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L’ineffabile indifferenza alle differenze

Checché ne dicano i tanti darwinisti dell’educazione, diffusi anche da noi, uno dei problemi principali della scuola dell’obbligo resta quello della lotta all’insuccesso scolastico. Com’è noto ai più, fallire la scuola elementare o media non è solo una questione di materia grigia: lo si sa quasi da sempre che più si scende la scala sociale, più ci si avvicina alla possibile bocciatura, indipendentemente dal quoziente intellettivo. Non tutti nascono con la camicia, e già quella è scalogna. Ma al tracollo possono contribuire cattivi insegnanti, maestri particolarmente selettivi e insensibili alle necessità dei singoli; oppure ancora motivi strutturali, tra i quali si citano, non sempre a proposito, il numero di allievi per classe o la presenza di insegnanti speciali, come il docente d’appoggio o quello di sostegno pedagogico. Onestamente, però, non è lecito individuare un unico aspetto attorno al quale erigere tutta l’impalcatura per sconfiggere l’insuccesso scolastico. Un maestro incapace e/o pelandrone resterà tale con quindici o con venticinque allievi. Eppure la tendenza generale continua a dividersi in due fazioni distinte: di qua vi sono coloro che auspicano un bel salto nel passato, quando il figlio dell’avvocato poteva solo avere successo, mentre quello dello spazzino stava lì a boccheggiare, senza riuscire a colmare il distacco. Di là, invece, c’è la schiera di quelli che, incuranti delle tante variabili in gioco, risolverebbero tutto con misure strutturali: la diminuzione del numero di allievi per classe, il potenziamento del sostegno pedagogico, la lotta alle pluriclassi e via elencando.
A partire dagli anni ’70 il Canton Ginevra si era mosso proprio nella direzione che molti vorrebbero imboccare anche in Ticino. Forte di un consenso diffuso tra operatori scolastici, uomini politici e genitori, Ginevra aveva avviato un’importante riforma delle sue scuole elementari, caratterizzata da una significativa diminuzione del numero di allievi per classe e da un altrettanto notevole potenziamento del servizio di sostegno pedagogico. Vent’anni dopo, tuttavia, il Servizio della ricerca sociologica aveva constatato che l’insuccesso scolastico era diminuito solo in maniera molto parziale e che, inoltre, la percentuale dei bocciati socialmente fragili era addirittura aumentata. La ricerca è del 1993 e il suo direttore, Walo Hutmacher, l’aveva pubblicata con un titolo emblematico: «Quand la réalité résiste à la lutte contre l’échec scolaire». È un problema di indifferenza alle differenze, come aveva già notato il sociologo Pierre Bourdieu nel 1966, che si insinua come un sassolino tra gli ingranaggi delle pari opportunità e li blocca: fingendo che non esistano delle eredità sociali e che, di conseguenza, tutti abbiano diritto al medesimo insegnamento, la scuola fabbrica riuscite e fallimenti scolastici senza la capacità di correggere le disparità preesistenti sin dalla nascita. Già avevo scritto dell’iniqua richiesta di diminuzione generalizzata del numero di allievi per classe, pretesa dall’iniziativa popolare «Aiutiamo le scuole comunali» (CdT del 7.10.09). Lo stesso discorso vale per il potenziamento, essenzialmente quantitativo, del sostegno pedagogico, una riforma su cui sta lavorando il Dipartimento e che, con buona probabilità, sarà una realtà in tempi brevi. Credere che questa ristrutturazione accrescerà in modo sostanziale la qualità della nostra scuola è come minimo un’ingenuità: nelle scuole che non ne hanno bisogno aumenterà la segnalazione di allievi in (presunta) difficoltà, mentre in altre si continuerà a fare quel che si può. Si tratta, ancora una volta, di un mal inteso senso dell’uguaglianza e delle pari opportunità. Insomma, siamo di nuovo all’inveterata indifferenza alle differenze, che porterà oneri finanziari in più, aumenterà le disparità sociali e lascerà immutato il problema originario, quello della lotta all’insuccesso scolastico: che non bastona quasi mai a caso e che continuerà a generare costi di ogni tipo.


L’articolo è stato pubblicato sul Corriere del Ticino col titolo Un mal inteso senso delle pari opportunità.

