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Al tavolo della scuola “à la carte”

Ci mancava anche questa. Qualche settimana fa una ventina di parlamentari di diversi partiti, capeggiata dal deputato Massimo Ferrari (PPD), ha presentato una mozione per stimolare la scuola ad occuparsi seriamente degli allievi superdotati – di quegli allievi, cioè, che Madre natura ha voluto equipaggiati di un potenziale di genialità assolutamente al di sopra dei normali standard intellettuali. Secondo gli autori dell’irrinunciabile atto parlamentare, è giunto il momento che anche il nostro Dipartimento dell’Educazione (e della Cultura e dello Sport e di chissà cos’altro ancora, se andiamo avanti di questo passo) si occupi seriamente di tutta quella schiera di presumibili piccoli premi Nobel che circolano per le nostre contrade. Come? Imparando a riconoscerli, formando docenti specializzati che possano fungere da consulenti dei titolari, inventando opportune strategie per promuovere i talenti e, per terminare, autorizzando l’inizio prematuro della scuola o il salto di classe. Aggiungerei: e prevedendo schiere di funzionari dipartimentali che sottopongono a esami specifici tutti i pargoletti pretesi genî da trepidanti genitori. Tutto sommato avrei preferito la strada più diretta, che è quella imboccata da qualche cantone svizzero-tedesco e da alcune agenzie scolastiche private in giro per l’Europa: le famose classi per i superdotati, dove insegnanti dall’altissimo potenziale pedagogico ti lasciano di stucco con acrobazie dell’ingegno che neanche il Circo di Montecarlo…
Intendiamoci: non oso affermare che la scuola pubblica non debba occuparsi come si conviene di quei pochi fortunati individui che hanno un potenziale cognitivo elevatissimo. Ma la realtà è purtroppo un’altra e da alcuni chiari segnali sembrerebbe che la scuola si addentri sempre più in una logica bottegara, dove una serie di derrate scolastiche sono esposte in bella mostra a disposizione di chi può. In fondo abbiamo già le scuole speciali per i meno fortunati, e se il governo seguirà le suggestioni della mozione in esame avremo anche una seconda scuola speciale, ovviamente agli antipodi. Avremo così risolto i problemi delle due fasce estreme della curva di Gauss. Nel frattempo abbiamo già creato le strutture scolastiche per gli sportivi d’élite, ma in futuro si potrebbero escogitare altri reparti specializzati per andare incontro alle legittime esigenze di chi il proprio figlio lo sogna medico o principe del foro, astrofisico o romanziere di successo, presidente del Governo o vincitore della Vuitton Cup: perché perder tempo con la lingua madre se voglio che mio figlio diventi un emulo di Totti?
Intanto una notizia d’agenzia riferisce di una campagna lanciata in Francia dalle scuole cattoliche: “A sorpresa, si riapre in Francia il dibattito sulle classi miste a scuola: maschi e femmine insieme, una conquista acquisita nei primi anni Sessanta, non ha dato grandi frutti. Quarant’anni dopo, sessismo, aggressività e crisi d’identità dei maschi ripropongono problemi che il tempo ha lasciato irrisolti”. Per dividere i bravi dai cattivi, i belli dai brutti, i ricchi dai poveri c’è comunque tempo: basta un po’ di pazienza.
Mi pare innegabile che questa sorta di assalto alla diligenza è per lo meno una spia della crisi d’identità in cui si dibatte l’istituzione e, conseguentemente, la sua scuola. Per tornare al tema dei “superdotati”, non si può negarne l’esistenza, così come ci si deve rendere conto che anch’essi – come d’altronde tutti gli altri – hanno esigenze particolari. Ma se la scuola (pubblica) è (ancora) “un’istituzione educativa al servizio della persona e della società” il cui scopo primario è quello di “promuovere lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà” attraverso l’interazione “con la realtà sociale e culturale”, allora l’applicazione di norme liberiste alla scuola non farà che accentuare competitività e selezione socio-economica e culturale: ciò di cui – francamente – non si sente proprio il bisogno, tanto che – ricordate? – i ticinesi avevano chiaramente declinato l’invito a sedersi al tavolo (sussidiato) della scuola à la carte. Era il 18 febbraio di due anni fa. Altri tempi.

Invece, e più correttamente, occorrerebbe avere finalmente il coraggio di metter mano a quelle importanti riforme strutturali evocate da almeno un decennio e continuamente insabbiate sotto una montagna di pretesti: di certo una scuola ancorata alla certificazione annuale, a griglie orarie assurde e desuete, alla pedagogia dell’espe, non può in nessun modo rispondere a esigenze sempre più differenziate: malgrado tutta la buona volontà di chi, dentro l’aula, cerca davvero di dare il massimo ad ogni suo allievo, nel rispetto del gruppo e del Paese. Ma sta diventando un ruolo sempre più donchisciottesco.

