta di adozione di una nuova legge, che contempla pure il concetto di Istituto scolastico minimo. Per essere riconosciuto come tale l’istituto dovrebbe avere una dimensione adeguata: «due su tre dei criteri seguenti: sette sezioni al minimo, 150 allievi al minimo, popolazione di riferimento di almeno 2’500 abitanti» (v. Quando la scuola pensa al minimo). Poche settimane fa il governo stesso ha ritirato questa proposta di legge, almeno per ora.

La concentrazione di allievi in istituti minimi ed efficienti, all’inseguimento di risultati da classifica mondiale – contro le pluriclassi, la scuola serena, la presenza capillare ed ecologica, cioè senza troppi trasporti giornalieri tra casa e scuola – rischia di trasformare la scuola in un insegnificio, quasi un non-luogo, per usare la definizione dell’antropologo Marc Augé: spazi impersonali, globalizzati, magari nascostamente competitivi. Una non-scuola, insomma, se per scuola vogliamo ancora intendere quell’Istituzione che il nostro parlamento ha così ben definito nel 1990, con una impegnativa definizione delle finalità della scuola.

Scritto per Naufraghi/e

MARC AUGÉ, Nonluoghi, 2023, Elèuthera (Edizione originale: Non-lieux, introduction à une anthropologie de la surmodernité, 1992)

Dai margini dell’aula: esperienza, pensiero critico e qualche nota fuori dal coro