«Aiutiamo le scuole comunali». Un’iniziativa all’acqua di rose

«Giunta a metà del tempo massimo per la raccolta delle sottoscrizioni, l’iniziativa popolare “Aiutiamo le scuole comunali. Per il futuro dei nostri ragazzi” ha superato le 3’500 firme»: lo riferisce La Regione del 3 ottobre. Ma dov’è la notizia? Non può meravigliare che la raccolta di firme per «aiutare le scuole comunali» prosegua liscia come l’olio. Il segreto della riuscita sta nell’ovvietà delle proposte. E già oggi si può supporre che alla fine il parlamento, dopo qualche scaramuccia di facciata e le scontate sparate delle sue frange più populiste, approverà gran parte di quelle idee, tutt’al più con taluni sacrifici/rinunce imposti dalle finanze sempre sinistrate. Sono ormai anni che i principali temi che costituiscono il corpo dell’iniziativa sono evocati quali condizioni irrinunciabili per far funzionare bene e in maniera efficace le scuole comunali. La riuscita dell’iniziativa, poi, sarà agevolata dalla grande diversità degli oggetti indicati, che comprendono un po’ di tutto e un po’ di più, tanto da ricordarmi una votazione federale di tanti anni fa: avevo detto di sì al casco obbligatorio per i ciclomotoristi e mi ero ritrovato legato come un salame al sedile della mia auto. Per dire che, in pratica, ogni persona che ha a che fare, direttamente o indirettamente, con questo settore scolastico troverà certamente almeno un argomento da sostenere con la propria firma.
Quanto alla convinzione che le nuove norme miglioreranno notevolmente le scuole comunali – sono parole di chi ha lanciato l’iniziativa, avverbio compreso – ho forti dubbi, al di là dell’apprezzabile tentativo di suggerire alcuni accorgimenti, volti a un’applicazione differenziata e conforme alle necessità specifiche di alcune proposte. Intanto l’iniziativa prospetta riforme direttamente legate alla scuola e ai suoi tradizionali scopi, accanto a numerosi cambiamenti che hanno un sapore più sociale. Prendiamo il vetusto argomento del numero di allievi per classe, che l’iniziativa propone di ridurre energicamente, senza tanti se e ma. Nessuno è mai riuscito a stabilire quale sia l’equo numero di allievi da affidare a un maestro. Tutt’al più si possono sparare delle cifre a naso. Ma l’equità numerica di una classe dipende soprattutto dalle caratteristiche individuali di ogni allievo e dalla natura degli obiettivi che si perseguono. Definire un numero tot di allievi per ogni classe da Airolo a Chiasso a prescindere dalle differenze che sussistono da una sede scolastica all’altra – e posso assicurare che tali diversità possono essere molto marcate anche a pochi chilometri di distanza – è un po’ come decidere che tutti dobbiamo pagare le stesse imposte: cioè un’ingiustizia.
È innegabile che l’iniziativa «Per il futuro dei nostri ragazzi» ha tanti pregi, tra cui quello di aprire (forse) un dibattito su questa prima tappa della scuola dell’obbligo. Ma i problemi posti oggi dall’educazione non possono essere risolti col pensiero magico, con i tanti «Sarebbe sufficiente che…» di cui noi tutti siamo depositari. Resto convinto che le proposte di Raoul Ghisletta e cofirmatari riceveranno un consenso molto ampio. Alcune cose miglioreranno; altre resteranno al palo e così, prima o poi, lanceremo altre iniziative, in attesa che ci si confronti seriamente su quelle che dovrebbero essere le reali e realistiche finalità della scuola in un’epoca storica così confusa e squilibrata, che vede bambini, ragazzi e giovani tramutati in oggetti economici di grande rilevanza, con tutte le perverse conseguenze che ne derivano. Ha scritto di recente il pedagogista francese Philippe Meirieu: «Alla domanda: “Quale mondo lasceremo ai nostri figli?” – quesito che resta attuale come mai – è oggi urgente aggiungerne un’altra: “Che figli lasceremo al mondo?”». Persiste in me una vivace inquietudine: che questa scuola, dopo il massiccio e costoso maquillage, continuerà a premiare chi già è favorito – mi riferisco sia agli allievi che ai singoli istituti comunali – mentre i soliti noti continueranno a pagare lo scotto di un sistema ripiegato su se stesso e sui problemi del presente. Forse, invece, servono grandi visioni per il futuro.