Alla ricerca di insegnanti di latino…

Devo qualche plausibile chiarimento ai sette tenaci lettori di questa rubrica, con i quali non intrattengo la quindicinale chiacchierata virtuale da oltre un mese. Non ero in vacanza, ma le ultime settimane son scivolate via senza particolari sussulti, ad eccezione di un paio d’avvenimenti stuzzicanti, che mi avevano ispirato due pezzulli. In prima battuta, prendendo spunto dalle vicissitudini d’inizio marzo del FC Lugano, mi ero cimentato con il rapporto un po’ incestuoso che intercorre tra le gesta degli sportivi attivi e il cicaleccio quotidiano dei loro cantori; poi avevo tentato di inserirmi nel tormentone che sta pungolando i pruriti del basso Ticino, confrontato con le piccanti imprese di quell’ispettrice scolastica che, secondo il Dipartimento, avrebbe compiuto atti definiti sconvenienti, e anche un po’ indecenti, con un’altra persona adulta bendisposta, nientepopodimeno che in un locale dell’amministrazione pubblica. Insomma: avevo supposto – sicuramente a torto, ma non è detto… – che tali accadimenti potessero in qualche modo prestarsi per un discorso critico su quanto di pedagogico esiste fuori dall’aula.
Ho desistito. Anch’io ho i miei lettori preventivi, dei giudici di prima istanza che mi hanno convinto, con modi suadenti, a ruspare nel mio pollaio, nell’attesa che le acque si calmassero e mi consentissero d’andare a grufolare nei pantani altrui: si può immaginare la situazione, ed eccomi dunque alle prese con un tema più fedele alla dottrina.
Di questi tempi le famiglie degli allievi di II media sono confrontate con decisioni che avranno un peso determinante, e di solito senza possibilità d’appello, sul futuro non solo scolastico dei propri figli. Di che si tratta? Come molti sapranno, la scuola media – che è scuola dell’obbligo, nel senso che tutti la frequentano coattivamente – è divisa in un primo biennio più o meno uguale per tutti, ed un secondo che statuisce in maniera di solito irreversibile chi potrà votarsi agli studi superiori e chi, invece, dovrà consacrarsi alle arti e ai mestieri. Ecco quindi che, giunti nel bel mezzo del cammin mediano, le famiglie devono disporre l’iscrizione ai corsi di base o ai corsi attitudinali di francese, tedesco e matematica: coi secondi – e alla precisa condizione di ottenere buone note – fra due anni si avrà l’accesso automatico alla scuola media superiore, autostrada per l’università; mentre coi primi ci si ritrova su una strada di campagna, dove, com’è risaputo, non si può smanettare a piacimento. Naturalmente i genitori non hanno molto da scegliere, perché a) il consiglio di classe offre disinteressatamente i propri preziosi consigli e b) per accedere ai corsi attitudinali bisogna ottenere almeno 4.5 nelle discipline scelte: si può quindi intuire cosa può capitare a quel genitore un po’ grullo, che iscrive il pargolo ai corsi attitudinali contro il parere dei chierici.
Il tutto, quindi, si delinea come un’enorme impostura, che fa a botte non solo con le capacità intellettive dei padri e delle madri, ma anche con i proclami che accompagnano la scuola media sin dalla sua nascita. Certo, si può sempre affermare – come molti ritengono vero e giusto – che è difficile estrarre oro da una zucca, soprattutto se vuota; e che se un dodicenne non è in grado di penetrare – che so? – i misteri dell’algebra o le declinazioni teutoniche, è inutile che s’illuda: per intanto seguitiamo ad aver bisogno anche di umili artigiani.
Nella scuola media vi è poi un terzo tronco, che potremmo definire super-attitudinale, destinato a quei quattro gatti che durante il primo biennio hanno vissuto sugli allori, in virtù di qualche capacità innata, di un pizzico d’astuzia e di una famiglia attenta allo svolgimento dei compiti a casa: giunti a ’sto punto a suon di medie imponenti, gli si suggerisce di iscriversi al corso di latino, che in III media è facoltativo e si svolge sull’arco di cinque lezioni settimanali, che fanno economizzare un’ora di italiano, una di francese, una di tedesco e una di… ginnastica o di disegno. Quale logica si celi dietro questa politica da ragioniere è difficile capirlo. L’unica cosa certa è che la scuola media diverrà scuola eccezionale (e, quindi, non più mezzana) il giorno in cui si sarà capito che la vera conquista della scuola pubblica e obbligatoria sarà, metaforicamente, il latino alla portata di tutti, col suo corollario di logica e storia e diritto e scienze umane: un reale zoccolo duro su cui costruire quell’educazione alla cittadinanza con cui tutti i dotti si riempiono la bocca, ma che solitamente finisce per fracassarsi sulla stucchevole e un po’ rancida ora di civica. Verrà il tempo in cui qualcuno dovrà pure insorgere contro questo stillicidio sociale e culturale consumato dallo Stato, che pretende di darsi un futuro sulla pelle dei dodicenni: a ogni buon conto per ora scarseggiano gli insegnanti di latino.