Qual è il segreto della scuola finlandese?

La Finlandia ha una scuola da Oscar della pedagogia. Quando, nel 2001, sono stati pubblicati i risultati del primo rilevamento PISA – il controllo periodico delle competenze acquisite dai quindicenni di 57 paesi, rappresentanti il 90% dell’economia mondiale – gli sguardi di mezzo mondo si sono rivolti increduli verso questo paese freddo, poco conosciuto e scarsamente popolato. Come qualcuno forse ricorderà, PISA ha già sfornato le sue classifiche tre volte, nel 2001, 2003 e 2006; in tutte le occasioni la scuola finlandese è risultata la migliore del mondo. Le caratteristiche del successo sono molteplici e non riguardano solo le elevate medie delle competenze assimilate dai quindicenni in lettura, matematica, scienze e risoluzione di problemi:  un maggior numero di allievi finlandesi raggiunge buone prestazioni; la disparità delle performance è meno importante che in altri paesi; gli allievi in grandissima difficoltà sono meno numerosi che altrove; la variazione dei risultati da un istituto all’altro è la più bassa di tutti i paesi dell’OCSE; l’influenza delle condizioni socio-economiche è assai più debole che negli altri paesi. Inoltre la spesa per l’educazione risulta in molti casi inferiore a quella di stati, quali la Svizzera, che hanno riportato esiti almeno mediocri.
Eppure ancora agli albori degli anni ’60 la Finlandia era un paese rurale, con una società fortemente gerarchizzata e iniqua, governata da un sistema molto centralizzato. È solo a partire dal 1966 che la coalizione di sinistra andata al potere ha avviato una lunga successione di riforme, sotto lo slogan «Una buona scuola per tutti». A tutt’oggi gli ingredienti di questa scuola da sogno sono presenti in gran quantità. Spiccano alcuni pilastri concettuali. Si ritiene, nei fatti, che le basi essenziali per acquisire dei saperi e favorire una  crescita armoniosa degli individui risieda in un ambiente scolastico rassicurante, in docenti premurosi e preoccupati di creare dei legami affettuosi e cordiali coi loro allievi, in modo che questi possano sviluppare una benefica autostima. Si reputa altresì che l’esigenza di un forte richiamo ai valori morali e umanistici non debba ridursi a mera enunciazione legislativa, da sacrificare giorno dopo giorno sull’altare della trasmissione di conoscenze e di competenze mirate all’inserimento nel mondo del lavoro. Conseguentemente «imparare senza stress», nel rispetto totale di ogni allievo, si traduce in una scuola che rispetta i ritmi di apprendimento di ognuno: le note fanno la loro prima apparizione dopo i nove o dieci anni della scuola dell’obbligo (Educazione fondamentale); la ripetizione di classe non esiste; accanto ad alcune discipline obbligatorie, ogni allievo ha un discreto margine di manovra per scegliere altre materie che completano il suo curricolo; le ore settimanali di lezione (di 45 minuti, come da noi) sono una ventina a 7 anni e arrivano a 30 con l’accesso al liceo (anche le ore di studio a casa sono inferiori rispetto alla gran maggioranza degli altri paesi dell’OCSE: 5 alla settimana, contro la media di 8 degli altri).
Queste e ben altre informazioni sono contenute in un’inedita analisi del sistema scolastico finlandese pubblicata quest’anno dalla casa editrice ESF, nella collezione «Pédagogies» diretta da Philippe Meirieu. Si tratta del volume «La Finlande: un modèle éducatif pour la France? – Les secrets de la réussite», di Paul Robert: «una lettura che si impone», scrive Meirieu nella presentazione «per chiunque voglia partecipare alla riflessione sull’avvenire della nostra scuola. Se ne esce informati e più lucidi. Anche rincuorati». Poi, per non farsi troppe illusioni sulla facilità con cui si potrebbe immaginare di importare il modello alle nostre latitudini, conviene riflettere sulla citazione che apre il volume: «È così poco facile nella vita raggiungere la felicità, che uno, quanto più affannosamente la cerca, tanto più se ne allontana, per poco che esca di strada» (Seneca, De vita beata).

Infine – è pur giusto ricordarlo – non si può sorvolare sulle due stragi che hanno sconvolto due scuole finlandesi nel novembre del 2007 e neanche un mese fa. Le notizie avevano colpito l’opinione pubblica, certo di più che se fossero giunte, che so?, dai soliti USA. Come dire che dalle schegge impazzite è difficile difendersi e a volte sono proprio taluni sistemi scolastici, selettivi fino all’esasperazione, a generare i killer. Non è certo questo il caso.

 

PAUL ROBERT, La Finlande: un modèle éducatif pour la France? – Les secrets de la réussite, 2008, ESF Éditeur, ISBN 978-2-7101-1934-0

La scuola dell’obbligo tra Chiasso e la Lapponia

Come dar torto al deputato del Gran Consiglio Raoul Ghisletta quando scrive, sulla Regione di sabato scorso, che «le riforme in ambito scolastico […] si fanno ispirandosi ai modelli vincenti, e non con il bricolage o con le esortazioni buonistiche»? Prendendo le mosse dai risultati scadenti dell’ormai noto studio PISA 2003, Ghisletta cita «uno di questi modelli vincenti […], quello finlandese, recentemente illustrato da un vicerettore di liceo di Helsinki, il prof. Heikki Kotilainen, che ha effettuato una serie di conferenze nella Svizzera tedesca». Non conosco il prof. Kotilainen, né ne ho mai sentito parlare. Però il nostro deputato cita un’intervista da lui rilasciata alla Neue Luzerner Zeitung a fine maggio, in occasione di una serie di conferenze che ha tenuto in giro per la Svizzera tedesca, non si sa invitato da chi.
È vero che l’organizzazione scolastica finlandese è per parecchi aspetti diversa dalla nostra, così com’è altrettanto certo che tra il paese scandinavo e il Ticino ci sono differenze politiche e culturali che in qualche modo influenzano il modo di reggere una scuola e di produrre dei risultati. Ad esempio il «tradizionale culto della lettura in voga in Finlandia», – cito il prof. Kotilainen citato da Ghisletta – che «si riflette sulle competenze linguistiche degli allievi», non può essere importato sic et simpliciter, se solo si pensa a quali possano essere le ragioni storiche e culturali che hanno generato questo culto da sogno e che lo tengono ancor oggi in vita. Un altro elemento che non si può importare è la percentuale di stranieri, che nel paese dei mille laghi è del 2% e che fa dire a Ghisletta «che significa avere 10 volte meno problemi interculturali e linguistici rispetto alla media svizzera». Il rimando un po’ xenofobo a questo dato ha invero un fondo di populismo: perché anche da noi esistono fior di scuole composte in massima parte da autoctoni, magari appartenenti a quella «classe politica borghese» che tanto infastidisce il nostro onorevole: eppure il culto della lettura non è di casa, così come le competenze linguistiche dei nostri allievi son quelle che conosciamo.
A ciò si potrebbe aggiungere che le classi finlandesi sono assai più numerose delle nostre (anche oltre 30 allievi, ciò che secondo il vicerettore Kotilainen rimane un problema): ma con alcune sostanziali differenze non solo quantitative. Intanto le scuole obbligatorie – dai sei anni della scuola elementare ai tre della media – sono poste tutte, ma proprio tutte, sotto l’egida dei comuni, che ricevono importanti sostegni dal governo centrale quando sono in presenza di casistiche particolari che potrebbero rendere più difficoltoso l’insegnamento: è il caso – appunto! – della presenza di allievi alloglotti, così com’è il caso della poco densamente popolata Lapponia. Invece da noi tutto è stabilito una volta per tutte. L’assegnazione agli istituti delle unità lavorative nell’ambito del sostegno pedagogico, ad esempio, è stabilita su basi burocratiche: ogni tot allievi c’è un docente di sostegno, e a nessuno importa se vi sono tanti o pochi allievi che potrebbero giovarsi di questo importante appoggio. Eppure è a tutti noto che vi sono, in giro per il Cantone, istituti con problematiche ben diverse, mentre in nome di uno strano senso dell’equità c’è chi ha troppo e chi troppo poco.
Infine gli allievi finlandesi non conoscono praticamente il dispositivo della bocciatura e, nel contempo, frequentano la scuola per molte meno ore dei nostri. Come ha dichiarato ai «Cahiers pédagogiques» la prof. Leena Vaurio, insegnante all’Università di Helsinki, «Vien da dire che la fruttuosa situazione sia la testimonianza diretta della competenza degli insegnanti! (…) Gli allievi svolgono buona parte del loro lavoro a scuola e si impara bene perché le ore di insegnamento sono impiegate in modo efficace. Le giornate scolastiche sono relativamente corte, ma dense (…). È chiaro che se l’allievo resta a scuola per delle attività extra-scolastiche, la sua giornata si allunga. In Finlandia le scuole propongono poche attività di questo tipo, sia in ambito sportivo che altro».
Quasi come da noi, dove il parlamento rifila nuovi compiti alla scuola con fenomenale regolarità.