Perché ci vuole orecchio

La scuola è un argomento che tira. Lo dimostrano l’appena conclusa consultazione sulla riforma dell’insegnamento delle lingue proposta dal DIC, così come la votazione di un anno fa. Era praticamente dal ’68 che non ci si scaldava più tanto: forse siamo di fronte ad una svolta epocale, il che può essere di conforto, anche se il livello del dibattito, alle nostre latitudini, non è tra i più elevati in Europa e desta qualche seppure impercettibile apprensione.
Esattamente un anno fa il Ticino era andato alle urne sul finanziamento alle scuole private, respingendo seccamente l’iniziativa popolare. Anche in quel frangente il dibattito tra fautori e detrattori era stato ampio e agguerrito. Allora come oggi, però, non si era capito bene quale fosse il modello di scuola auspicato dai pro e dai contro, tanto che il fronte dei partigiani della privatizzazione aveva utilizzato l’icona di Stefano Franscini per la propria propaganda, sollevando le ire del fronte opposto, che si reputava l’unico depositario dell’idea repubblicana sostenuta nell’800 dallo statista leventinese. Ora, con la vertenza sulle lingue da insegnare, siamo daccapo, anche se i fronti sembrano essersi rimescolati.
È sempre difficile, in effetti, capire quale scuola si voglia, quali progetti si celino dietro le singole prese di posizione sul finanziamento, sulle mense, sull’inglese e via di questo passo. Prendiamo i collegi dei docenti delle scuole cantonali, le cui dichiarazioni sono diventate un must: evidenziano il loro essere al servizio dell’intero Paese, frignano se c’è qualche franco che rischia di prendere destinazioni diverse, si oppongono ad ogni minimo cambiamento e – alla faccia della scuola di tutti – continuano imperterriti ad esercitare il ruolo di braccio selettivo della finanza e dell’economia. Come non leggere tra le righe un’indegna difesa corporativistica?
Ha ragione, quindi, l’attuale presidente della commissione scolastica del Gran Consiglio, che dichiara ad un foglio domenicale: “Io credo che a decidere quali lingue si devono studiare a scuola non dovrebbe essere lo Stato né il DIC, bensì la società, il mercato”. Patapumm! Questo vuol dire parlar chiaro: il signor Claudio Bordogna dev’essere uno che ha orecchio e che, conseguentemente, ha inteso cos’è lo Stato, e non confonde una stecca con una geniale armonia. Intendiamoci, non si capisce se per Bordogna società e mercato siano la stessa cosa, oppure se l’una è complementare all’altro; ma ciò che conta è il significato generale del Bordogna-pensiero – che è poi il pensiero di molti, soprattutto dopo che il Dipartimento dell’istruzione e della Cultura si è adeguato, negli ultimi anni, all’idea di una scuola di servizio.
A questa stregua si potrebbe immaginare, in un futuro prossimo, di differenziare maggiormente l’offerta sin dalla scuola dell’infanzia, in modo da esaudire i sogni educativi dei genitori, specie da quando il mitico doposcuola – che sta proliferando un po’ in tutto il Cantone – ha sempre più connotazioni scolastiche (Non c’è l’inglese nei programmi scolastici? E allora la scuola organizzi il doposcuola!). Oltre agli indubbi risparmi (ottenibili con l’eliminazione di certo vecchiume dai programmi), non vi sarebbero più genitori insoddisfatti e rompiscatole, non dovremmo più preoccuparci del numero di allievi per classe e l’assunzione dei docenti avverrebbe a scadenze periodiche, in base alle richieste del mercato. Insomma: dopo la tassa sul sacco (chi consuma paga), si potrebbe cominciare a progettare la tassa sul banco, il che permetterebbe nuovi inevitabili sgravi fiscali, qualche licenziamento e, soprattutto, grane al ribasso. Con le leggi del mercato portate a questo livello, perché non architettare, dopo un doveroso periodo di prova, la tassa sul fucile d’assalto o quella sul decreto d’accusa? Perché, insomma, non studiare la possibilità di sottomettere anche l’esercito e la giustizia alle leggi del mercato?
Erano anni che il dibattito sulla scuola – anzi: sulla Scuola – non si spingeva più a simili altezze, ed è legittimo chiedere al presidente della commissione scolastica e ai suoi accoliti cosa aspettino a chiedere l’irrimediabile modifica delle finalità della Legge della scuola, scuola che – secondo il Parlamento cantonale – deve promuovere “…lo sviluppo armonico di persone [Tutte?] in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà”. Con l’applicazione delle leggi del mercato anche alla scuola, all’esercito e alla giustizia, plasmeremmo senz’altro una nuova aristocrazia, con il piccolo pregiudizio di quei concittadini che resterebbero sempre off. Ma il mercato non avrebbe problemi a smaltirli: in fin dei conti c’è sempre un gran bisogno di braccia.