Nel grande emporio della formazione

Sul Corriere del 26 marzo, Saverio Snider ha chiosato con sarcasmo la notizia, rimbalzata sin qui dall’oberland zurighese, secondo cui “…un liceo di Wetzikon ha deciso di lanciare un «progetto pilota» sul fronte pedagogico: lezioni senza docente per promuovere l’apprendimento individuale. Gli allievi riceveranno una lista di compiti e obiettivi didattici e dovranno sbrogliarsela da soli; gli insegnanti saranno presenti per assisterli solo per un’ora settimanale (invece delle odierne tre o quattro), salvo ovviamente essere raggiungibili tramite posta elettronica”. Ironia a parte, la pensata non è così peregrina come sembra, in un’epoca in cui la scuola è sottoposta a pressioni di varia estrazione, nell’intento sempre più appariscente di trasformare un’istituzione al servizio del Paese in un immenso emporio dell’istruzione, dove molti vorrebbero che ognuno potesse servirsi secondo i suoi bisogni più istintivi e immediati.
Stando a quanto scrive Snider, la trovata non ha alcun obiettivo didattico, ma risponde solo a una ragione economica, quella di risparmiare sui salari. Ma la Municipalità di Wetzikon potrebbe inconsapevolmente aver scoperto l’uovo di Colombo del liberismo applicato all’istituzione scolastica: in fondo se non fosse per gli insegnanti e l’apparato burocratico dei diversi dipartimenti dell’istruzione, non vi sarebbero altri impedimenti sulla strada dei programmi à la carte, dell’energico aumento del numero di allievi per classe e dell’applicazione di una vera selezione, per separare i meritevoli dagli incapaci. Nell’800 la borghesia laica e liberale si era battuta aspramente contro il clero, per sottrarle il potere dell’educazione dai fanciulli e dei giovani, che la chiesa esercitava pro domo sua. Anche perché – come ricordava Diego Erba in un recente articolo su La Regione – “la democrazia s’impara soprattutto praticandola in famiglia, negli istituti scolastici e quindi nella società”. Quella lotta ha portato all’edificazione della scuola repubblicana, che è scuola di tutti, grazie all’impegno di persone che credevano nella democrazia. Ancora tre anni fa, in occasione della votazione sulla proposta di sussidio alle scuole private, c’era stata una corsa all’evocazione dello spirito fransciniano, per sottolineare i pericoli di una scuola consegnata nelle mani degli interessi privati.
Come sembrano lontani, quei tempi! Non passa giorno senza che i neo-liberisti nostrani si scaglino contro la scuola e i suoi insegnanti, descritti come una casta di sfaccendati pieni di privilegi, che servono a poco e che, soprattutto, costano un patrimonio. Insomma: i poteri forti sono stufi di questa scuola che, nelle intenzioni del Parlamento, dovrebbe promuovere “…lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà”: quante frottole… In tal senso la proposta di Wetzikon di togliere dai piedi un bel po’ di insegnanti è una trovata formidabile, perché fa risparmiare un sacco di soldi e, soprattutto, non implica la dispendiosa perdita di tempo per accrescere le competenze di chi potrà benissimo guadagnarsi da vivere senza troppe nozioni. Anzi, a questo punto converrebbe estendere la riforma anche a tutta la scuola dell’obbligo: pochi insegnanti affiancati da un numero adeguato di sorveglianti – che costano poco e si potrebbero benissimo reclutare tra i genitori – favorirebbero in tempi brevi la metamorfosi della scuola che conosciamo in un grande supermercato della formazione, dotato beninteso di regolare mensa e organizzato attorno a proposte formative variegate: inglese, matematica, biologia e letteratura; ma anche bricolage, pallacanestro, origami e cucina. A libera scelta, con buona pace della democrazia e dell’integrazione sociale e culturale.