Lingue e scuola: davvero ci capiremo meglio?

Cosa si cela per davvero dietro tutto il gran discutere attorno alla politica delle lingue e del plurilinguismo? Il Dipartimento Federale dell’Interno ha presentato l’avamprogetto della “Legge federale sulle lingue nazionali e la comprensione tra le comunità linguistiche”; dal canto suo, il nostro Dipartimento dell’Istruzione e della Cultura ha messo in consultazione le sue proposte di modifica della politica d’insegnamento delle lingue.
Gli oggetti del contendere sembrerebbero essenzialmente due: difendere le lingue nazionali come elemento che, nelle mire di Berna, dovrebbe rafforzare la comprensione tra le diverse regioni linguistiche, e dar via libera all’inglese, che oggi sta diventando un po’ come il latino ai tempi di Carlo Codiga. Non si tratta, oggettivamente, di un soggetto semplice e, manifestamente, gli appigli per tirare l’acqua al proprio mulino non mancano, tanto da portare il Consigliere di Stato Gabriele Gendotti a rilevare che “la preoccupazione del Dipartimento non è quella di accontentare tutti, ma di permettere al maggior numero di giovani di approfittare di un insegnamento che renda meno problematico il loro primo approccio con la realtà che li accoglie una volta lasciata la scuola”. Tutto il dibattito soffre però di una tara che è fonte di qualche abbaglio.
Per prima cosa, non si può fingere che con la conoscenza, oltre all’italiano, di una seconda lingua nazionale, sia possibile essere capiti indifferentemente a Losanna o a Frauenfeld. Per regola costituzionale, in tutta la Svizzera tedesca si insegna il francese come lingua obbligatoria a partire dai 9/10 anni; specularmente, la medesima regola è osservata in Romandia. Come nei romanzi appena un po’ avvincenti, però, anche qui la trama non è così lineare. Se avete già tentato di chiacchierare in francese con un basilese normale o in tedesco con uno di Le Locle, capirete cosa intendo (e senza scordare che è nondimeno imprudente attaccar bottone in tedesco con uno di Brüttisellen, che ribatterà con un impeccabile Schwitzertütsch, la sua vera lingua madre). Questo perché romandi e svizzerotedeschi non vivono in riserve indiane da proteggere e non hanno quindi bisogno di investire più di tanto per l’apprendimento della lingua confinante – ecco perché Zurigo ha già saltato il fosso, soppiantando anche de iure il francese a favore dell’inglese.
Da noi, per forza di cose, sono obbligatorie entrambe le lingue nazionali (con buona pace del rumantsch), e con i ritocchi proposti dal DIC, entro la quarta media ogni allievo ticinese dominerà l’italiano e sarà provvisto di una bastevole capacità comunicativa per trarsi d’impaccio a Lione come a Colonia o a Birmingham – e ovviamente anche a Gurtnellen e a Chavornay.
Sarà poi vero? Già oggi il francese e il tedesco sono pezzi d’artiglieria assai precisi, puntati contro un gran numero di allievi delle medie. Molti di loro non riusciranno a conquistare i livelli che permetterebbero realmente di ampliare le proprie scelte di vita al termine della scuola media, proprio perché falcidiati da tali micidiali munizioni. Fra un anno o due, c’è da contarci!, la nuova arma lascerà sul campo di battaglia altri caduti, e il divario tra chi potrà proseguire gli studi e chi ne sarà impedito, si dilaterà oltre i livelli che già oggi sono inquietanti.
Nel contempo gli universitari ticinesi che frequenteranno gli atenei svizzerotedeschi e i giovani impiegati degli istituti bancari spediti a impratichirsi oltre Gottardo, andranno avanti imperterriti a subire lo Schwitzertütsch per poter scampare. Ma – soprattutto – tutti noi continueremo a coltivare l’incomprensione e la xenofobia latente: perché quel percorso di guerra che è oggi la scuola media persisterà senza titubanze nell’annientare i ragazzi più svantaggiati, ma non avrà insegnato la Storia neanche ai più capaci (o ai più scaltri). Forse la coesione nazionale ne uscirebbe davvero consolidata, se appena ci rendessimo conto dell’importanza di conoscere la nostra storia, le nostre culture, le nostre mentalità: che non sono, di per sé, vincenti o perdenti, neanche a quel livello economico che si nasconde surrettiziamente tra le pieghe del dibattito sulle lingue.